Il peggio è passato? Non per il lavoro

Nel terzo trimestre il Pil è salito dopo cinque dati negativi, ma per l’occupazione è ancora buio pesto. Siamo già tornati indietro di anni come percentuale di lavoratori attivi e si continua a perdere il posto al drammatico ritmo di mezzo milione di persone al trimestre

I dati diffusi qualche giorno fa dall’Istat relativi alle forze di lavoro cominciano a dipingere a tinte già molto forti le ripercussioni della crisi economica e finanziaria sul mercato del lavoro. Le previsioni di economisti e operatori del settore, che ad una sola voce rappresentavano un quadro dell’occupazione in Italia fortemente critico anche nel momento in cui i primi segnali di ripresa si sarebbero affacciati all’orizzonte, sono state ampiamente confermate.

 

Nel terzo trimestre 2009 la variazione congiunturale del Prodotto interno lordo torna a segnare un valore positivo (+0,6%) dopo che per 5 trimestri consecutivi l’indicatore era arretrato pesantemente, tanto che su base annua il calo oscillava intorno al 6%. Dire che la recessione è finita è quantomeno prematuro e certamente irresponsabile ma il dato deve essere indiscutibilmente accolto come un segnale positivo.

 

Ben diverso è il quadro sotto il profilo dell’occupazione. Stando all’Istat nel medesimo trimestre del 2009, il terzo, sono stati bruciati più di mezzo milione di posti di lavoro in un anno con una forte caduta dell’occupazione soprattutto al Nord e nel Mezzogiorno. Secondo i dati destagionalizzati anche rispetto al trimestre precedente il calo risulta sensibile (120 mila unità in meno che rappresentano un -0,5%). In un solo anno i tassi di occupazione sono tornati ai livelli del 2005 nel Nord e di anni ancora precedenti nel Mezzogiorno. Dopo anni di crescita graduale ma costante una retromarcia così brusca ed evidente può essere determinata soltanto da un evento di enormi proporzioni com’è la crisi economica che stiamo vivendo. Inoltre, proprio in questi ultimi giorni sempre l’Istat ha diffuso le prime stime mensili relative a occupati e disoccupati per il periodo che va da gennaio 2004 a ottobre 2009: un’informazione molto preziosa per la sua tempestività,  ancora di più visti i tempi. Sulla base di queste ultime stime, seppur provvisorie, anche per il mese di ottobre non si intravedono segnali di schiarita nell’incerto orizzonte lavorativo nazionale.

 

Tornando al dato trimestrale (ovviamente più ricco e dettagliato), la debacle dell’occupazione si manifesta sotto tutti i punti di vista delle posizioni professionali e coinvolge pesantemente sia gli indipendenti (-3%), che registrano il sesto calo consecutivo, che i dipendenti (-1,9% nell’ultimo anno). La novità di questo trimestre risiede nel fatto che la diminuzione dell’occupazione alle dipendenze non riguarda soltanto le posizioni a tempo determinato (-220.000 unità in un anno) ma anche quelle permanenti (-110.000) che hanno sofferto delle difficoltà incontrate dalle piccole imprese. E’ proprio sulla scorta di queste stime che si prefigura uno scenario in cui la flessibilità diviene precarietà anche se la crisi sta erodendo abbondantemente anche la componente stabile dell’occupazione dal momento che a questo punto è significativa anche la flessione di chi deteneva una posizione a tempo indeterminato. La recessione sta quindi determinando un’estensione del concetto di precariato che, ora come non mai, non coinvolge più soltanto chi precario lo era anche in periodi di espansione dell’occupazione, come chi aveva un contratto a termine, ma anche chi deteneva una posizione che fino a ieri veniva definita come occupazione permanente (i contratti a tempo indeterminato) e che ora non lo è più. La logica conseguenza che portava a definire stabile quell’occupazione certificata da un contratto a tempo indeterminato e cioè senza limiti di tempo prefissati, deve necessariamente essere riconsiderata nell’ottica dell’incertezza e cioè nella semantica stessa del termine (indeterminato = non determinato = non certo).

 

A questo punto è d’obbligo chiedersi dove è andata a finire l’occupazione. Sempre dai dati dell’Istituto nazionale di statistica emerge chiaramente che la crescita della disoccupazione (al settimo rialzo consecutivo) non è sufficiente a contenere da sola la pletora degli ex-lavoratori e, infatti, si assiste ad un’espansione consistente degli inattivi in età da lavoro (fino a 64 anni).

 

I disoccupati, sempre nel terzo trimestre del 2009 ammontano a 1milione e 814mila unità con una crescita di 286 mila unità nell’ultimo anno. Il fenomeno è ancora più preoccupante se letto in chiave mensile che per ottobre lo proietta a oltre 2 milioni di unità. I dati della rilevazione confermano che l’allargamento della disoccupazione è interamente dovuto alla schiera degli ex occupati che nell’ultimo trimestre ha registrato un incremento superiore al 40%. Ma se questo è un risultato ampiamente prevedibile, il massiccio aumento del numero degli inattivi (+392.000 nell’ultimo anno) è un dato ancora più preoccupante.

Il passaggio diretto da occupato a inattivo nasconde una realtà fatta di attesa di risultati di precedenti ricerche, di un ritardato ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani, oppure più semplicemente che passi la tormenta.

 

Il fenomeno dello scoraggiamento (non cerco lavoro attivamente, nonostante sia disponibile a lavorare, perché so che non riuscirò comunque a trovarlo) caratterizzava il contingente delle non forze di lavoro quando l’occupazione viaggiava a gonfie vele e il numero dei disoccupati si riduceva a ritmi sostenuti. Nonostante un panorama lavorativo ampiamente in positivo il continuo aumento degli scoraggiati rappresentava un aspetto che poneva degli interrogativi sulla reale capacità di assorbimento dell’offerta di lavoro da parte dell’economia. Una consistente fetta di popolazione attiva, dunque, rimaneva esclusa dal mercato del lavoro perché era in possesso di professionalità scarsamente appetibili. Ora la situazione è decisamente cambiata e sicuramente più grave. Il contingente degli scoraggiati sta subendo consistenti arretramenti da circa un anno mentre si ingrossano le fila di coloro che, seppur disponibili a lavorare e alla ricerca di lavoro, lo fanno in modo non attivo. E’ questo il gruppo di chi aspetta gli effetti di azioni di ricerca operate in tempi recenti ma che a causa della crisi restano al momento inevase, oppure, più semplicemente, che cambi il clima e che si inverta la tendenza.

 

Un’ultima osservazione va fatta relativamente a cosa ci riserva il futuro. E’ palese che qualsiasi tipo di previsione, in una situazione così drasticamente compromessa in cui qualsiasi dinamica o tendenza viene ad ogni aggiornamento esasperata, risulta azzardata, ma dal dato relativo al ricorso alla cassa integrazione guadagni, sempre desunto dalla rilevazione sulle forze di lavoro, è possibile ipotizzare quante persone nei trimestri successivi sono potenzialmente suscettibili di perdere la loro occupazione. Infatti, il numero di coloro che dichiarano di non aver lavorato oppure di aver lavorato un numero di ore inferiore al consueto perché in cassa integrazione guadagni ha registrato incrementi medi annui del 400% nei primi tre trimestri del 2009. In termini assoluti stiamo parlando di circa 300 mila persone. Inoltre, aumentano sensibilmente anche coloro che dichiarano di aver lavorato poco o per niente a causa di una ridotta attività dell’impresa per motivi economici o tecnici ma che non hanno usufruito della Cig (un incremento medio del 40% nei tre trimestri del 2009 che corrisponde ad un numero di unità di poco inferiore a chi ricorre alla Cig). Complessivamente, quindi, oltre mezzo milione di persone a trimestre soffre gli effetti della crisi e nel trimestre successivo sconta forti probabilità di uscire dall’occupazione. Anche nell’ultimo trimestre la tendenza è purtroppo confermata.

 

In sintesi nessuno dei dati finora considerati fanno presagire ad una imminente uscita dalla crisi. Anzi il mercato del lavoro sta indubbiamente soffrendo degli effetti devastanti che hanno investito il settore finanziario prima e l’economia nel suo complesso poi. L’unica speranza è che si stia vivendo ora la fase acuta del “malanno” e che le conseguenze cicliche della tempesta, che ora si stanno abbattendo sul mondo del lavoro, si esauriscano al più presto. 

 

 L’autore è ricercatore dell’Istat - L'articolo è presentato a titolo personale e non impegna la responsabilità dell'Istituto

Martedì, 5. Gennaio 2010
 

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