Il Pil salvato dalle case

Nel periodo 2001-2005 senza il settore delle costruzioni residenziali sarebbe stata vera recessione. Ma c'è poco da consolarsi, visto che non si tratta di un settore ad alta tecnologia e valore aggiunto
Il ciclo economico 2001-2005 appena trascorso, in base ai dati consuntivi, è stato per l'Italia il più deludente dell'intera storia economica del dopoguerra. Nonostante i tassi di crescita medi nei cicli economici siano da almeno 20 anni in costante diminuzione in tutte le economie europee avanzate dell'Ue 15 e dell'area Oecd, il declino della dinamica di crescita economica dell'Italia ha subito, rispetto alle altre maggiori economie del continente, una brusca, ulteriore accelerazione: per la prima volta negli ultimi 5 cicli economici, il ciclo italiano non è riuscito a riagganciare la ripresa europea ed internazionale, stavolta in atto perlomeno a partire dal 2003. Quest'ultima è stata talmente solida nei principali paesi dell'Ue 15 da mantenere anche negli ultimi 2 anni un ritmo soddisfacente nonostante lo shock dovuto all'escalation del prezzo del greggio.

Nel quinquennio appena trascorso nessun'altra economia europea ha conseguito una performance così scadente come quella italiana: il tasso di crescita reale medio annuo del Pil è stato il più basso dell'Ue 15 (0,6% contro una media dello 1,6%), con due anni su cinque a crescita zero; una caduta costante della produttività del lavoro (-0,2% in media annua) quantomeno allarmante (cui fa da complemento la contestuale crescita del costo del lavoro per unità di prodotto); la produzione industriale, a parte i segni di risveglio congiunturale del primo semestre di quest'anno, nel periodo 2001-2005 complessivamente considerato ha subito un crollo spaventoso (-4,5 pari ad un -0,9 in media annua). a riprova della difficoltà di riposizionamento delle nostre imprese in un contesto di pressione competitiva internazionale e di moneta unica. Non vi è dubbio che queste siano in larga parte dovute a ben noti "nodi" strutturali venuti al pettine (sottodimensionamento e scarsa propensione alla crescita dimensionale, bassi investimenti in innovazione ed in R&D, basso utilizzo del capitale umano, eccessiva presenza in settori manifatturieri tradizionali e "maturi", ecc.), ma i numeri sono comunque preoccupanti.

Basterebbero questi tre semplici dati messi in fila (tassi di crescita di Pil, produttività del lavoro e produzione industriale) relativi al periodo 2001-2005 per delineare un quadro sufficientemente sconfortante sullo stato competitivo dell'economia italiana, ed in particolare dell'industria.

Eppure, l'aspetto particolarmente allarmante, e su cui pochi analisti si sono soffermati, è un altro. I problema della crescita si pone, infatti, sotto il profilo non soltanto quantitativo, bensì anche e soprattutto qualitativo, dato che la crescita, nell'ultimo quinquennio, oltre ad essere stata scarsa, è stata di bassa qualità, fatta di costruzioni (intese come investimenti residenziali privati: le opere pubbliche, come si vedrà, sono una storia a parte) e di spesa corrente primaria. I dati di contabilità nazionale disaggregati (Tab. 1) mostrano infatti che se non fosse stato per i suddetti settore delle costruzioni (con il contributo determinante degli investimenti residenziali) oltre che - sebbene in misura minore - per la spesa della pubblica amministrazione, l'economia italiana avrebbe conosciuto, invece di una sostanziale stagnazione, un'autentica recessione.

Dunque, è solo poiché il dato complessivo del Pil incorpora gli investimenti in costruzioni che la flessione del quinquennio appena trascorso è stata assai contenuta rispetto, invece, alla forte caduta dell'indice generale della produzione industriale, dal momento che quest'ultimo - a differenza del Pil - esclude proprio il settore delle costruzioni. Questo spiega l'apparente mismatch insito in una produzione industriale la cui performance di periodo particolarmente negativa si è riflessa solo in parte nei dati di contabilità nazionale. Parimenti, i due dati letti congiuntamente evidenziano come la crisi dell'economia nazionale sia in buona parte dovuta alla crisi del sistema industriale.
Analizzando l'andamento delle componenti del Pil (tab.1, graf. 1: per il grafico clicca qui e per tornare al testo fai "indietro" sul browser) se ne ha ulteriore conferma: nessun contributo positivo alla crescita è infatti venuto dagli investimenti delle imprese e dalle esportazioni, dunque dai settori dell'industria a più elevati produttività e valore aggiunto, come invece - tra gli altri - in Germania, Francia e Spagna.
 
Questi ultimi paesi, a dispetto di una domanda interna ancora stagnante - ancorché per motivi strutturali e di lungo periodo comuni anche all'Italia (calo demografico, invecchiamento della popolazione ecc.) - hanno in questi ultimi 10 anni attuato una intensa ristrutturazione del tessuto industriale verso segmenti di prodotto a più elevato contenuto tecnologico. Sebbene tale processo si sia rivelato oneroso, in termini di tassi di disoccupazione persistentemente elevati, i rispettivi sistemi industriali hanno potuto nel medio periodo conseguire performance positive delle esportazioni di beni e servizi e conservare le rispettive quote di commercio mondiale (la Germania nel 2005 è risultata saldamente il primo esportatore netto al mondo). Nel mentre, in Italia le esportazioni a prezzi costanti sono andate particolarmente male (-0,5% in media annua) e la nostra quota di export mondiale in questi anni è calata (3,8% nel 2004).

La domanda interna è riuscita solo in parte a compensare la debacle delle esportazioni, grazie, come detto, alla spesa pubblica e alle costruzioni residenziali. Si noti che soltanto quest'ultimo comparto ha consentito una simile performance dell'aggregato delle costruzioni: la componente del government construction (le opere pubbliche) è andata infatti assai meno bene, nonostante i proclami di legislatura contenuti nel Dpef 2002-2006 (Cfr. Corte dei Conti, Indagine sullo stato di attuazione della "Legge-obiettivo" 21 dicembre 2001, n. 443, in materia di infrastrutture ed insediamenti strategici, del 22/3/05; Ance, Rapporto sulle infrastrutture in Italia, vol. I, Roma, 2005).
 
In ambito Ue, solo la Spagna (le cui altre componenti del Pil hanno però conosciuto una crescita di analoga forza) ha conosciuto una simile performance del residenziale nell'ultimo quinquennio. Per il resto, nel periodo 2002-2005 sono rimaste al palo anche tutte le altre componenti della domanda interna (investimenti in macchinari, consumi delle famiglie), eccezion fatta, come detto, per la crescita fuori norma delle spesa della pubblica amministrazione, peraltro comprovata dal costante peggioramento dell'avanzo primario - letteralmente dissipato per oltre 4 punti di Pil - e dell'indebitamento netto
In breve, in questi 5 anni abbiamo vissuto uno scenario da paese emergente e non degno di una economia avanzata.

Tabella 1: Contributi alla crescita del Pil a prezzi costanti, Italia (variazioni tendenziali; dati destagionalizzati e corretti per i giorni lavorativi)
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 2001  2002  2003  2004  2005   Media 01/05
Pil   1,7   0,3   0,0   0,9   0,1     0,6
Consumi finali famiglie    0,7   0,2   1,0   0,5   0,1     0,5
Spesa pubbl. ammin.   3,6   2,2   2,1   0,6   1,2     1,9
Investimenti fissi lordi   2,5   4,0  -1,5   1,9  -0,4     1,3
di cui: macchinari,
attrezzature, prod. vari
 -0,4   3,1  -2,2   3,7  -0,7     0,7
di cui: mezzi di trasp.   8,2   4,7 -11,3  -0,6  -4,4    -0,7
di cui: costruzioni   4,1   4,8   1,5   0,6   0,8     2,3
- investimenti residenziali   1,0   0,6   2,3   2,5   6,5     2,6
export di beni e servizi   0,5  -4,0  -2,2   2,5   0,7    -0,5
Pil al netto di costruzioni e
consumi finali della P.A.
  2,4   0,6  -0,2   0,5  -0,5     0,6
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Fonte: elaborazione su dati Istat
 
Lo scenario sopradescritto trova conferma anche dai dati relativi alla produzione industriale, opportunamente messa a confronto con l'andamento dell'indice di produzione del settore delle costruzioni (ricostruito dall'Istat a partire dal settembre 2004): mentre il primo (che, come detto, non incorpora le costruzioni) ha conosciuto la peggior serie tendenziale annuale del dopoguerra, contestualmente l'indice sintetico della produzione nel settore delle costruzioni si è mosso in fortissima controtendenza, nonostante un lieve rallentamento degli ultimi due anni.
 
Tab. 2: Andamento della produzione industriale e della produzione nelle costruzioni, dati destagionalizzati (var. tendenziali)
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  2001    2002    2003   2004    2005 

 var.%
media
annua

 var.%
di periodo
 2001-2005

Indice gen. della
produz. industr.
 -0,9   1,7   0,5  -0,5  -0,9  -0,9     -4,5
Indice di produz.
delle costruzioni
  5,5   5,1   1,9   2,6   1,4   3,3     17,4
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Fonte: ibidem
 
(per il Graf. 2, clicca qui)
 
Va detto che il formidabile ciclo delle costruzioni residenziali di cui si è trattato non è stato una prerogativa solo italiana (si vedano Uk, Spagna e soprattutto gli USA), bensì trova radici comuni con la svolta del ciclo economico mondiale del II semestre 2001, allorchè le costruzioni hanno esercitato un'importante funzione controciclica (rispetto all'andamento dell'economia). Ciò è stato favorito dall'immissione nel sistema economico di una enorme massa di liquidità (con tassi di interesse a breve negativi negli Usa per diversi trimestri) allo scopo di scongiurare l'incipiente recessione americana e, a catena, mondiale, e favorendo enormemente la crescita dei mercati immobiliari.
Tuttavia, ciò che distingue l'Italia - in negativo - dal resto dei paesi ad economia avanzata è stato il contesto macroeconomico domestico in cui tale boom delle costruzioni è proseguito anche dopo l'avvio della ripresa europea e mondiale; esso è migliorato notevolmente negli altri paesi, ma è rimasto inalterato in Italia (come detto: al netto delle costruzioni, economia in recessione)

Il quadro che emerge è quello di un paese in cui l'industria è ferma e produce poco valore aggiunto e produttività; in cui la ricchezza si sposta dal lavoro e dai settori qualificati e ad alta intensità tecnologica (che sono il futuro delle economie avanzate) alla rendita. Tutto ciò è, del resto, coerente con quanto già emerso in numerose analisi (ultima la Relazione Annuale Banca d'Italia 2006, ecc.) per quanto attiene alla dinamica di crescita del reddito, laddove quest'ultima si è decisamente spostata dai percettori di reddito da lavoro ai rentiers, in particolare immobiliari, che hanno enormemente beneficiato della crescita dei valori delle abitazioni.

Tutto questo, va da sé, stride fortemente con l'esigenza di allineare la nostra economia agli obiettivi di Lisbona, ovvero la creazione di un'economia fondata sulla conoscenza, in cui la produttività viene dal capitale umano e non dal cemento.

E' bene, dunque, che i policymakers prendano atto che esiste un problema dal lato della qualità della crescita, e che non basta che le variazioni tendenziali annue riportino un segno anche solo leggermente positivo per dire l'Italia ha invertito la tendenza o che il "declino non esiste": occorre che dai dati risulti chiaro che gli investimenti, i consumi e le esportazioni sono cresciuti come risultato della crescita della produttività e della valorizzazione del capitale umano (il che significa: vedere finalmente crescere l'occupazione a ritmi decenti non soltanto nell'edilizia).

Sino a che il Pil rimane a quota zero o cresce a ritmi comunque asintotici solo grazie al fatto che si costruiscono case, ma intanto la produttività (in termini di unità di Pil reale per occupato) resta negativa, Lisbona resta lontana.
Venerdì, 17. Novembre 2006
 

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