Il paradosso italiano: crescita zero, meno salari, più profitti

L'economia è ferma mentre la recrudescenza dell'inflazione colpisce soprattutto i beni primari. Solo gli utili delle imprese corrono: nel 2007 (dati Mediobanca) di un altro 10%. Soldi che sono andati poco agli investimenti e molto agli azionisti. Così l'indice di disuguaglianza è tra i più alti in Europa, dove - sarà un caso? - crescono di più i paesi in cui questo indice è più basso

Sarà per il caldo afoso di agosto che stimola a pensare soprattutto a località fresche. Sarà perché distratti dai termini demenziali del dibattito politico sulla “sicurezza” (perseguire: gli accattoni, i lavavetri, gli “snob” che rovistano nei cassonetti della spazzatura). Fatto sta  che i dati sul paradosso dell’economia italiana sono passati nel disinteresse generale.

 

In cosa consiste questo paradosso è presto detto. L’economia del paese è ferma. Nel secondo trimestre 2008 la crescita è stata pari a zero. Contemporaneamente i prezzi volano. In particolare quelli dell’energia, degli alimentari, delle spese di prima necessità. Di conseguenza il potere d’acquisto di salari e pensioni regredisce. Secondo il governatore della Banca d’Italia è tornato a ciò che era nel 1995. Invece gli utili delle imprese continuano a camminare. Anzi, corrono. I dati resi noti dall’ufficio studi di Mediobanca (cumulativi di 2020 medie e grandi imprese) lo confermano. Infatti nel 2007 i profitti sono aumentati del 10 per cento, segnando il nuovo record storico di 29,9 miliardi.

 

L’impennata dei profitti non costituisce certo una sorpresa. In effetti è lo sviluppo di una tendenza, che consolida i risultati del 2006 e prepara ulteriori miglioramenti per il 2008. Come fanno prevedere i conti del primo semestre.

 

Questa esplosione dei profitti si spiega con l’aumento delle esportazioni, malgrado una congiuntura internazionale non particolarmente brillante. Si spiega inoltre con i sensibili aumenti di produttività. Fra il 98 ed il 2007 c’è stato un balzo del 19 per cento. Che, considerati prezzi e salari, ha significato un margine di 11,5 punti a favore delle imprese. Per fare buon peso, alla crescita dei profitti ha infine dato una mano il fisco. La manovra su Ires ed Irap (decisa dal governo di centrosinistra) ha dato sensibili benefici già nel 2007 quando la pressione fiscale sulle imprese è stata ridotta dal 31 per cento al 28,7 per cento. A regime (cioè nel 2008), il calo diventerà di ben 5 punti.

 

Non sorprende, dunque, l’aumento dei profitti. Sorprende semmai che la notizia sia passata nell’indifferenza pressoché generale. Ma, forse, neanche questo comportamento apatico può meravigliare. Del resto la vulgata economica classica non ha sempre teorizzato che sul sovrappiù di risorse, oltre a quelle necessarie alla sopravvivenza (possibilmente frugale) dei laboratores che le producono e quelle requisite dall’avidità degli oratores e bellatores, si costituisce la “Ricchezza delle nazioni”? Perché proprio con questo sovrappiù i capitalisti possono acquistare nuove macchine e mettere al lavoro altri operai. Infatti, secondo questa dottrina (che ha dominato il pensiero economico fino all’inizio del novecento) i profitti si trasformano in investimenti e gli investimenti in crescita. Compresa l’occupazione.

 

Sappiamo che, nel secolo scorso, questa teoria ha subito significative correzioni ed è stata perciò in parte soppiantata. L’asse portante del nuovo pensiero economico è che i prezzi relativi delle merci vengono determinati sulla base della domanda e dell’offerta. Questo significa che, quando i mercati funzionano bene, portano alla piena occupazione delle risorse disponibili. Così che, se ci sono lavoratori disoccupati, la maggiore offerta di lavoro determinerà una riduzione del salario e questo indurrà le imprese ad assumerli. Insomma, il sistema economico tenderebbe “naturalmente” al pieno impiego. Invano economisti di grande talento (su tutti Keynes) si sono impegnati a spiegare che il mercato ha una funzione importante, ma che ci sono problemi (a cominciare dal pieno impiego) che “la mano invisibile”, da sola, non è assolutamente in grado di risolvere. Altri (con ancora minore fortuna) hanno messo in evidenza che anche l’equità sociale è un problema. La storia economica è una continua conferma del fondamento di queste critiche. Ma, come quasi sempre capita,  purtroppo la storia non insegna niente.

 

Il rapporto di Mediobanca (relativo a 2020 medie e grandi imprese italiane) ne è la comprova. Tra le tante informazioni, infatti il rapporto ci dice anche che gli utili record delle principali imprese italiane non si sono trasformati in investimenti. Per la buona ragione che sono stati impiegati soprattutto per migliorare la “qualità della vita” degli azionisti. Tant’è vero che, nel 2007, al netto di aumenti di capitali e tenuto conto dell’acquisto di azioni proprie, i dividendi distribuiti da queste aziende hanno raggiunto i 20,5 miliardi, mentre negli ultimi tre anni hanno superato la ragguardevole cifra di 53 miliardi. Nello stesso periodo la crescita è rimasta al palo, i salari sono diminuiti (trascinando in basso la domanda interna), mentre la disoccupazione è rimasta stabile. Anzi, è ulteriormente aumentata al Sud, malgrado la dottrina che sostiene che i bassi salari portano al pieno impiego.

 

La sola conclusione che si può trarre è che non aveva tutti i torti Gorge Santayana ad affermare che “le teorie servono solo a coprire la nostra ignoranza dei fatti”. Ed il fatto, di cui speriamo che prima o poi qualcuno si accorga e incominci a porvi rimedio, è che ormai da troppi anni la distribuzione del reddito peggiora a danno dei lavoratori. Questo non è il giudizio di qualche leader della sinistra, radicale, alternativa, no-global che con spocchia viene sbrigativamente accantonato. E’ semplicemente l’opinione che si ricava dalla consultazione del Rapporto annuale sulla situazione sociale redatto dalla Commissione Europea (che prende in considerazione la distribuzione familiare dei redditi nel 2004). Secondo il rapporto in Italia l’indice Gini (che misura la concentrazione delle disuguaglianze) risulta pari a 32,5. E’ quindi sensibilmente alto. Al punto che, in Europa sono in una situazione peggiore dell’Italia solo Portogallo,Grecia, Regno Unito, Estonia, Polonia, Lettonia, Lituania, mentre tutti gli altri 17 paesi sono in una condizione migliore.

 

Senza perderci in inutili dettagli, credo che valga però la pena di sottolineare che i paesi più egualitari come la Svezia (22,5) e la Danimarca (22,7) sono anche quelli con ritmi di crescita del Pil più elevati. E sebbene non sia possibile stabilire una correlazione meccanica tra dinamica economica e tensione all’eguaglianza, si può sicuramente ritenere che, nel caso italiano, l’aumento delle disuguaglianze produce non solo deprecabili conseguenze sociali, ma anche guasti economici. A cominciare dal preoccupante deperimento della domanda interna. Che non è certo il coadiuvante più adatto per guarire l’economia italiana da una condizione asmatica che tende a diventare cronica.

 

In ogni caso, è certo che fin che continueranno a coesistere (per così dire, pacificamente!) aumento dei profitti, impennata dei prezzi e riduzione del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, è impossibile aspettarsi un qualunque miglioramento della situazione economica.

Martedì, 12. Agosto 2008
 

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