Il Recovery Plan non basta: serve un Reform plan

Bisogna cogliere l’occasione per rovesciare le politiche nefaste degli ultimi decenni, secondo le lezioni di Roosevelt e Keynes e il modello delineato nella nostra Costituzione. E bisogna anche estendere la democrazia a tutti gli ambiti, compreso quello delle aziende, ripensando a una ipotesi da sempre trascurata: la partecipazione dei lavoratori

In Italia, superata la fase acuta del lockdown, si lavora ai piani di ripresa produttiva il più velocemente possibile, volendone imprimere anzi una linea innovativa. Sempre non dimenticando però che occorre dare risposte immediate alle vecchie e nuove gravi sofferenze sociali dovute, queste ultime, alla drastica riduzione dell'attività produttiva.   

Un  compito veramente immane  e non di breve momento per il quale non sono sufficienti le pur necessarie imponenti misure finanziarie, ma che richiederà il concorso fattivo e solidale, non solo a livello europeo che sembra dare finalmente segnali positivi e non autolesionistici, come sinora avvenuto con le politiche della cosiddetta "deflazione risanatrice" o della "austerità espansionistica", due nomi per dire la stessa cosa.

Una vecchia concezione che risale al «punto di vista del Tesoro» britannico nella crisi degli anni Trenta; contestato, come noto, da John Maynard Keynes, ma ritornato in vigore con l'insorgenza del neoliberismo dagli anni ottanta sino ad oggi. 

Che sia rimasto in auge, malgrado le «dure repliche» della logica e soprattutto della storia, conferma che dietro i paradigmi economici e la loro affermazione non sono certo estranei robusti  interessi esterni. E' stato acutamente affermato che mentre il fenomeno (deleterio) dell'imperialismo delle scienze è materia di sociologia delle scienze, quello dell'economia di «sociologia del potere». 

Non bastano le imponenti misure di finanziamento, ma occorre la consapevolezza di uno sforzo comune e solidale di tutti, e il contributo progressivo da parte di chi dispone di maggiori possibilità; nello spirito della nostra Costituzione.      

E' purtroppo noto, da esperienze anche meno tragiche dell'attuale, che le crisi economiche hanno effetti sociali differenziati,  colpendo i più deboli ed accentuando le diseguaglianze nelle loro varie dimensioni. 

Tanto per fare un esempio sul contributo solidale richiesto, oggi, la priorità dell'occupazione e delle stesse condizioni di lavoro per la dignità della persona, deve far premio rispetto al profitto e soprattutto ai dividendi.  Alcune aziende hanno fatto questa scelta, saggia e opportuna, che dovrebbe essere generalizzata.

Evitare la catastrofe occupazionale e quindi anche della domanda aggregata, come Keynes insegna, oltre che ad una imprescindibile esigenza sociale ed etica, riconosciuta dal secondo dopoguerra grazie al welfare teorizzato e praticato da William Beveridge e dalle socialdemocrazie, risponde a una  condizione essenziale per una più rapida ripresa economica.

Il premio Nobel per l'economia Lawrence Klein, keynesiano convinto, già negli anni ottanta, di fronte alla complessità della situazione economica, della crisi energetica e di altre "strozzature" nel sistema, riteneva essenziale intervenire non solo sul piano della domanda, ma anche su quello dell'offerta aggregate[1]

Il lato della domanda, come è noto, è costituito sul piano interno dalla spesa privata e pubblica per consumi e investimenti, e sul piano esterno dalle esportazioni.

Mentre per queste ultime molto dipende dalle decisioni estere e dalla situazione internazionale, purtroppo oggi non brillante, sul piano interno molto di più si può e si deve fare con la massima coordinazione e cooperazione.

E la stessa intelligente cooperazione vale per l'intervento sul lato dell'offerta che tenga conto delle complesse relazioni interindustriali e non solo di singole filiere produttive e perché ci sia adeguata corrispondenza con la domanda evitando strozzature e tensioni sul mercato.

Interventi mirati e selettivi sui due piani, dunque, se si vuole veramente, come si dice, imprimere una direzione nuova allo sviluppo produttivo.

Ma va superato un equivoco: non c'è solo la questione degli investimenti industriali e infrastrutturali, c'è tutto il problema del terziario, molto del quale è intimamente connesso con la produzione industriale, e quello che riguarda specificatamente i servizi sociali e l'Amministrazione pubblica.

A tal riguardo non basta rivedere normative e fornire adeguate attrezzature, occorre riportare in onore il lavoro pubblico, riqualificarlo, responsabilizzarlo e retribuirlo adeguatamente: i casi della scuola e della sanità e della stessa Amministrazione nel suo complesso centrale e locale, è drammaticamente davanti agli occhi.    

Ma tutto questo è possibile lasciarlo alle singole e autonome scelte private e territoriali, senza un adeguato coordinamento e un indirizzo generale ?

Ho più volte ricordato l'invito appassionato di Federico Caffè a riconoscere il «nuovo modello di sviluppo» nella nostra Costituzione. Nella prima parte - diceva - si trova la sua ispirazione «ideale», mentre per i contenuti «tecnici» rinviava ai lavori della Commissione economica per la Costituente.[2]    

E' appena il caso di ricordare che l'art. 41, al primo e al secondo comma, afferma che «L'iniziativa privata è libera», ma che «non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; mentre al terzo comma recita: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica  pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».

Una programmazione, dunque, non solo definita «tecnicamente» e centralmente  a tavolino, quanto costruita sulle esigenze reali delle gente comune e che per questo veda la più ampia convinta partecipazione delle forze sociali e a livello territoriale; partecipazione comunque necessaria per la sua effettiva realizzazione e le successive verifiche.

L'art. 47 della Costituzione recita, al primo comma: «La legge incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito». E' del tutto evidente la congruenza di questo articolo con il precedente sopra citato; in coerenza d’altronde con quei lavori della Commissione economica della Costituente ricordati in nota; che vuole il credito «imbrigliato in funzione della programmazione».

E' la politica che deve cavalcare l'economia e questa deve essere messa al servizio di quei «fini sociali» che la stessa Costituzione in abbondanza delinea. A cominciare dalla piena e dignitosa occupazione nel rispetto e valorizzazione della persona umana.

E purtroppo, su questo piano, non poche sono le responsabilità degli economisti e dei politici che hanno per larga parte raccolto l' «eredità avvelenata» di Hayek e Friedman, come denunciò Samuelson dopo la crisi del 2008, e che ancora ci perseguita. 

Ma non meno responsabilità attiene ai giuslavoristi che, progressivamente, si sono sempre più fatti carico delle «ragioni» aziendali a detrimento di quelle dei lavoratori, dimenticando la loro ragione  professionale che risiede innanzitutto nella tutela della parte contraente più debole: così è nato il diritto del lavoro, per non parlare di quello sindacale.    

Federico Caffè, sin dal 1945, intervenendo sui problemi della Ricostruzione, avvertiva che non esiste un problema di produzione che non sia anche e contemporaneamente un problema di distribuzione e non esiste un problema di distribuzione che non sia anche un problema di  equa distribuzione, che si possa rinviare a un «secondo tempo» che non arriverà mai. Non c'è solo il problema di far sorgere imprese produttive ma anche di come farle crescere e sviluppare;  e poneva il problema della partecipazione alla gestione aziendale sottolineandone anche gli effetti positivi dal punto di vista produttivo[3].

Come è noto, era allora in corso l'importante esperienza dei Consigli di gestione con la partecipazione anche agli utili aziendali che i sindacati misero in comune a livello territoriale per aiutare a risolvere i  drammatici  problemi occupazionali.

Il tema, pur previsto dal Costituzione, e rimasto da sempre insoluto in Italia è un'anomalia rispetto ad altri paesi[4].  

Tanto più urgente oggi, perché il miglior utilizzo e adattamento alle concrete realtà aziendali, delle nuove tecnologie, richiedono la massima e intelligente partecipazione di coloro che le gestiscono.

Ritengo che questa storica arretratezza sia una delle cause principali della nostra inaccettabile bassa produttività, insieme allo «sciopero» degli investimenti innovativi da parte imprenditoriale.

Non solo quindi un Recovery plan ma insieme un Reform Plan, che è stato a ben vedere la vera lezione del New Deal; purtroppo in Italia poco conosciuto e talvolta sottovalutato come ogni politica veramente riformista.

Quella (la lezione) di superare  la grave crisi economica non rinunciando ad avanzare sul piano civile e sociale e quindi democratico.

Diceva Roosevelt in uno dei suoi discorsi: «Il vero problema è se dobbiamo permettere che le nostre difficoltà economiche e la nostra imperfetta organizzazione frustrino il sano e sostanziale sviluppo del nostro governo civile» [5]

Una lezione non compresa, poiché, da decenni, ad ogni crisi si risponde con una «regressione» sul piano  civile e sociale e quindi democratico [6].

E' tempo che lo Stato faccia un deciso passo in  avanti nel campo economico dopo averne fatto troppi indietro. Di recente, Romano Prodi ha giustamente chiesto che, in caso di significativi  interventi statali, è del tutto legittima una partecipazione azionaria dello Stato perché ci sia un controllo che quegli aiuti pubblici siano coerentemente utilizzati.

Così non si vede, ad esempio, perché, dopo aver investito cospicue risorse nel salvataggio del Monte dei Paschi di Siena, e in un momento di emergenza come l'attuale, lo Stato debba uscirne di corsa. E perché, al contrario di quanto avviene in altri Paesi, l'Italia non possa disporre di una presenza pubblica in un comparto centrale per la vita economica nazionale.

Considerando, inoltre, le non poche discutibili gestioni riscontrate nel comparto e che, in generale, la massimizzazione del profitto e tanto più del "valore" azionario, qui e subito, con le correlate stok options al management, mal si attagliano ad una sana e prudente gestione bancaria,  perché queste  massimizzazioni sono legate all'assunzione di sempre maggiori rischi; e perché questa visione gestionale di cortissimo respiro mal si attaglia al finanziamento della produzione. 

Non si vede perché, se si vuole imboccare una via nuova, come si sente continuamente ripetere, non si debba affrontare finalmente anche il tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale.

Non si tratta solo di una questione meramente economica ma di democrazia tout court.

Il filosofo Guido Calogero ha scritto, con l'acutezza che lo contraddistingue, che «la più solida democrazia è fondata sulla pluralità delle democrazie». E cioè quella aziendale (industriale), economica, sociale e politica, solidali tra di loro. Mentre Norberto Bobbio constatava,  sua volta, che la democrazia si era fermata sulla soglia delle aziende. Superata non  di molto dal pur importante Statuto dei lavoratori.

Quella «pluralità» è l'unica risposta ai pericoli sia del Leviatano dello Stato, sia di quello delle multinazionali. Roosevelt le considerava il «despota del XX ° secolo», e si alleò con il sindacato per superare le resistenze alle riforme sociali. Un'alleanza valorizzata da nostro Federico Mancini e che diventò poi una costante del Partito democratico Usa[7].

Noi oggi, anche a maggior ragione, possiamo riconoscere nelle multinazionali il «despota» del XXI° secolo; che ha inquinato per tanta  parte gli Stati nazionali e le istituzioni internazionali .

Nicoletta Rocchi, ex segretaria nazionale della Cgil, ha proposto di recente l'adozione del sistema di governance aziendale cosiddetto «duale». Un sistema utilizzato in altri paesi, innanzitutto nella Germania, e previsto dalla normativa comunitaria sia per le aziende private, a partecipazione statale e in forma cooperativa, nei vari settori produttivi compreso quello bancario. Un sistema che prevede, come è noto, un Consiglio di sorveglianza dedicato alle questioni di strategia aziendale con la presenza del sindacato e un Consiglio di Amministrazione dedicato alla gestione corrente, composto esclusivamente da manager indicati dalla proprietà.

Non è una proposta rivoluzionaria e «comunista», è solo un proposta di intelligente riforma del «sistema economico in cui viviamo», per dirla con Keynes; quel tipo di proposte che, purtroppo, ha sempre lasciato in sconsolata «solitudine» ogni  vero riformista.

Si parla di nuovo, come ad ogni emergenza, di «Patto sociale»,  ma il sindacato non dovrebbe ripetere le frustranti esperienze precedenti che si conclusero troppe volte, per mancanza di lealtà  delle altre parti, con i soliti sacrifici in termini di compressione salariale e di diritti a fronte dei ripetuti condoni, evasioni ed elusioni fiscali malamente contrastate; con la mancanza di adeguate forme di tutela del risparmio lasciato alle lusinghe del cosiddetto «risparmio gestito» e con il mancato incoraggiamento all'investimento popolare nei grandi gruppi industriali, favorendo il sistema della public company - così sottraendoli alla gestione avida di tante famiglie ormai ben lontane dallo spirito dei fondatori - e il mancato incoraggiamento all'investimento di carattere etico; la mancata attivazione di politiche di abitazione popolare e di assistenza alle famiglie; con l'aver trascurato le opportunità di «riservare o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio che abbiano carattere di preminente interesse generale» (art. 43 Cost.); con l'assenza di politiche attive del lavoro, mai perseguite in Italia: a proposito che fine hanno fatto i centri per l'impiego?; con la mancata estensione dei diritti al lavoro indipendente, nonostante giaccia presso il Parlamento un disegno di legge popolare che recepisce la «Carta universale dei diritti universali del lavoro», elaborata dalla Cgil.

Occorre una riconquistata socialità tornando al welfare universale, contrastando quello aziendale del «si salvi chi può», mentre ancora una volta la realtà dimostra quanto questo sia illusorio oltre che socialmente inaccettabile. Riconquistando insieme, da parte sindacale, una forte confederalità, necessaria anche ai fini della auspicata democrazia industriale.   

Riduzione delle  molte diseguaglianze e ampliamento della partecipazione democratica nella libertà e nel rispetto della dignità di ogni persona, tutela della «casa comune», come la chiama l'attuale Pontefice,  sono i criteri con cui valutare ogni provvedimento di politica e di riforma economica e sociale e la via più sicura per costruire «un mondo in cui lo sviluppo civile e sociale non sia il sottoprodotto dello sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito».

Anche questa è una lezione di Federico Caffè. 

--------------------------------------------------
Note

[1]Lawrence Klein,La teoria dell'offerta e della domanda, Giuffrè, Milano 1983.  Dalla introduzione di Federico Caffè che ne curò anche la traduzione:  «Questa [la domanda] sarà sempre un ingrediente necessario di ogni politica economica; ma, allo stesso modo  (Klein ritorna più volte sull'analogia marshalliana) che occorrono due lame perché la forbice funzioni, oggi – a differenza degli anni Tretna, in cui sarebbe stata una perdita di tempo occuparsi dell'offerta delle risorse materiali ed umane, che era comunque eccessiva – occorre dedicare attenzione anche ai problemi dell'offerta. Occuparsi dell'offerta, non nel senso "populista" fatto dagli esperti dell'Amministrazione Reagan, significa tenere conto, strutturalmente, di problemi come quelli di carattere demografico, della produttività, dell'energia, della regolazione, dell'ambiente, dell'alimentazione. Problemi che non potrebbero essere affrontati solo dal  lato della domanda e che richiedono di tener conto delle complesse relazioni interindustriali [con adattamenti]».         

[2]«[...] In breve il "modello di sviluppo" che emerge dagli studi della Commissione economica non coincide con una liberalizzazione senza programmazione, come si è poi di fatto verificato. Prospetta bensì un'economia protesa verso il ripudio del restrizionismo autarchico e la riconquista della libertà degli scambi; ma, proprio in vista del ripristino di margini adeguati di concorrenzialità, fa affidamento su un valido apporto di infrastrutture, su idonee misure antimonopolistiche, sull'imbrigliamento del credito in funzione della programmazione. Non è di certo un'economia che edifichi lo sviluppo degli scambi internazionali sui bassi salari quella che viene delineata negli studi della Commissione economica, quando siano considerati nella loro coerente unità, e non attraverso enucleazioni di comodo». (F. Caffè, "Storia e impegno civile nell'opera di Giovanni Demaria", In Tullio Biagiotti, Giampiero Franco (eds), Pioneering Economics: International Essays in Honour of Giovanni Demaria, Cedam, Pavia 1978, pp. 184-189).

[3]F. Caffè, "Non basta produrre", in Id.,Aspetti di un'economia di transizione, Roma 1945.

[4]Mi permetto di far richiamo al volume da me curato:I consigli di gestione e la democrazia industriale e sociale in Italia. Storia e prospettive, Ediesse Roma, 2014.  Emerge come storicamente tale questione abbia sempre incontrato in Italia una certa immaturità da parte sindacale, che oggi sembra superata, e delle sinistre, seppure con articolazioni diverse, ma soprattutto la feroce avversità da parte padronale che si manifestò in modo particolarmente violenta nel primo e nel secondo dopoguerra con diffide della  Confindustria del tempo; a Giovanni Giolitti a non dar corso alla legge da lui  promessa alla Cgil sulla partecipazione operaia, dopo l'occupazione delle fabbriche del 1919; e poi, con motivazione sostanzialmente uguale («l'azienda è un sistema monarchico»), ad Alcide De Gasperi perché non desse   corso alla legge Morandi. Ferocenente avversa anche all'esperienza dei Consigli di gestione che avevano pur garantito la continuità produttiva, nonostante la fuga o la latitanza di molti manager compromessi con il regime.   

[5]Mi permetto ancora il riferimento ad un volume da me curato con Maria Paola Del Rossi, Franklin D. Roosevelt, Guardare al futuro. La politica contro l'inerzia della crisi, Castelvecchi, Roma 2018. Il volume, con prefazione di James Galbraith e post fazione di Adolfo Pepe, pubblica di Franklin D. Roosevelt,Looking  forward, John Day, New York, 1933. Il volume riporta tutti i discorsi della prima campagna elettorale di Roosevelt che lo portò alla Presidenza e nei quali si trovano tutto lo spirito e i contenuti del New Deal.  Il passo citato  è a p. 89. 

[6]Cfr. Geiselberger, H. (a cura),  La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano le crisi del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2017. Si legge nell'introduzione: «La grande regressione che si dispiega sotto i nostri occhi sembra dunque essere il risultato di un'interazione tra i rischi della globalizzazione e quelli del neoliberismo. I problemi generati dalla incapacità della politica di far fronte alle interdipendenze globali trovano infatti delle società impreparate ad affrontarli sul piano istituzionale come su quello culturale».      

[7]Federico Mancini (a cura), Il pensiero politico dell'età di Roosevelt, Il Mulino, Bologna 1962.

Lunedì, 29. Giugno 2020
 

SOCIAL

 

CONTATTI