Per riproporre nel dibattito pubblico la questione sindacale, quali sono i termini attuali? A questa domanda Baglioni risponde con il libro (appena pubblicato dal Mulino) intitolato Laccerchiamento. Il libro assai ricco, sia sul piano analitico che delle possibili implicazioni operative, si articola in tre parti: lanalisi dei problemi che influiscono sulle iniziative sindacali; le trasformazioni del contesto che si riflettono sul mondo del lavoro e sulla sua rappresentanza; lindividuazione di possibili sentieri che potrebbero consentire un adeguamento delle tutele.
La tesi di fondo di Baglioni è che un insieme di eventi hanno determinato un ripiegamento del ruolo del sindacato, fino al punto che la questione del lavoro salariato oggi non è più considerata la questione sociale decisiva. La constatazione corrisponde ad un dato di fatto su cui ci sarebbe quindi poco da discutere. Tuttavia mi sembra utile qualche osservazione. Una di carattere semantico a proposito del ripiegamento. Un paio circa linterpretazione delle cause strutturali di difficoltà. Infine una considerazione in relazione alla specificità sindacale del caso italiano.
Dico subito che la formula del ripiegamento, utilizzata da Baglioni, non mi piace molto. Intanto perché mi fa tornare alla mente la sortita del generale Luigi Cadorna, responsabile nella guerra 15 18 di gravissime perdite per i nostri soldati a causa delle sue insensate battaglie di logoramento e che, dopo la disastrosa ritirata di Caporetto, non esitò a dichiarare: ci siamo attestati su posizioni retrostanti. Ma soprattutto perché penso che il termine più adatto per descrivere la condizione attuale del sindacato sia declino. Intendiamoci bene. Il declino di una istituzione non coincide con il decadimento delle persone. Non son chi fui; perì di noi gran parte: / questo che avanza è sol languore e pianto, dice Foscolo. Ma questo succede appunto alle persone. Invece le istituzioni, anche quelle in declino, non sono destinate ad imminente scomparsa. Possono durare decenni. Addirittura secoli. La storia è piena di esempi.
Daltra parte il ripiegamento può anche corrispondere ad una scelta tattica, mentre il declino riguarda invece (non importa se per cause oggettive o soggettive) un decadimento una perdita della passata vitalità. Ora, si può avere lopinione che si vuole circa le cause, ma mi sembra arduo non prendere atto del fatto che il potere negoziale del sindacato risulta in declino nella maggior parte dei paesi europei e negli Stati Uniti. Nel dubbio basterebbe dare una occhiata alle dinamiche redistributive per averne conferma. Mi riferisco ovviamente al dato che in ciascuno di questi paesi la quota di reddito destinata al lavoro è da anni in regresso, con un parallelo aumento di quella destinata al profitto ed alla rendita.
Tra le cause strutturali che spiegano questo stato di cose ce ne sono, a mio avviso, un paio che dovrebbero essere approfondite. Altrimenti sarà inevitabile rassegnarsi al fatto che la perdita di ruolo da parte del sindacato, quanto meno nellambito delle politiche redistributive, diventi irreversibile.
La prima causa da tenere presente è che il capitale è globale, mentre il lavoro è locale. Asimmetria che si somma alla dissociazione tra economia globalizzata ed istituzioni politiche che agiscono a scala ridotta (nazionale, locale, regionale) e dunque non sono in grado di controllare sistemi economici e finanziari che operano invece a scala mondiale. La crisi finanziaria che sta scuotendo i mercati è una conferma da manuale di questa dissociazione e dei guasti che può produrre un sistema economico e finanziario sostanzialmente autoreferenziale. Conseguenza pratica: per tutto il novecento la discussione e la contrapposizione politica e sociale hanno riguardato la diade: pubblico-privato. Per alcuni il dilemma è stato: riforme o rivoluzione. Oggi invece lalternativa è soprattutto tra regolazione e deregolazione. Il problema è quindi: quali regole sono necessarie? Chi le deve fare? Chi e come le deve fare rispettare?
La seconda riguarda il perché la questione del lavoro salariato non è più la questione sociale decisiva. Personalmente concordo con quanti ritengono che il sindacato debba migliorare la definizione dei suoi obiettivi ed anche la propria capacità di comunicazione. Ma sono convinto che debba misurarsi anche con una ragione più di fondo. Mi riferisco in particolare al fatto che il sociale, come labbiamo inteso nel secolo scorso, non esiste più. Oggi non cè una questione sociale. Ci sono diversi problemi sociali: i giovani, i vecchi, gli immigrati, la precarietà, il salario, la pensione, il costo della vita, ecc. In effetti, la nostra vita sociale è presa dassalto da un lato da forze non sociali come: linteresse individuale, la violenza, la paura; e dallaltro da attori i cui obiettivi sono anchessi tuttaltro che sociali e che sono fondamentalmente: la libertà personale, o lappartenenza ad una comunità particolare (etnica, religiosa, sportiva, ecc.). Infatti, se una volta ad un lavoratore torinese si fosse chiesto: chi sei?. La risposta più probabile era: sono un operaio Fiat. Oggi, anche se lavora alla Fiat è più facile che risponda: sono un tifoso juventino, oppure sono un mussulmano, o ancora: un ecologista, un pacifista, un consumatore, un fan di Lucio Dalla. Voglio dire che lappartenenza ad un gruppo sociale (la classe, un ceto professionale, ecc.) che in passato costituivano un elemento forte di condivisione di un destino comune e quindi di identità, oggi è considerata un dettaglio irrilevante. Insomma, una volta cera una identità sociale forte, ora sostituita da una pluralità di identità deboli. E questo naturalmente pesa sulla capacità di aggregazione, di mobilitazione, di rappresentanza del sindacato.
Vengo infine al caso italiano. Baglioni ricorda giustamente che la funzione naturale del sindacato è quella di evitare la concorrenza tra i lavoratori o, per dirla con Cella, di togliere il lavoro dalla logica concorrenziale del mercato. Così è stato fin dallinizio dellesperienza sindacale e questo rimane il criterio su cui si fondano le tutele contrattuali e legislative. Ma se lo scopo è quello di impedire una concorrenza al ribasso tra lavoratori, che metterebbe irrimediabilmente in causa il sistema delle protezioni, credo che la stessa preoccupazione debba essere manifestata rispetto alla concorrenza tra le organizzazioni sindacali. Tanto più in una situazione di pluralismo organizzativo come quella italiana.
Ciò che deve allarmare non è tanto il fatto che in questa od in quella vicenda le diverse organizzazioni possano anche arrivare ad assumere posizioni diverse. E capitato in passato. Può capitare nel presente. Potrà capitare in futuro. Daltra parte decidere vuol dire tagliare, dividere. E perciò possibile che nel momento di assumere una decisione ci si possa anche dividere. Il punto di preoccupazione è quando questo accadimento accidentale si trasforma in una linea di comportamento. In un atteggiamento programmatico. Quando cioè si teorizza (o anche soltanto si considera normale) la concorrenza tra organizzazioni. Perché questa logica produce gli stessi dannosi effetti della concorrenza tra i lavoratori, che il sindacato è invece nato per scongiurare. Con il rischio che le cose per il sindacato italiano diventino ancora più difficili. Non solo perché come gli altri deve fare i conti con le profonde trasformazioni di contesto (interne ed internazionali), ma perchè a complicarle finirebbe per metterci anche del suo.
Guido Baglioni
L'accerchiamento - Perché si riduce la tutela sindacale tradizionale
Il Mulino, 2008
pp. 288, 19,55