Il sindacato si gioca un futuro da lobby

Il sindacato si gioca un futuro da lobby Se passa la linea Marchionne, ora sposata dalla Confidustria, con la fine del contratto nazionale le adesioni sono destinate inevitabilmente a ridursi, bisognerà ricorrere alle leggi più che alla contrattazione e le organizzazioni confederali assumeranno il ruolo di gruppi di pressione. Ci si può rassegnare a questo destino?

Dunque, quello che sembrava un caso eccezionale, gli accordi sindacali Fiat per gli stabilimenti di Pomigliano e per le Carrozzerie di Mirafiori, può rappresentare la prospettiva del sistema di relazioni industriali. Una destrutturazione del sistema dove, alla lunga, può prevalere non solo la chiusura aziendalista ma anche il suo compagno occulto: il sindacato giallo.

 

La Confindustria, infatti, con due pagine del proprio giornale in due diversi giorni ha lanciato l’ipotesi del cosiddetto “contratto di prossimità” che dovrebbe avere la prevalenza rispetto a quello “lontano” dai lavoratori, cioè il contratto nazionale. Ipotesi che è stata rilanciata successivamente dal vicepresidente Alberto Bombassei in risposta ad alcune dichiarazione dell’Ad di Fiat Sergio Marchionne.

 

Nella sostanza la impostazione della Confindustria richiama un cambio di modello nel sistema contrattuale: il livello aziendale come prevalente. Dove basta che la maggioranza semplice dei lavoratori approvi l’accordo, perché che esso non solo abbia validità per tutti i lavoratori dell’azienda, ma sostituisca il contratto in vigore del livello superiore, presumibilmente quello nazionale. Se si considera che la legge ha già defiscalizzato il salario erogato in azienda a titolo di compenso per gli incrementi di produttività e allo stesso modo si procede per le prestazioni di lavoro straordinario, il cerchio si chiude perfettamente. Il contratto nazionale diventerebbe un residuo in via di superamento.

 

Con questa proposta la Confindustria scioglierebbe cosi il nodo della contraddizione nella quale è stata messa dall’iniziativa della Fiat. Questa è organizzativa e giuridica e riguarda la inderogabilità dei contratti sottoscritti dalle sue federazioni di categoria da parte degli associati, che verrebbe superata in quanto liberati dai vincoli contrattuali nazionali con il “contratto di prossimità” e comunque potrebbero rimanere associati per utilizzare i servizi confederali e godere della rappresentanza politica. Si rovescerebbe nel suo contrario ciò che accadeva negli anni ‘60 e ‘70 quando, pur di non riconoscere la contrattazione aziendale, le Associazioni industriali non firmavano le intese aziendali.

 

L’aziendalismo delle relazioni industriali cambierebbe anche la raccolta del consenso sindacale a livello aziendale. La maggioranza semplice dei votanti per approvare gli accordi a questo livello sarebbe un incentivo a operare da parte delle aziende per la creazione di “sindacati di comodo”. E con questo si realizzerebbe un ulteriore aggiramento dello Statuto dei lavoratori. C’è una buona probabilità che da questa impostazione possa emergere la necessità di uno strumento come lo “Smig”: un salario minimo, con caratteristiche “erga omnes”, che copra tutti i lavoratori che non godano della contrattazione aziendale, magari esteso ai lavoratori sottoposti ai cosiddetti contratti atipici con livelli salariali che sarebbe difficile mantenere al livello dei minimi contrattuali attuali. Ciò si renderebbe necessario perché la contrattazione aziendale copre a malapena il 30% dei lavoratori. Due argomentazioni difficilmente eludibili.

 

I sindacati “riformisti“, come vengono chiamati enfaticamente da Maurizio Sacconi Cisl e Uil, quale spazio avrebbero in questo nuovo scenario e cosa comporterebbe per tutto il sindacato confederale la prospettiva che questa impostazione delinea?

 

 

Se si prendono a riferimento le maggiori esperienze sindacali a livello internazionale come gli Stati Uniti, la Francia e il Regno Unito, per le quali la contrattazione avviene esclusivamente a livello aziendale, ovviamente dove i rapporti di forza lo consentono, possiamo notare che dal punto di vista organizzativo i sindacati sono deboli e il livello di adesione dei lavoratori costantemente in calo. Per Stati uniti e Francia questo significa che il tasso di sindacalizzazione tra i lavoratori attivi non supera il 9 %. Questo basso livello di iscrizioni influenza, in questi casi, il profilo operativo dei sindacati la cui azione assume più un ruolo politico di pressione verso i partiti, in quanto è la legge e non il contratto l’aspetto decisivo per la tutela estesa dei lavoratori. E’ la legge il vero livello determinante anche delle relazioni industriali, salvo appunto dove i rapporti di forza sono favorevoli al sindacato come nel caso delle tre aziende automobilistiche americane. E nel caso specifico non in tutti gli stabilimenti.

 

In queste esperienze, che potrebbero essere l’orizzonte prossimo del sindacato confederale italiano, il ruolo è più da lobby che da sindacato soggetto politico autonomo.

La rottura della ALF-CIO americana, dove alcune importanti categorie sono uscite e hanno dato vita ad una propria confederazione, nasce proprio dai dissensi per il sostegno dato alla campagna elettorale del democratico Kerry in occasione delle presidenziali Usa. E abbiamo visto come il sostegno sindacale al candidato democratico nelle ultime presidenziali sia stato importante!

 

Un incerto mestiere contrattuale aspetta dunque il sindacato confederale italiano, oltre a un prevedibile ridimensionamento organizzativo della parte più militante degli iscritti nel caso che il disegno di Confindustria vada a segno. Il sindacato italiano dovrebbe inventarsi una nuova funzione che lo renda appetibile sul mercato delle adesioni associative. Un mercato non esclusivo o quasi, come quello attuale che è il portato di un assetto consolidato delle relazioni industriali, ma molto competitivo ed esposto alle incursioni legislative che operano sotto la pressione dei numerosi interessi e delle potenti lobby politiche che si celano nel mondo associativo italiano.

 

Certo, il sindacato confederale ha da tempo allargato la propria offerta di servizi per gli associati, tra l’altro investendo molto sull’allargamento della base associativa tra i pensionati che oggi contano tra i 5 e 6 milioni di iscritti complessivi tra Cgil,Cisl eUil.  Questo exploit è favorito dal fatto che i lavoratori per le pratiche pensionistiche utilizzano gli enti di patronato del sindacato dai quali viene l’invito all’iscrizione al sindacato dei pensionati confederali per l’ulteriore tutela negoziale. L’investimento poi nei servizi a disposizione degli iscritti e dei non iscritti è molto ampio: dai centri per l’assistenza fiscale a quella legale passando dal turismo e alle associazioni di volontariato sociale. Questo delinea una missione assistenziale e di impegno sociale verso i lavoratori e i pensionati pregevole e anche necessaria.

 

Può il sindacato confederale italiano accontentarsi di questo ruolo, che tra l’altro lo espone a fare i conti con la politica in modo totalmente diverso dal passato e presumibilmente subalterno? E le categorie del sindacato confederale, che negli anni ‘60 e ‘70 hanno contribuito con la loro azione contrattuale e politica a cambiamenti decisivi per l’affermazione del sindacato soggetto politico autonomo, non hanno niente da proporre per invertire questa deriva e scongiurare questo pericolo? Un sindacato confederale indebolito sul versante contrattuale e meno autonomo dai partiti sarebbe anche un indebolimento della democrazia italiana. Ma questo è un altro discorso.

Giovedì, 16. Giugno 2011
 

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