Il Pil salvato dalle donne

Se il tasso di occupazione femminile dovesse salire a livello di quello maschile il reddito nazionale aumenterebbe del 17,5%; o del 5,8% se al Sud raggiungesse quello del Nord. Intanto i salari sono fermi da 15 anni: un danno per l'economia prima ancora che una ingiustizia - Quarto di una serie di articoli

(quarto di una serie di articoli: qui il primo – qui il secondo – qui il terzo)

 

Donne e lavoro

 

L’occupazione femminile è uno dei punti critici della situazione del lavoro in Italia. Le cifre parlano da sole. Le donne che lavorano da noi sono solo il 46,6 per cento, oltre 12 punti in meno rispetto all’Europa a 27. Una enormità. In Danimarca l’occupazione femminile arriva al 73,4 per cento. Nel Regno Unito raggiunge il 65 per cento. In Germania il 63 per cento. In Francia il 60 per cento. Anche la Spagna e la Grecia fanno meglio di noi, rispettivamente con il 54 ed il 47,5 per cento. Secondo uno studio della Banca d’Italia, una maggiore parità tra maschi e femmine sul mercato del lavoro potrebbe risollevare l’economia italiana dalla anemia cronica che la affligge. Questo perlomeno sulla carta. Se dovesse accadere, ovvero se il tasso di occupazione femminile dovesse salire a livello di quello maschile (obiettivo per ora assai lontano), il paese potrebbe contare su una cospicua fetta di ricchezza in più. Per restare solo alla dimensione economica, che non è però l’unica, il Pil (vale a dire il benessere), a produttività invariata, crescerebbe addirittura del 17,5 per cento. Cioè circa 260 miliardi di euro. Che corrispondono, euro più euro meno, a venti Finanziarie della stessa consistenza di quelle varate per il triennio 2009-2011. Sarebbe un miracolo. Un soccorso femminile in grado di fare da stampella all’economia malata, ma anche da straordinario volano all’occupazione complessiva portandola in linea con il resto dell’Europa. Con la parità ci sarebbero circa 5 milioni di occupate in più. E poiché sarebbero concentrate soprattutto nel Mezzogiorno verrebbero meno le due Italie che oggi esistono per quanto riguarda l’occupazione femminile. Ma non solo.

 

Secondo stime di alcuni addetti ai lavori, ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro, si creerebbero 15 nuovi posti di lavoro nel settore dei servizi (dall’assistenza ai bambini, agli anziani, fino alle attività domestiche in senso stretto) in precedenza non retribuiti, perché gravavano sulle spalle delle neo-assunte. Insomma ci sarebbe pure un “effetto moltiplicatore”, come lo definiscono gli esperti.

 

Ma anche se non si arrivasse ad un bilanciamento perfetto tra occupazione maschile e femminile, sarebbe un prodigio se le donne riuscissero soltanto a risalire la china raggiungendo un onorevole tasso di occupazione del 60 per cento. Pure in questo caso i benefici per il Pil sarebbero di tutto rispetto, con una aggiunta del 9,2 per cento. Sarebbe infine un importante passo in avanti se l’occupazione femminile nel Sud riuscisse a raggiungere i livelli del Nord (55,3 per cento) perché in questo caso il Pil nazionale farebbe registrare un aumento del 5,8 per cento.

 

Il primo problema, dunque, è che le donne italiane lavorano meno fuori casa rispetto a quanto avviene nel resto dell’Europa. Per di più quando lo fanno sono pagate meno ed hanno minori possibilità di carriera.

 

L’aspetto singolare è che assumendo una donna spesso una azienda “risparmia”. Secondo un rapporto Unioncamere (del 2007) la differenza fra lo stipendio medio annuo maschile e quello femminile è di 4.000 euro. Si passa, infatti, dai 28.000 euro degli uomini ai 24.100 delle donne. Con uno scarto del 16 per cento. E’ un dato che combina elementi di varia natura: la presenza minima di donne ai massimi livelli della dirigenza e la loro maggiore concentrazione nelle qualifiche e mansioni meno pagate. Ovviamente, nei contratti le distinzioni di sesso non sono consentite. Ma capita assai spesso che a parità di ruoli ad una donna sia attribuito un livello di inquadramento inferiore. Oppure succede, sempre a parità di lavoro svolto, che la sua carriera rimanga bloccata, o avanzi molto, molto più lentamente rispetto a quella dei colleghi maschi.

 

Questa distinzione è giustamente criticata dalle donne, ma non fa bene nemmeno all’economia. Perché quanto più la paga è bassa tanto più difficile diventa per una donna con figli lavorare fuori casa. Considerato che per farlo ha bisogno di “servizi”. Purtroppo inadeguatamente coperti dal pubblico. Per poterlo fare deve quindi ricorrere al privato impegnando buona parte del suo salario. Senza contare gli altri disagi, come quando i bambini si ammalano, o gli asili chiudono. Ma se l’altra “metà del cielo” non esce dalle mura domestiche perché, tutto sommato, “non conviene” anche l’economia finisce per soffrirne. Perché senza una maggiore occupazione delle donne l’Italia non può crescere al ritmo degli altri paesi europei.

 

Uno dei problemi, o forse il principale, che influisce sul basso tasso di occupazione femminile è dunque la cura dei figli. Cura che in Italia rimane ancora largamente affidata alle madri. Infatti, sono davvero pochi, solo l’8 per cento (Istat, 2007), i padri che usufruiscono del congedo parentale nei primi due anni di vita del bambino. La difficoltà di conciliare lavoro e famiglia rimane quindi un problema essenzialmente femminile. La bassa elasticità di entrata ed uscita dal mercato del lavoro e le rigidità nell’orario di lavoro sono fra gli aspetti più critici. In effetti le donne con figli hanno il 46 per cento di probabilità di uscire dal mercato del lavoro, contro il 6 per cento delle donne nubili senza figli (secondo un lavoro di Del Boca del 2007). La maggior parte delle madri costrette a lasciare il lavoro vorrebbe tornare a lavorare in futuro, ma solo meno della metà riuscirà effettivamente a farlo. E quasi sempre con una posizione lavorativa ed una retribuzione inferiore.

 

Rispetto all’indagine Istat del 2002 si avverte qualche piccolo segnale di miglioramento. E’ in aumento il numero delle madri che (soprattutto al Nord e nel settore privato) ricorrono al part-time. Si riduce, seppure di poco (dal 20 per cento del 2002 al 18,4 per cento nel 2005), la percentuale di donne occupate prima della gravidanza che non lavorano più dopo la nascita del figlio. Ma per cambiare significativamente il corso delle cose occorre ben altro. Occorrono sicuramente più “servizi” per l’infanzia e la famiglia. Tuttavia, particolarmente nel Mezzogiorno dove il problema è più grave, deve essere accresciuta la domanda di lavoro femminile. In assenza della quale, anche una maggiore quantità e migliore qualità di servizi, non risulterebbe risolutiva.

 

 

 

I salari sono rimasti al palo.

 

Il 9 luglio 2008, all’annuale assemblea dell’Abi, il governatore della Banca d’Italia comunica ai partecipanti che “i salari e gli stipendi sono fermi a quindici anni fa”. L’annuncio lascia di stucco i banchieri, gli economisti, gli industriali ed i politici presenti. Coglie sicuramente meno di sorpresa operai ed impiegati che da tempo fanno sempre più fatica ad arrivare alla quarta settimana. Soprattutto quelli che hanno una famiglia con figli. I figli, si sa, sono una benedizione. Una gioia imparagonabile. Ma nel caso delle famiglie italiane quasi sempre costituiscono purtroppo anche un fattore di impoverimento. A certificarlo è l’Istat che, all’inizio di gennaio 2008, ha presentato l’indagine sui redditi e le condizioni di vita in Italia (2005-2006). I dati parlano da soli. Il 50 per cento delle famiglie italiane vive con meno di 1.900 euro al mese. Per l’esattezza 1.872 euro. Leggermente più alto è il reddito medio, 2.311 euro al mese. Ma in questo caso le medie sono quelle di cui parla Trilussa. Perché, in effetti, la maggioranza delle famiglie sta al di sotto della media. La distribuzione del reddito è “fortemente asimmetrica” ed a giudizio dell’Istat provoca un “livello di disuguaglianza di entità non trascurabile”.

 

Utilizzando il reddito equivalente (ottenuto impiegando una scala di parametri che tiene conto della diversa composizione delle famiglie) si possono suddividere le famiglie in cinque gruppi. Il primo gruppo è costituito dal 20 per cento delle famiglie con reddito più basso. L’ultimo è composto dal 20 per cento con il reddito più alto. Nei tre gruppi centrali ci sono le altre famiglie distribuite in ordine di reddito crescente. Ebbene, il 20 per cento delle famiglie che costituiscono il primo gruppo percepiscono solo il 7 per cento del reddito totale. Mentre il 20 per cento delle famiglie del primo gruppo si appropriano di circa il 40 per cento del reddito totale. Esattamente il 39,9 per cento. Quasi sei volte il reddito delle famiglie appartenenti al primo gruppo. Se si accorpano i primi due gruppi e si confrontano con gli ultimi due, si può avere una idea dei problemi della distribuzione del reddito in Italia. Infatti, i primi due gruppi a reddito più basso (pari al 40 per cento delle famiglie italiane) si sono dovuti accontentare del 19,8 per cento del reddito, mentre gli ultimi due gruppi, quelli a reddito più elevato,  si sono portati a casa il 63 per cento del reddito totale.

 

Tradotto vuol dire che la maggior parte del reddito prodotto si è concentrato nelle tasche di pochi. Non a caso il 2006 ed il 2007 si sono confermati come anni d’oro per gli stipendi dei dirigenti delle imprese italiane. Oltre 40 top-manager (rispetto ai 27 del 2005) hanno chiuso l’anno con una busta paga superiore ai 3 milioni. In sostanza, ciascuno di loro ha guadagnato circa 200 volte la retribuzione corrisposta alle maggioranza dei lavoratori. Non male! Considerata la predica sulla necessità di sacrifici per fronteggiare le difficoltà economiche che quotidianamente viene rivolta ai lavoratori dipendenti.

 

In ogni caso, resta il fatto, confermato dai dati Istat ed Eurostat che, per quanto riguarda le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, l’Italia si colloca in una delle posizioni peggiori in Europa. Seguita soltanto da Grecia e Portogallo. La disuguaglianza tra i redditi delle famiglie aumenta poi proprio nelle aree del paese dove reddito ed occupazione sono più in sofferenza. Come si dice: “piove sempre sul bagnato”. Così al primo posto troviamo la Calabria, seguita da Sicilia e da Campania. Mentre i livelli di disuguaglianza più bassa si registrano nel Trentino, in Valle d’Aosta e nella Venezia Giulia.

 

Tra le famiglie più in difficoltà ci sono ovviamente quelle in cui entra un solo salario. Infatti, oltre la metà di queste famiglie guadagna meno di 1.185 euro al mese. All’opposto, naturalmente, le famiglie dove lavorano in tre. La maggior parte di queste dispongono ogni mese da 3.500 euro in su. Percepiscono meno gli anziani soli (la metà di loro rimane al di sotto di 920 euro al mese). Formalmente guadagnano di più le famiglie con figli (2.696 euro) di quelle senza (1.882 euro). Ma le prime devono, ovviamente, sostenere spese assai più elevate. Infatti, le famiglie con figli sono quelle che in termini generali stanno peggio di quelle senza. Non a caso il 40,5 per cento delle coppie con un figlio, il 44 per cento di quelle con due figli ed il 64 per cento di quelle con tre o più figli, appartengono ai due gruppi che stanno in basso nella scala di distribuzione del reddito.

 

Sono tutti più o meno d’accordo sul fatto che quando la ricchezza prodotta non viene ridistribuita equamente si provoca ingiustizia sociale. Probabilmente c’è meno consenso in ordine al fatto che questa circostanza danneggia anche l’intera economia. Negli ultimi cinque anni in Italia profitti e rendite sono aumentati con tassi annui tre volte superiori ai salari. I privati possiedono una ricchezza immobiliare e finanziaria pari a 9 volte il Pil. Il doppio della media europea. Contemporaneamente il debito pubblico è il più alto d’Europa. Secondo la Banca d’Italia il 10 per cento delle famiglie possiede oggi il 45 per cento della ricchezza totale. Era il 41 per cento dieci anni fa. Un indicatore di redistribuzione alla rovescia: 4 punti di ricchezza totale sono infatti passati dai poveri ai ricchi.

 

Nel frattempo il potere d’acquisto è peggiorato. Sempre secondo Banca d’Italia (Indagine sui bilanci delle famiglie) nel 2006 ad un lavoratore dipendente occorrevano 12 anni di lavoro per acquistare una casa di 100 mq. Nel 1995 per acquistare lo stesso appartamento bastavano 8 anni e 5 mesi. Nel giro di un decennio, il potere d’acquisto dei salari per un bene primario come la casa si è quindi ridotto del 43 per cento. Ma la riduzione del potere d’acquisto dei salari non si è limitata alla casa. Ha prodotto un calo generalizzato dei consumi e, poiché i consumi interni concorrono per il 70 per cento alla formazione del Pil, questo spiega una crescita economica ormai da anni più lenta rispetto alla media europea. Così che nella graduatoria europea siamo, al tempo stesso, il paese con maggiori disuguaglianze nella distribuzione del reddito e con minori ritmi di crescita. Secondo un certo numero di economisti non esisterebbe una correlazione diretta tra alte disuguaglianze e bassa crescita. Tuttavia non si può non riflettere su un dato di fatto. I quattro paesi scandinavi (Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia) nella graduatoria mondiale occupano i primi quattro posti nell’eguaglianza sociale e sono tra i primi sei nel reddito per abitante. Perciò, il meno che si possa dire è che se pure si può pensare che l’eguaglianza sociale non sia una causa certa del successo economico, è altrettanto certo che, quanto meno, non ne costituisce assolutamente un limite.

 

Al contrario, in Italia la crescita langue (da anni siamo agli ultimi posti in Europa), profitti e rendite si sono accaparrate una quota sempre più consistente di reddito. Anche per il lavoro autonomo le cose non sono andate affatto male. Da tempo, più o meno tutti, (tranne il Fisco) hanno sempre ritenuto che i lavoratori autonomi fossero più ricchi dei dipendenti. Ora è arrivata la conferma ufficiale. L’indagine campionaria della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane nel 2006 ha fotografato le differenze. Nel periodo 2000-2006 i salari dei dipendenti sono rimasti al palo. La variazione, infatti, (al netto dell’inflazione) è stata di appena lo 0,96 per cento. Gli autonomi hanno invece beneficiato di un incremento del 13,9 per cento. Se si traducono questi valori in termini nominali, la “forbice” va dal 18,1 per i dipendenti al 32,2 per cento degli autonomi. Insomma, i costi derivanti dalle difficoltà economiche e per l’aggiustamento del bilancio pubblico sono stati sostanzialmente posti a carico del lavoro dipendente. Senza significative variazioni, nel tempo, dei differenziali settoriali e territoriali.

 

In effetti, la prima indagine sui i salari di fatto di tutto il settore privato effettuata in Italia (a cura di Andrea Brandolini) conferma che l’indice Gini (che misura le disuguaglianze) nell’ultimo decennio è rimasto sostanzialmente stabile.  Sono naturalmente rimaste inalterate anche le differenze territoriali preesistenti. Al punto che qui, come si è già osservato a proposito dell’occupazione femminile, la disparità tra Sud e Centro-Nord mette in evidenza l’esistenza di due paesi diversi. Nella sostanza, dunque, tutto è rimasto fermo. Sono rimaste immutate le differenze territoriali, così come in generale sono rimasti fermi i salari.

 

Sulle cause dell’arretramento del potere d’acquisto dei salari e sul come rimediarvi, si è sviluppato da tempo un dibattito politico-mediatico. Tanto effervescente quanto inconcludente. Circa le cause. L’argomento più gettonato è che in un contesto di globalizzazione, cioè di sempre più agguerrita competizione internazionale, non è possibile aumentare i salari perché i nostri prodotti finirebbero irrimediabilmente fuori mercato. Le ragioni invocate a sostegno di questa tesi sono diverse, ma quelle fondamentali, al dunque, risultano due. La prima è che il costo del lavoro in Italia (soprattutto per il peso elevato di tasse e contributi) sarebbe maggiore che in altri paesi. La seconda è che la produttività sarebbe troppo bassa. In definitiva, i lavoratori italiani sono pagati poco per la semplice ragione che lavorano meno.

 

Ma andiamo con ordine. Nella classifica del costo del lavoro per i paesi Ocse (calcolato in dollari, a parità di potere d’acquisto) l’Italia si colloca nella parte bassa della graduatoria. Graduatoria che è guidata dalla Germania, seguita da: Belgio, Austria, Inghilterra, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Francia, Svezia, Svizzera, Giappone, Corea del Sud, Finlandia, Stati Uniti, Grecia, Australia, Danimarca, Canada, Islanda. E finalmente arriva l’Italia. Nessuno dei paesi che le stanno dietro sembra in grado di impensierirla sui mercati mondiali. L’apparato produttivo italiano soffre di diversi problemi (scarsi investimenti, scarsa ricerca ed innovazione, un numero eccessivo di piccole e piccolissime imprese, una burocrazia pubblica tanto invadente quanto inefficiente, ecc.) ma assai meno per il costo del lavoro.

 

Le conferme non mancano. Ad esempio, nel settore dell’abbigliamento l’Italia non è famosa soltanto per i marchi Armani, Gucci, Versace e compagnia bella, ma anche per marche che di italiano non hanno niente, come: Burberry, Acquascutum, Paul Smith, Pringle ed altre, che sono da tempo sinonimo di eleganza classica, di understatement che non passa mai di moda. Non è che ci siano state acquisizioni segrete di cui nessuno ha saputo nulla. E’ avvenuto semplicemente che le più importanti marche di abbigliamento inglese hanno deciso di trasferire la produzione dei loro capi nel nostro paese. Perché l’Italia, con costi mediamente inferiori di un terzo al Regno Unito, rappresenta un indiscutibile vantaggio. In più possono contare su un altro vantaggio: l’etichetta made in Italy nel mondo rappresenta una garanzia di qualità non inferiore, o persino superiore, al vecchio made in Britain. Ma non è solo nel settore dell’abbigliamento che l’industria italiana riesce a competere sui mercati internazionali. Basta dare una occhiata alle esportazioni. Non a caso, del resto, l’indice Tpi (Trade performance index, elaborato da Uncatad e Wto) colloca l’industria italiana al secondo posto nel mondo, subito dopo la Germania, tra quelle che vanno meglio sui mercati internazionali.

 

E veniamo alla produttività. “Il nodo della produttività non si scioglie da più di dieci anni. Nonostante le difficoltà interpretative causate da un quadro statistico in movimento, anche negli ultimi due anni si conferma un divario nella dinamica della produttività rispetto ai nostri principali concorrenti”. E’ quanto ha dichiarato il governatore della Banca d’Italia nelle considerazioni finali del 2008. In effetti è ciò che si deduce dal dato generale. Il suo fondamento non sembra però essere indiscutibile.

 

Intanto, come può la produttività essere andata male se le imprese sono andate bene. In particolare sui mercati internazionali? Ovviamente non si tratta di tutte le imprese. Perché molte si stanno ancora ristrutturando ed altre, com’è inevitabile, scompaiono facendo spazio a realtà più solide e strutturate. Il rapporto Mediobanca 2008 (relativo a 2.020 medie e grandi imprese) fornisce un dato interessante. Fra il 1998 ed il 2007 si è verificato un aumento di produttività del 19 per cento. Tenuto conto di prezzi e salari, esso ha comportato un margine di 11,5 punti che è andato ad accrescere la loro competitività (o la loro redditività). Certo, quello che si è verificato nelle imprese medio-grandi non può avere un valore generale. Sul dato complessivo pesano sicuramente fattori strutturali. A cominciare dall’inefficienza della pubblica amministrazione. Inefficienza che non può essere mediaticamente spiegata denunciando l’esistenza di “fannulloni”.

 

Che nella P.A. ci siano dipendenti che “ci  marciano” è più che probabile. Ma la denuncia moralistica dei “fannulloni” equivale alla caccia agli “Untori” del sedicesimo secolo. Non risolve i mali veri. In compenso ne aggiunge di immaginari. Non è un caso, del resto, che i provvedimenti disciplinari, inclusa la risoluzione del rapporto di lavoro, adottati nell’ultimo anno (da quando cioè è  stata attivata la campagna per la “bonifica” del pubblico impiego) corrispondono esattamente alla media degli anni precedenti. Il ministro incaricato esibisce però con orgoglio la sua medaglia: i giorni di assenza per “malattia” sono drasticamente diminuiti. Ma questo trofeo, ai fini dell’efficienza della Pubblica Amministrazione, non significa molto. In effetti, astrattamente parlando, è  ovvio che un dipendente pubblico può non fare nulla perché invece di andare a lavorare resta a casa, ma può ugualmente non fare nulla anche recandosi diligentemente in ufficio. I manuali di organizzazione aziendale sono pieni di esempi.

 

Resta per altro il fatto che sulle cause dell’inefficienza della pubblica amministrazione  pesano diversi e ben più consistenti fattori. Non ultimo dei quali il fatto che le risorse umane sono spesso distribuite in maniera scriteriata. Capita infatti che ci siano numerosi addetti dove servono poco, o addirittura non servono più, mentre mancano dove servirebbero. Ma soprattutto ha a che fare con la peculiare cultura della pubblica amministrazione. Dove ciò che conta è “la conformità della decisione alla norma”. Con la conseguenza che il risultato diventa irrilevante. Ha pure a che fare con irrisolti problemi strutturali. A cominciare dalla capacità di: portare la scuola e l’università all’altezza degli altri

Venerdì, 24. Aprile 2009
 

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