Il precariato tra immaginazione e realtà

Ne dibattito sul problema dei "precari" e dei "flessibili" si confrontano spesso due immaginari, l'uno che mitizza il passato, l'altro che vagheggia di libertà dalle costrizioni. Uno sguardo alla storia recente e uno ai dati sulla realtà di oggi - Primo di una serie di articoli

“Il lavoro non mi piace – non piace a  nessuno – ma mi piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi. La propria realtà – per se stesso, non per gli altri – ciò che nessun altro potrà mai conoscere”

Conrad, Cuore di tenebra

 

1 - Lavorare per vivere, vivere per lavorare.

 
La nostra civilizzazione è dominata (per alcuni addirittura ossessionata) dall’idea del cambiamento. I media ci hanno reso ipersensibili al mutamento. Sia valutato in una prospettiva ottimista, quando cioè ha a che fare con l’idea di progresso, che pessimista, quando invece comporta la perdita di certezze. Per questo la ridefinizione del ruolo del lavoro nel vissuto delle persone e nella società attuale è uno degli argomenti più dibattuti nei discorsi pubblici, in quelli privati, nelle analisi svolte dagli scienziati sociali.

 
Non è sempre stato così. Per molti secoli, nella storia dell’umanità, il rilievo dato al lavoro non ha avuto il peso che oggi gli viene attribuito. Basti pensare alle società umane delle origini che non si sentivano pienamente sottomesse al problema della scarsità materiale. Tant’è vero che per diversi secoli non si sono poste la questione di accumulare cose utili. Al contrario, esse si ritenevano affrancate dal “limite dell’utile”. Fino a tendere alla dilapidazione simbolica della ricchezza, per manifestare lo scarto dalle necessità materiali ed anche il rifiuto di piegarvisi. Nelle società delle origini il primato gerarchico della cultura sulla natura si cumula, quindi, con il primato accordato all’inutile sull’utile. Questo non dipende solamente dal fatto che si “lavora” poco, se per lavoro si intende l’insieme delle attività necessarie alla riproduzione della vita materiale. Il fatto è che si rifiuta deliberatamente di andare al di là del tempo indispensabile di lavoro, perché giudicato non essenziale nella sfera delle cose considerate obbligatorie all’esistenza. Assumendo il punto di vista delle comunità primitive si potrebbe dire che il “lavorare” non è affatto una originaria necessità naturale. O, paradossalmente, che lo è troppo. Nel senso che il lavoro si colloca più sul versante della natura che su quello della cultura. Per questo motivo il suo ruolo nelle prime comunità era ridotto allo stretto necessario, in funzione della sola sopravvivenza.

 
Sappiamo che questa concezione è durata molto a lungo. Essa trova conferma nelle analisi di Hannah Arendt sulla percezione del lavoro nelle società dell’antica Grecia, dove il lavoro veniva in genere riservato agli schiavi per consentire ai cittadini liberi di privilegiare l’azione. In particolare, la capacità di intraprendere in comune avventure degne di restare  nella memoria degli uomini. In Europa, fino all’arrivo dei tempi moderni ed alla nascita del capitalismo industriale, la convinzione diffusa è che il lavoro comporti una condizione avvilente e che perciò non si può essere pienamente uomo libero se, in una certa misura, non si è in grado di potervisi sottrarre. Non a caso la società medioevale è sostanzialmente suddivisa in oratores, bellatores, laboratores. Non mancano tuttavia approcci diversi. Basti pensare alla regola benedettina dell’ora et labora, o alla considerazione sociale riservata alle “arti liberali”, ai mercanti, ai banchieri, ecc.

 
Ma è solo la modernità che fa del “lavoro utile” il caposaldo di tutte le virtù. Sicché, nella società moderna essere senza lavoro o rischiare di perderlo determina non solo una condizione economica e sociale penosa, ma anche una esclusione, una perdita di identità personale, familiare, sociale. Intendiamoci: nel nostro tempo essere disoccupati, essere senza lavoro, non significa necessariamente non far nulla o morire di fame, come capitava alle generazioni che ci hanno preceduto. Comporta sempre però un affievolimento dell’appartenenza alla comunità, un indebolimento dei diritti di cittadinanza. Così che, mentre in tutta la fase preindustriale il lavoro era considerato una condizione avvilente, oggi lo è diventata la mancanza di lavoro. La disoccupazione e l’insicurezza per il lavoro sono divenuti perciò i problemi cruciali del nostro tempo. Problemi che le profonde trasformazioni del contesto sociale e produttivo accumulate negli ultimi decenni hanno reso sempre più acuti.

 
L’intreccio tra cambiamenti nelle dinamiche della popolazione e modificazione del lavoro è il processo che, probabilmente più di ogni altro, esprime le novità dell’ultimo quarto di secolo. Novità che investono il presente e si proiettano nel futuro. All’inizio del nuovo millennio la società italiana è caratterizzata dalla scarsità di risorse umane. Le generazioni di giovani che entrano nell’età attiva e nel mercato del lavoro hanno raggiunto, in questi anni, il minimo storico. Si tratta del punto di arrivo di un ciclo di mutamento delle dinamiche demografiche che ha assunto una notevole velocità negli ultimi decenni. Il cambiamento non riguarda solo l’aspetto quantitativo delle risorse umane, ma anche quello strutturale, demografico e sociale. La durata della vita è aumentata assieme al grado di salute. Le strutture familiari sono profondamente cambiate con una diminuzione del carico dei figli ed un parallelo aumento degli anziani. I vincoli matrimoniali si sono indeboliti. Le possibilità di muoversi sul territorio sono notevolmente cresciute, mentre la mobilità residenziale è rimasta relativamente bassa. La “scarsità” di risorse umane ha prodotto una forte crescita dell’immigrazione, la cui alta mobilità tende a compensare la scarsa mobilità dei nativi. Questi mutamenti strutturali non sono specifici dell’Italia, ma si estendono a gran parte delle società sviluppate. Tuttavia in Italia hanno assunto una rilevanza ed una incidenza maggiore che non negli altri paesi europei. Essi hanno pertanto effetti sulla quantità, la qualità, la mobilità, la durata del lavoro, più rilevanti che altrove. 

 
In sostanza, i cambiamenti demografici che si sono registrati e la loro tendenza a proiettarsi nel futuro sono indicativi di novità profonde. Il prolungamento della durata della vita, il rallentamento delle nascite, la trasformazione dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione, la diversa struttura della famiglia, la ripresa delle migrazioni interne dal Sud al Centro-Nord, sono tutti fatti che cumulandosi con altri eventi, come la terziarizzazione del sistema produttivo, le innovazioni tecniche ed organizzative, la diffusione di un benessere sconosciuto alle generazioni precedenti, spiegano molti dei cambiamenti relativi al lavoro. Naturalmente sia la quantità che il tipo di lavori che si offrono e si domandano hanno una qualche correlazione con i processi evolutivi della popolazione. Lavoro dei giovani, delle donne, degli anziani, degli immigrati, accordo e contrapposizione tra lavoro ed esigenze familiari, sono tutti importanti capitoli della “grande trasformazione” con la quale siamo alle prese.

 
A tutto questo si aggiunge la crescente dimensione internazionale dell’economia e degli scambi. Si tratta di un fenomeno antico, ma che oggi si presenta con caratteristiche nuove per almeno tre motivi principali: un capitalismo finanziario, mobilissimo ed insofferente di regole, al punto di provocare una crisi economica gravissima da cui non si capisce ancora come si farà ad uscirne; l’apporto delle tecnologie informatiche e della comunicazione, che hanno eliminato il problema delle distanze e dei fusi orari e consentono di operare in tempo reale; l’irrompere sulla scena di nuovi paesi come la Cina, l’India, il Brasile, che rappresentano più di un terzo della popolazione mondiale.

 
Il lavoro è estremamente sensibile a queste modificazioni e cerca, non senza fatica, gli adattamenti possibili. Soffrendo soprattutto la crescente imprevedibilità ed insicurezza. Anche perché la prima evidente conseguenza dei cambiamenti in atto è l’erosione dei sistemi di tutela che erano stati faticosamente costruiti nel corso del secolo scorso e che ora tendono ad essere indeboliti nella loro capacità di tenuta. La conclusione è che, negli ultimi anni, i problemi del lavoro si sono fatti più complicati e le sfide per cercare di risolverli più impegnative.
 
2 – Precari o flessibili?
 
Nel dibattito pubblico intorno al problema del lavoro si confrontano due concezioni, che fondamentalmente esprimono due diversi immaginari. E, come capita spesso quando prevale l’immaginazione, il rapporto con la realtà quotidiana tende a diventare piuttosto evanescente.

 
La prima di queste due forme si fonda sull’assunto che in passato il lavoro era sicuro e stabile; oggi è invece incerto, mal pagato e precario; domani rischia di essere ulteriormente esposto a forme intollerabili di arbitrio, con sempre più pesanti effetti sociali e persino sulla tenuta democratica. Conseguenza ovvia è che occorre battersi per scongiurare questa deriva. La seconda forma scommette invece sul fatto che il lavoro del futuro sarà più indipendente, più libero, più creativo, mentre quello attuale è sopratutto subordinato, alienante e privo di interesse. Nasce da questa “vulgata” il proposito di liberare il più possibile gli individui dalle costrizioni giuridiche e dai vincoli normativi, nel tempo divenuti asfissianti. L’obiettivo annunciato è quello di affrancare gli individui dalla costrizione delle burocrazie, delle regole e degli statuti.
 
Rispetto a questi due “immaginari” la prima cosa da rilevare è che si tratta appunto di immaginari. Hanno quindi ben poco a che fare con la realtà, perché in effetti si tratta di due stereotipi. Intendiamoci bene. L’aumento di quelli che gli uni chiamano lavoro “precario” e gli altri invece preferiscono definire lavoro “flessibile”,  costituisce un indiscutibile dato di fatto. Per poterne discutere è però opportuno sgombrare subito il campo da una  disputa semantica assolutamente inutile e che serve soltanto a distogliere l’attenzione dai termini veri del problema. Dunque, precari o flessibili? La risposta a questa domanda ne implica un’altra. Coloro che svolgono lavori a tempo determinato o occasionali, comunque atipici, lo fanno per propria autonoma scelta? O semplicemente per mancanza di alternative migliori? Sappiamo tutti che esiste un certo numero di persone che vorrebbe lavorare, ma per ragioni personali, familiari, o comunque per le circostanze della vita, lo può fare solo a particolari condizioni. Se parliamo di costoro è giusto usare il termine “flessibilità”. Se invece parliamo di quanti vorrebbero un lavoro decente, stabile ed invece devono accontentarsi di un lavoro malpagato, a tempo, o intermittente, che non consente perciò nessun serio progetto di vita, allora stiamo sicuramente parlando di “precarietà”.  In sostanza, ciò che per alcuni può essere “flessibilità”, per altri diventa invece “precarietà”. Stando così le cose dobbiamo tenere presente qualche dato.

 
All’incirca da un paio di decenni in Italia il lavoro atipico risulta in continua crescita. Fino a raggiungere (nel 2007) il 13,1 per cento dei dipendenti. Se ai dipendenti con contratto a tempo determinato si aggiungono gli pseudo autonomi (più di 400 mila collaborazioni coordinate e continuative) ed i prestatori d’opera occasionali (altri 100 mila) arriviamo a quasi 3 milioni di persone. Il che vuol dire che un occupato su otto sta ai margini, o meglio al di fuori, delle forme di lavoro standard. Il dato, quindi, è che un lavoratore su otto è “costretto” ad accontentarsi di un lavoro atipico. Ciò che crea allarme però non sono tanto le percentuali, o le cifre assolute, ma le tendenze. Preoccupa, infatti, che la grande maggioranza dei nuovi assunti (specialmente nei settori delle comunicazioni, della ricerca, della sanità, dei servizi, della grande distribuzione) sia soggetta a contratti a termine. Preoccupa, inoltre, la durata delle “transizioni” che segnalano un progressivo allungamento dei tempi di permanenza nel lavoro temporaneo. Preoccupa, infine, l’uso distorto del contratto di apprendistato. Forma contrattuale che ha fatto registrare un aumento esponenziale a seguito: della legge Treu; della decisione della Commissione Europea relativa ai contratti di formazione e lavoro; del decreto legislativo  276 del 2003 che ha elevato il limite di età fino a 29 anni. Sotto molti punti vista l’Italia è un paese curioso. Lo è sicuramente per le soluzioni date al problema del “lavoro dei giovani”. Basti pensare che: a trent’anni si è ancora apprendisti, a quaranta si può essere “giovane imprenditore”, a cinquanta “giovane ricercatore”

 
Tuttavia, malgrado tutte le distorsioni, gli stravolgimenti, gli abusi, bisogna riconoscere che in Italia l’incidenza dei lavoratori a termine sul totale dei dipendenti rimane inferiore di quella della media dell’Europa a 15.  Cosa se ne deve dedurre? Che i motivi di preoccupazione sono esageratamente enfatizzati? Non proprio. Soprattutto se si tengono nel debito conto almeno un paio di aspetti.

 
Il primo è che in Italia 9 dipendenti a termine su 10 dichiarano  (Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro, RCFL) di avere accettato quella forma di occupazione perché non sono riusciti a trovare di meglio. In Europa i lavoratori nella stessa condizione sono solo poco più di 3 su 10. Il secondo è che il sistema di “protezione sociale” italiano purtroppo “protegge” assai di meno rispetto a quanto avviene nella media dei paesi europei. Dove le politiche pubbliche sono orientate (anche se con risultati che in molti casi rimangono al di qua delle intenzioni) a conciliare “flessibilità” e “sicurezza”. Ma su questo aspetto si tornerà nel capitolo finale.

 
Se si prende in considerazione la struttura dell’impiego che si va delineando, ci si  rende conto che essa assomiglia ad un carciofo. All’esterno i precari: facili da assumere ed ancora più facile disfarsene; al centro i lavoratori stabili, a tempo indeterminato, considerati il cuore del “capitale umano” dell’azienda. I primi vanno e vengono sul mercato del lavoro, galleggiando tra un lavoretto ed una occupazione incerta. I secondi fanno parte del cuore. Ebbene, quando la congiuntura è buona e l’occupazione aumenta una parte dei primi riesce a lasciare lo strato periferico per unirsi al cuore del carciofo. Il periodo del lavoro precario è servito a testarli. Al contrario, nelle fasi di crisi economiche, di ristrutturazioni, esternalizzazioni, delocalizzazioni,  assieme ai precari anche una parte del “cuore” diventa inutilizzabile. Oltre tutto con l’handicap dell’età che rende ancora più acuta la frustrazione di avere perduto (spesso per sempre) l’impiego stabile. In generale le traiettorie degli uni e degli altri si incrociano assai poco. Ad esempio, gli impiegati pubblici non hanno il medesimo destino di quelli della ristorazione o dei supermercati. Il che lascia perplessi quando si ascolta la spiegazione che l’insicurezza del lavoro sarebbe una diretta ed inevitabile conseguenza della globalizzazione.

 
Tornando però all’immaginario che oppone un presente sempre più dominato da un lavoro incerto, intermittente, “precario” rispetto ad un passato dove, al contrario, il lavoro risultava sostanzialmente sicuro, stabile, salta agli occhi una tendenza alla generalizzazione che non aiuta a capire le dinamiche reali. Intanto la comparazione si fonda su una ricostruzione del passato che, con quelle caratteristiche, non è mai esistito. Come sanno bene gli storici del lavoro, cinquant’anni fa (all’epoca della prima grande inchiesta parlamentare sulle condizioni di lavoro) l’occupazione era in gran parte precaria. Basti pensare all’agricoltura che assorbiva ancora la maggioranza degli occupati. Il grosso dei braccianti non aveva contratti a tempo indeterminato e spesso nemmeno a tempo determinato, ma addirittura a giornata. Tutti ricordano, quanto meno per averlo visto al cinema, la pratica incivile ed avvilente dei caporali che, con facce torve, si presentavano al mattino presto sulla piazza dei paesi del Sud e lì reclutavano i braccianti tastando loro i muscoli. Per quanto riguarda, invece, l’edilizia la durata del lavoro era prevalentemente condizionata sia dalla durata dei cantieri che dall’andamento meteorologico. Infine, nella nascente industria manifatturiera la stragrande maggioranza delle donne veniva assunta solo con contratti a tempo determinato, o stagionali nei settori dell’agroalimentare. Per di più la “flessibilità” agiva indiscriminatamente non solo in entrata ma anche in uscita. I licenziamenti non venivano fatti con i guanti. Non erano infatti richieste particolari procedure. Esisteva, come i più vecchi ricordano certamente, il licenziamento ad nutum (al cenno). Si poteva così venire licenziati per i motivi più banali: per un ritardo, per una protesta, per l’iscrizione al sindacato. Ci sono voluti anni di battaglie per conquistare il riconoscimento che i licenziamenti dovevano essere motivati da una “giusta causa”. Per arrivare, infine, allo “statuto dei diritti” dei lavoratori.

 
Insomma, fino a poche decine di anni fa, alla precarietà dei rapporti di lavoro a durata limitata, o addirittura limitatissima, si doveva sommare la precarietà di un gran numero di contratti a “tempo indeterminato”, che non era affatto minore rispetto a quella degli attuali contratti a “tempo determinato”. Ovviamente, in mezzo secolo il lavoro precario ha fatto registrare importanti cambiamenti. Sicuramente per quanto riguarda la sua composizione sociale. In effetti, i braccianti degli anni Cinquanta erano generalmente figli di braccianti, gli edili, di solito figli di edili, o di contadini ed operai. Tutti comunque con un grado di istruzione prevalentemente limitato alla scuola dell’obbligo. Ma nello stesso tempo anche tutti accomunati dalla speranza che il lavoro, per quanto duro ed insicuro, costituisse un tramite di mobilità sociale per sé e soprattutto per i propri figli.
 
Oggi la composizione sociale del lavoro precario è profondamente cambiata. La permanenza in una condizione di precarietà risulta maggiore, per i collaboratori, per le donne, per i laureati. Le possibilità di passaggio ad un lavoro permanente risulta in proporzione maggiore nell’industria e nelle costruzioni (problema non piccolo, considerato che la nuova occupazione viene creata soprattutto nel settore dei servizi) e riguarda specialmente i maschi con grado di istruzione media o bassa. La questione dell’insicurezza del lavoro è passata così dalle famiglie “proletarie” di un tempo, anche alle famiglie relativamente più agiate di oggi (o di quello che potrebbe essere definito “ceto medio”), i cui figli laureati trovano crescenti difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Cambiamento che ha indiscutibilmente contribuito ad accendere i fari dell’opinione pubblica sul problema.

 
L’insieme delle considerazioni fatte non hanno naturalmente nulla in comune con l’idea di quanti sostengono che la precarietà del lavoro non sarebbe altro che una invenzione ideologica dei critici dell’attuale sistema produttivo, tenuto conto che la generazione dei nostri padri si è trovata alle prese con una situazione della occupazione sicuramente assai più precaria di quella odierna. Vogliono semplicemente segnalare che la mitizzazione del passato porta quasi sempre ad errori di valutazione. Perché (come ricorda Bassani nelle sue Storie ferraresi) “la vita sa confondere le sue tracce e tutto, del passato, può diventare materia di sogno, argomento di leggenda”.

 
In definitiva, volendo obiettivamente valutare i cambiamenti in atto nel mercato del lavoro italiano, si può ragionevolmente concludere che, allo stato, la precarietà è minore di quanto sostiene una certa polemica mediatica e politica, ma certamente maggiore di quanto oggettivamente serve per lo sviluppo delle attività produttive.

 
Ma, stando così le cose, come si spiega l’aspro contrasto (che in Italia si presenta persino maggiore rispetto ad altri paesi europei) sulla questione della “precarietà”? Naturalmente le spiegazioni possono essere molte. Ma quella decisiva è che il sistema di protezione sociale italiano protegge poco. Anzi, in certi casi non protegge affatto. La conseguenza è che, malgrado il fenomeno della precarietà possa risultare, in proporzione, persino più contenuto che altrove, le conseguenze umane e sociale finiscono invece per essere assai più pesanti e gravi. Perciò per discutere seriamente il tema della “flessibilità”, si dovrebbe prima affrontare quello della “protezione sociale”.
 
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Domenica, 1. Marzo 2009
 

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