Il 'Patto' non cambia i problemi per il sindacato

L'unità si può ricostruire sulle cose concrete che l'accordo con il governo non ha risolto

Ai primi di luglio, quando chi può incomincia a partire per le vacanze, tra governo, organizzazioni datoriali, Cisl e Uil, è stato sottoscritto un accordo su mercato del lavoro, fisco e Sud. Con l’accordo, definito con enfasi patriottica “patto per l’Italia”, il governo porta a casa solo modesti risultati di merito, ma un importante risultato politico.


Per il governo solo modesti
risultati di merito

Modesti risultati di merito soprattutto in rapporto ai propositi, tanto bellicosi quanto velleitari, con cui era partito all’attacco dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Infatti, delle tre deroghe inizialmente previste (in caso di trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo determinato, per le aziende con meno di 15 dipendenti che avessero superato tale soglia, per le aziende intenzionate ad uscire dal sommerso) solo la prima sarebbe stata effettivamente devastante. I contratti a tempo determinato riguardano oltre un milione e mezzo di lavoratori e dalla breccia che si sarebbe aperta avrebbe potuto agevolmente passare tutto l’esercito (comprese le salmerie) di quanti perseguono un’idea di una flessibilità del lavoro intesa sostanzialmente come “libertà di licenziamento”.

La deroga per le aziende che superano i 15 dipendenti è apparsa , da subito, più simbolica che concreta. Almeno per due ordini di ragioni. Il primo è deducibile dall’evidenza statistica. La soglia dei 15 dipendenti non risulta infatti avere influenzato le decisioni delle imprese nell’aumento, o nella diminuzione dell’occupazione. Non a caso poche settimane fa, in occasione della presentazione del rapporto annuale sulla situazione del paese, il presidente dell’Istat sottolineava che pur “in un contesto caratterizzato da notevole dinamica dimensionale non emergono discontinuità rilevanti nella propensione media all’incremento dell’occupazione dipendente. Ciò vale con riferimento specifico alla soglia dei 15 dipendenti che non sembra rappresentare un punto di discontinuità chiaramente riscontrabile”. Il secondo è che il limite dei 15 dipendenti era già in larga misura virtuale. Bastava infatti che le aziende assumessero con contratti di apprendista, di formazione lavoro, di collaborazione coordinata e continuativa, o con tutte le altre forme immaginifiche consentite dai così detti “contratti atipici”, per non superare formalmente la soglia dei 15 dipendenti.

Infine, la deroga per incoraggiare le aziende ad uscire dal sommerso andava considerata semplicemente il prodotto volonteroso di qualche “mente inutilmente operosa” del ministero del Lavoro. Evidentemente sprovvista di qualsivoglia conoscenza dei veri vantaggi comparativi delle aziende che scelgono (con la complicità delle imprese maggiori e della stessa pubblica amministrazione) di operare nell’illegalità. Non a caso questa misura è stata rapidamente tolta dal tavolo dallo stesso governo. Probabilmente preoccupato che si potesse trasformare in un booumerang.

Novità più preoccupanti
della deroga all'articolo 18

La deroga temporanea per le aziende che supereranno i 15 dipendenti, contenuta nell’intesa firmata tra il governo (pronuba la Confindustria) e la Cisl e la Uil, appare quindi più un escamotage per salvare la faccia al governo, che una vera minaccia alle difese contro i licenziamenti ingiustificati. Se fossi ancora un sindacalista, più che di questa deroga, mi preoccuperei maggiormente per alcune novità silenziosamente introdotte nel testo e, verosimilmente, destinate a produrre “effetti collaterali” inattesi e spiacevoli. Mi riferisco all’ “Outsourcing”, cioè al trasferimento all’esterno dell’azienda di pezzi di attività (anche se è stato previsto il requisito dell’autonomia funzionale del ramo da trasferire). Mi riferisco inoltre alla creazione di “Job center”. Vale a dire la liberazione da ogni vincolo delle agenzie per il lavoro interinale che potranno, d’ora in avanti, partecipare a pieno titolo al collocamento privato. A questo scopo è stata anche introdotta la misura complementare di cancellare la legge 1369 che vietava il puro appalto di mano d’opera. Mi riferisco infine allo “staff leasing”. Meccanismo che permetterà all’azienda di non essere più titolare del rapporto di lavoro. Perché titolare diventerà la società di lavoro temporaneo. E’ del tutto evidente che i lavoratori “somministrati” con lo “staff leasing” toglieranno un po’ di lavoro ai dipendenti assunti con contratti standards, non saranno protetti dall’articolo 18, e non avranno nemmeno altre tutele. Il silenzio dell’intesa su quest’ultimo aspetto è istruttivo.

Tasse, più tagli per i ricchi:
forse soffrono di più...

Mi preoccuperei anche per quello che è stato annunciato come il più grande taglio delle tasse mai fatto nella storia della repubblica. Come è noto, il primo passo riguarderà tutti i redditi fino a 25 mila Euro (50 milioni circa di vecchie lire) ed a questo scopo sono stati previsti 5.500 miliardi di Euro di minori entrate. Il secondo passo allevierà invece solo le sofferenze dei benestanti e dei ricchi. Per loro, anche se sono un numero assai ristretto, serviranno almeno 15 miliardi di Euro. Cioè tre volte tanto rispetto a quanto previsto per l’insieme dei contribuenti. Evidentemente il governo ritiene che i ricchi soffrano di più.

A parte ogni considerazione sull’aumento delle diseguaglianze (che, con ogni evidenza, è considerato un tema estraneo alla attuale moda politica) il punto che ritengo decisivo è che non si possono ridurre le tasse e contemporaneamente finanziare un decoroso programma di ammortizzatori sociali. Per altro indispensabili se si intende attenuare i rischi, sugli individui e sulla famiglie, del lavoro che cambia.

Che le due operazioni (riduzione delle tasse e finanziamento degli ammortizzatori sociali) siano in contraddizione tra di loro, è confermato dal fatto che sulla questione degli ammortizzatori sociali l’accordo si è strettamente limitato ad un inchino rituale. Con uno stanziamento simbolico di 700 milioni di Euro.

Il successo del governo
è sul piano politico

Sul piano politico il risultato per il governo appare invece più consistente. La divaricazione tra le organizzazioni sindacali indebolisce i suoi interlocutori-antagonisti sociali e li espone maggiormente alla duplice deriva: o di una chiusura corporativa, oppure al rischio di una subalterneità. Per di più il “rigetto di faglia” (come direbbero i geologi) che ha allontanato le posizioni nel sindacalismo confederale, potrebbe causare un’onda sismica con non improbabili danni nello schieramento politico di opposizione. Quello che quindi desta preoccupazione non è tanto il fatto che Cgil, da una parte, e Cisl ed Uil, dall’altra, abbiano espresso una posizione diversa sull’ammissibilità o meno di una deroga all’articolo 18. Una diversità di valutazioni sull’opportunità di un compromesso, su questa o quella politica, come si è verificata in passato potrà ricapitare in futuro. Come si verifica tra i lavoratori, quando devono esprimersi sull’esito di una trattativa, può benissimo verificarsi tra le organizzazioni.

La ragione di preoccupazione è invece riconducibile alla condotta delle organizzazioni sindacali lungo l’arco dell’intera vicenda. Cgil, Cisl ed Uil hanno infatti affrontato lo scontro solo sulla base di comuni generici intenti di resistenza verso i propositi più bellicosi del governo. Ma senza una precisa strategia unitaria,. Senza una piattaforma comune. E, per di più, con ipotesi tattiche diversificate. Un approdo distinto non può quindi essere considerato una inattesa fatalità. Ma piuttosto l’esito non improbabile di un comportamento contrassegnato da autoreferenzialità, anziché dalla ricerca (faticosa) di posizioni unitarie.

Che ora il governo cerchi di allargare e cristallizzare le divisioni è cosa che non dovrebbe sorprendere. Per altro, a questo obbiettivo era sicuramente collegata anche la stupefacente sortita di Maroni di escludere la Cgil dai futuri confronti tra governo e parti sociali. A cominciare da quelli più imminenti, sulla spesa sociale e sullo Statuto dei lavori.

Escludendo la Cgil si tenta
di cristallizzare le divisioni

Si tratta, naturalmente, di una autentica idiozia. Per di più aggravata dalla motivazione (data anche da qualche altro ministro) che l’esclusione della Cgil si giustificherebbe con la mancata firma dell’intesa di luglio. Cosa che gli esponenti della maggioranza hanno giudicato come la conferma del pregiudizio politico della Cgil verso il governo e la prova provata della sua natura di “sindacato di opposizione”.

Al di là dei sentimenti e dei risentimenti che si sono manifestati in queste settimane, è evidente che i primi a sbarrare la strada a questo assurdo ostracismo non possono che essere la Cisl e La Uil. Perché ogni loro atteggiamento tiepido o tardivo verso l’esclusione della Cgil, in quanto giudicata “sindacato di opposizione”, avrebbe la sgradevole ed inaccettabile conseguenza di venire, a loro volta, letti (per differenza) come “sindacati governativi”. Cosa che non è nella loro tradizione ed ancora meno, suppongo, nelle loro intenzioni. Naturalmente risulterà meno disagevole riuscire a respingere le manovre del governo tendenti a mettere del sale sulle ferite della divisione, se le organizzazioni confederali non vi aggiungeranno di loro un improvvido e dissennato lavorio di ulteriore divisione e contrapposizione. Soprattutto con iniziative che rischiano di allargare il fossato fino a renderlo insuperabile. Almeno per un lungo lasso di tempo. Penso quindi che tutti i sindacalisti, di tutte le organizzazioni, farebbero bene a riflettere sulle parole che vengono pronunciate in questa situazione. Ma dovrebbero riflettere ancora di più sulle iniziative che vengono progettate, o realizzate.

Un doppio errore le posizioni
su referendum e articolo 39

A questo proposito vorrei dire con franchezza ai dirigenti della Cgil, ai quali mi legano (anche per antica frequentazione) apprezzamento e simpatia morale, che le ipotesi affacciate, di indire un referendum abrogativo sulla modifica introdotta all’articolo 18, oppure di invocare l’applicazione dell’articolo 39 della Costituzione per dirimere le dispute sulla rappresentanza, appaiono discutibili. Anzi, per dirla schiettamente, non condivisibili.

In relazione all’ipotesi referendaria (comunque allo stato del tutto aleatoria, considerato che il referendum non potrebbe essere celebrato prima del 2004) vorrei ricordare che, anche a prescindere da ogni decisiva considerazione sulla difesa dell’autonomia contrattuale, il sindacato rappresenta i lavoratori, non gli elettori. Perciò, quando si verifica un contrasto tra le organizzazioni si deve sempre cercare di risolverlo coinvolgendo, nelle forme più appropriate, i lavoratori. Scongiurando (almeno per quanto può dipendere dalle organizzazioni sindacali) il rischio che venga richiesto di derimerlo agli elettori. Anche per la buona ragione che molti di loro rappresentano (legittimamente, ci mancherebbe altro!) interessi contrastanti con quelli del mondo del lavoro. Può darsi che il referendum abrogativo venga promosso da qualche forza politica. E’ una scelta rispettabile e comprensibile. Anche se, naturalmente, chi lo promuove deve considerare ed assumersi i rischi relativi al possibile esito. Ma è appunto comprensibile perché partiti e movimenti politici, in coerenza con la loro natura, si rivolgono giustamente agli elettori, mentre gli interlocutori dei sindacati non possono che essere i lavoratori.

Il sindacato non può diventare
una istituzione parastatale

Considero incomprensibile anche il richiamo all’articolo 39 della Costituzione. Intanto perché l’articolo 39 è un residuato della cultura giuridico corporativa. Nel cui contesto i padri costituenti hanno vissuto, rimanendone in una qualche misura condizionati. Ma anche a prescindere dalle origini e dai modelli culturali che l’articolo 39 esprime (naturalmente, dal secondo comma in poi), resta pur sempre il fatto che se un sindacato trae la sua legittimazione dal riconoscimento giuridico dello Stato, nella sostanza, si trasforma inevitabilmente in una istituzione parastatale.

Dubito che nel sindacalismo confederale ci possa essere qualcuno che consideri auspicabile un simile sviluppo. Ma proprio per questo è meglio lasciare perdere confusi ed anacronistici riferimenti all’articolo 39. Se c’è, come c’è, tanto più in presenza di contrasti, l’esigenza di sapere “chi rappresenta chi” non è certo difficile individuare regole e strumenti autonomi con cui il problema può essere risolto.

In conclusione. Per quanto tra Cgil, Cisl ed Uil ci siano state e ci siano differenze sulle politiche, per quanto improvvide polemiche, recenti e meno recenti, abbiano ulteriormente deteriorato il clima ed i rapporti tra le organizzazioni, occorre scongiurare disastrosi arroccamenti. Cosa possibile solo se si riparte dai problemi.

Solo ripartendo dai problemi
si possono evitare arroccamenti

Ora, tra i problemi veri c’è sicuramente quello di rimediare al fatto che (anche prima della deroga introdotta con l’accordo delle scorse settimane) il campo di applicazione dell’articolo 18 riguardava solo un lavoratore su quattro. Il secondo problema da risolvere è quello di mettere in campo un sistema di “ammortizzatori sociali” che porti anche l’Italia al passo con il resto dell’Europa. Purtroppo, gli ammortizzatori non c’erano prima e continuano a non esserci nemmeno dopo.

In definitiva, mi sembra quindi che, al di là di polemiche tanto aspre quanto fuorvianti (come spesso capita!), per il sindacato le questioni aperte rimangono le stesse che preesistevano al confronto sul lavoro deciso dal governo. Vale a dire come, ed a quali condizioni, è possibile garantire la generalità dei lavoratori contro i licenziamenti individuali senza giustificato motivo. Ed inoltre come, con quali risorse, a quali condizioni, si può costruire anche per i lavoratori italiani un sistema di protezione sociale analogo a quello che esiste nel resto d’Europa.

Continuo a pensare che il futuro del sindacalismo confederale e dei suoi dirigenti non si gioca (anche se la cosa appassiona molto i media) sulla abilità dialettica nello scambiarsi reciprocamente accuse e critiche. Si gioca soprattutto sulla capacità di ricostruire, a partire da progetti condivisi, un tessuto ed un destino comune.

Dello stesso autore vedi anche Articolo 18 e dintorni

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Mercoledì, 27. Febbraio 2002
 

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