Il 'Nuovo modello': contrattare in peggio

E' singolare che, mentre il problema è come far recuperare ai salari il terreno perduto, uno dei punto più rilevanti dell'accordo siglato il 22 gennaio da governo, Cisl e Uil sia la possibilità di concordare a livello locale condizioni peggiorative rispetto al contratto nazionale. Ma non è l'unico aspetto criticabile di una intesa che sembrerebbe aprire più problemi di quanti non ne risolva

(quinto di una serie di articoli: qui il primo – qui il secondo – qui il terzo – qui il quarto)

 

Il “Nuovo modello contrattuale”

 

Se le diagnosi sulla crisi (vedi articoli precedenti) suscitano perplessità, nemmeno alcuni dei rimedi escogitati appaiono particolarmente convincenti. La recessione che ha investito l’economa mondiale è grave ed allarmante. Grave, per i costi umani e sociali che ha già prodotto e per quelli che si preannunciano. Allarmante, perché nessuno (tra i responsabili delle politiche economiche e tra i cosiddetti esperti) l’aveva prevista, così come nessuno sa dire con certezza in che modo si riuscirà ad uscirne. La sola opinione che incomincia a farsi strada è che non si può lasciare fare ai mercati. Non si può cioè continuare a fare finta di credere che i mercati siano “efficienti”. In effetti, anche i seguaci più bigotti della scuola economica liberista hanno dovuto prendere atto che, se si lascia fare ai mercati, il rischio è che si passi da un eccesso ad un altro. Con il risultato di aumentare i guai invece che  diminuirli. Si capisce perciò perché, in un contesto segnato anche da “ravvedimenti”, abbia preso vigore il dibattito sulle regole. Per altro non esente da strabismo. Con un occhio che ride agli omaggi rituali al “libero commercio mondiale” ed uno che piange per dissimulare il protezionismo nazionale.

Purtroppo l’Italia non ha alcun significativo ruolo nel dibattito su come “regolare” l’economia mondiale. Sarà forse anche per questo che governo e  parti sociali hanno  deciso di dedicare tempo ed energie a discutere delle regole per il funzionamento delle “relazioni sociali”.

 

In questo quadro, per buona parte dello scorso anno e fino all’inizio del 2009, si sono perciò applicati alla questione di come realizzare un “nuovo modello contrattuale”.  Ovviamente i “modelli” (inclusi quelli contrattuali) sono sempre il prodotto della storia ed è quindi naturale che possano cambiare (o comunque venire aggiornati) con il mutare del contesto storico. Il problema è avere chiaro perché si cambia. In sostanza si tratta di capire e far capire qual è il risultato che, con il cambiamento ipotizzato, si intenderebbe perseguire.

 

In sostanza sarebbe stato utile non ignorare che una delle questioni principali dell’Italia deriva dal fatto che la quota di reddito destinata al lavoro dipendente è in flessione ormai da troppi anni. La presa d’atto relativa avrebbe perciò dovuto spingere al perseguimento di un riequilibrio delle politiche redistributive. Esigenza ancora più urgente, tenuto conto della situazione di recessione che tende ad aggravare ulteriormente i termini del problema. La ragione per questa scelta è abbastanza semplice da capire. La recessione rischia infatti di avvitarsi producendo un periodo non breve di stagnazione (quanto è successo al Giappone, rimasto in recessione per una dozzina d’anni, avrebbe dovuto indurre a qualche riflessione) se, al rallentamento della economia reale, si sommasse una ulteriore caduta della domanda. Caduta che potrebbe essere causata sia da una progressiva perdita di posti di lavoro, che da salari insufficienti per consentire a molti lavoratori di riuscire a tirare la fine del mese. 

 

Quindi la cosa che sorprende è che, malgrado fossero già ben presenti seri elementi di preoccupazione, si sia ritenuto preferibile occuparsi d’altro. E’ infatti proseguita e cresciuta l’attività di esplorazione alla ricerca di un “nuovo modello contrattuale”. Sul punto, come hanno ampiamente riferito le cronache, il 22 gennaio 2009 governo, Confindustria, Cisl e Uil hanno raggiunto una intesa dalla quale, con varie motivazioni, si è invece dissociata la Cgil. Tra le ragioni della dissociazione un certo rilievo è stato dato a quella sottolineata dalla Cgil che con il nuovo sistema i lavoratori perderebbero oltre 300 euro all’anno. La Cisl ha sostenuto, al contrario, che proprio grazie al nuovo sistema i lavoratori avrebbero invece guadagnato 600 euro all’anno. Trattandosi di calcoli ipotetici, potrebbero persino avere ragione entrambi. Ma questo contenzioso non può offuscare i dubbi e le considerazioni critiche sull’intesa.

 

Innanzi tutto, quello sulla riforma della contrattazione è essenzialmente un accordo procedurale. E poiché esso si è concluso senza l’adesione del sindacato più rappresentativo (che verosimilmente non si sentirà vincolato all’osservanza delle procedure definite da altri) nessuno è in grado di prefigurare, con ragionevole certezza, cosa potrà avvenire nel concreto della sua applicazione. Il risultato potrebbe essere addirittura opposto a quello atteso dai contraenti, Nel senso che, invece di contribuire a razionalizzare e proceduralizzare il conflitto, potrebbe renderlo ancora più imprevedibile ed ingovernabile. Tuttavia. Anche prescindendo dalle dispute tecnico-giuridiche che potrebbero delinearsi, già da ora si profilano difficoltà politiche su cui sarebbe bene riflettere.

 

Stando alle dichiarazioni dei ministri Sacconi e Brunetta si potrebbe essere indotti a pensare che il governo non sia rimasto particolarmente dispiaciuto della dissociazione della Cgil. L’impressione infatti è che una parte del Governo (o, forse, tutto?) abbia ritenuto che un sindacato diviso consenta di procedere più speditamente, con meno intoppi, nella realizzazione del proprio programma.

 

Quale che sia il giudizio in ordine al programma, o anche solo alle intenzioni del governo, una simile opinione appare abbastanza avventata. Non fosse altro perché siamo nel pieno di una crisi che il governo sta affrontando alla cieca, senza bussola ed i cui costi sociali saranno sicuramente pesanti e presenteranno perciò notevoli difficoltà di assorbimento.

Si tratta di una valutazione che, non a caso, ha spinto il nuovo presidente degli Stati Uniti ad operare una scelta esattamente opposta. Infatti, le prime tre mosse del neopresidente Obama sono state: di nominare ministro del Lavoro Hilda Solis (considerata da tutti il ministro più pro-labour mai designato dal 1930); di presentare al Congresso l’Employee Free Act, per favorire l’adesione alle organizzazioni sindacali ed una profonda riorganizzazione del mercato del lavoro americano. Infine di sostenere pubblicamente che “Non sono i lavoratori il problema, perché semmai essi sono parte della soluzione”. E per sostenere più efficacemente questa convinzione ha fatto pervenire ai sindacati americani un  messaggio chiaro: “E’ necessaria l’unità sindacale”. Convinto che la sua Amministrazione potrà essere aiutata a raggiungere risultati positivi per l’economia e per il lavoro solo potendo interloquire con un movimento sindacale unito, piuttosto che con organizzazioni concorrenti. Le due maggiori confederazioni, la storica Afl-Cio e la dissidente Change To Win, hanno prontamente raccolto la sollecitazione ed hanno subito iniziato gli incontri per rilanciare, nel segno dell’unità, il lavoro organizzato negli Usa.

 

Naturalmente Berlusconi non è Obama e Sacconi non è Hilda Solis. La differenza si vede a occhio nudo. Tant’è vero che, mentre il presidente americano pragmaticamente ritiene necessario il massimo di coesione sociale per cercare di arginare una crisi che ha pochi precedenti, i governanti italiani sembrano più interessati ad accreditarsi come gli ultimi epigoni dell’ideologia reganiana. Il tempo è galantuomo e si vedrà chi avrà avuto ragione.

Nell’attesa non si può escludere che l’accordo sul “Nuovo modello contrattuale” rimanga lettera morta. Come, nei fatti, è successo a suo tempo con il “Patto per l’Italia”. Non è nemmeno da escludere che esso dia luogo ad un aumento del contenzioso su chi rappresenta chi. Tanto a livello d’azienda che di categoria. Contenzioso il cui effetto più significativo potrebbe essere un ulteriore affievolimento del potere contrattuale dei sindacati. Tanto più dovendo tenere conto di una congiuntura che si presenta già assai difficile di suo. Ma anche immaginando che nulla di questo succeda e che perciò venga scongiurato il pericolo di una situazione di impotenza e paralisi dell’attività contrattuale, la domanda è: quali novità ci si può aspettare dall’applicazione del “Nuovo modello contrattuale”? 

 

Innanzi tutto, con l’accordo del 22 gennaio vengono confermati due livelli di contrattazione. Con una piccola novità: la durata dei contratti nazionali viene riportata a 3 anni, sia per la parte normativa che per quella salariale. In sostanza come avveniva fino a prima del 1993. A prima vista potrebbe perciò sembrare un semplice ritorno al passato. Con i contratti nazionali che verranno rinnovati ogni tre anni, invece che ogni quattro, a cui si potrà aggiungere la contrattazione integrativa a livello aziendale o territoriale. Le cose non stanno però esattamente così. Perché, in realtà, con i nuovi criteri vengono introdotti anche cambiamenti importanti.

 

Il primo stabilisce infatti che a livello territoriale o aziendale ci si possa accordare anche su salari inferiori rispetto a quelli stabiliti dal contratto nazionale. Soprattutto in presenza di “situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale”. E’ la prima volta che una simile deroga viene introdotta in Italia ed essa fa intravedere un duplice effetto: una riduzione dei salari per gruppi più o meno estesi di lavoratori; con un ovvio aumento del numero dei contratti aziendali. Che ora invece vengono realizzati solo in una azienda su dieci. La ragione di questo probabile sviluppo è abbastanza semplice da intuire. Fin’ora lo scopo della contrattazione decentrata è sempre stato quello di migliorare le condizioni di lavoro e/o retributive rispetto a quanto stabilito dal contratto nazionale. Non a caso la contrattazione di secondo livello è sempre stata definita “contrattazione integrativa”. Ed è, proprio per questo, che le aziende sono sempre state assai poco inclini ad aggiungere contratti aziendali a quelli nazionali. Ma se ora gli accordi potranno essere fatti non solo in “meglio” ma anche in “peggio” non è difficile immaginare che non sarà più il solo sindacato a ricercarli. Sembra già di sentire l’ammonimento: “meglio perdere un po’ di salario che il posto di lavoro”.

 

Il secondo cambiamento riguarda la copertura dei salari rispetto all’inflazione. Dal calcolo dell’inflazione sono infatti stati esclusi i prodotti energetici e comunque la copertura dall’inflazione “riguarderà solo un valore retributivo individuato dalle specifiche intese”. Criterio che francamente lascia perplessi. Il motivo è semplice. Se il prezzo del petrolio diminuisce, l’indice del costo della vita diventa più dinamico. Ma quando aumenta, come è successo fino oltre la prima metà del 2008, l’indice rimane nettamente al di sotto dell’andamento reale dei prezzi. Di conseguenza il potere d’acquisto dei salari si affievolisce ulteriormente. Non ci si può quindi non porre la domanda: perché mai quando aumenta il prezzo delle fonti energetiche i costi dell’aggiustamento devono essere scaricati esclusivamente sui lavoratori dipendenti?. Intendiamoci bene. Si può anche condividere la preoccupazione di evitare che i prezzi dei beni importati finiscano per trasformarsi in un moltiplicatore di inflazione. Ma è evidente che il costo andrebbe ripartito equamente tra tutti i cittadini e non solo tra chi è costretto a vivere di salario.

 

E’ esattamente la ragione che aveva spinto Ezio Tarantelli a suggerire all’inizio degli anni ottanta (anni in cui l’inflazione aveva superato  il 20 per cento e si stava mangiando salari e pensioni) l’adozione di una “politica salariale d’anticipo” legata ad un Tasso di Inflazione Programmato. Obiettivo, quello del Tasso di Inflazione Programmato, che contestualmente impegnava l’autorità economica ad attivare il ventaglio di tutte le misure che avrebbero potute rendere credibile il risultato inflazionistico ipotizzato. Tanto più che, in caso di scostamento, le controparti pubbliche e private avrebbero dovuto farsi carico del corrispondente conguaglio.

 

Il terzo cambiamento riguarda il riferimento per l’indicizzazione dei salari. Al riguardo è stato deciso di abbandonare il “tasso di inflazione programmato” (Tip). La ragione per questo abbandono può anche essere condivisa. Ormai da anni (da quando cioè è stato messo in circolazione l’euro), la politica monetaria non si fa più in Banca d’Italia a via Nazionale, ma alla Bce a Francoforte. C’è quindi da supporre che, proprio per questo, al tasso di inflazione programmato sia stato preferito un altro indicatore. Tutto a posto allora? Non proprio. Perché il nuovo indicatore, almeno per ora, risulta un oggetto abbastanza misterioso. Mentre infatti il TIP era un obbiettivo definito dalle parti in relazione a comportamenti e misure che esse si impegnavano ad adottare e che, almeno sulla carta, lo rendeva credibile, Il nuovo indicatore, definito “tasso di inflazione previsionale”, sarà individuato da un “soggetto terzo”. La cosa è piuttosto curiosa. Tenuto conto che recentemente il ministro dell’Economia ha fatto pesanti ironie sulle previsioni econometriche della Banca d’Italia (che, presumibilmente, non risultavano di suo gradimento), bollandole come inutili congetture di “astrologi”. Tuttavia, chi ha una mentalità meno strumentale ed ideologica di quella del ministro Tremonti in ordine al lavoro di ricerca econometrico, può tranquillamente accettare che dal tasso di inflazione “programmato”, si passi a quello “previsionale” e che il “soggetto terzo” che lo deve individuare possa anche essere scelto in un albo di “astrologi”. Il punto essenziale infatti è un altro. Riguarda cosa avverrà in caso di scostamento dell’inflazione reale rispetto a quella prevista dall’astrologo. Ebbene le indicazioni sul punto, formulate nell’accordo, non risultano particolarmente rassicuranti. Il testo stabilisce infatti quanto segue: confrontando i due indici (quello “previsionale” e quello “reale”) “sempre al netto dei prodotti energetici importati”, in presenza di una “significatività” degli eventuali scostamenti registrati, verrà effettuata una verifica tra le parti.

 

Il primo dubbio riguarda, ovviamente, la determinazione di cosa si intenda per “significatività”. A quali grandezze corrisponde? Il dubbio non lascia tranquilli. Considerato, a puro titolo di esempio, che tra Confindustria ed Organizzazioni sindacali è aperto un contenzioso persino sui numeri degli incidenti e dei morti sul lavoro. Cosa in sé piuttosto semplice da determinare. Visto che la capacità richiesta consiste solo nel saper contare. Con questa osservazione non si vuole sostenere che, per quanto riguarda la dinamica salariale, si dovranno necessariamente mettere in conto insuperabili contrasti. Anche perché potrebbe essere non irragionevole supporre che persino un certo numero di imprenditori non siano così sprovveduti da non sapere che per uscire dalla crisi non sarà sufficiente cercare di tenere elevata la produzione (magari con aiuti di Stato) se poi gran parte dei consumatori (a cominciare dai lavoratori) non fossero in condizione di poterla acquistare. Si vedrà comunque a consuntivo se la lungimiranza degli imprenditori e delle loro organizzazioni si rivelerà, o meno, all’altezza della situazione.

 

Il quarto cambiamento riguarda infine il fatto che le misure, già prese nei mesi scorsi dal governo, “volte ad incentivare in termini di riduzioni di tasse e contributi” la contrattazione di secondo livello vengono ora “incrementate, rese strutturali, certe e facilmente accessibili”. Bisogna dire che questa soluzione appare più che discutibile sotto diversi profili. Il più importante dei quali è che rende permanente due regimi fiscali. Uno per il salario nazionale e l’altro, più vantaggioso, per il salario di impresa. Con il risultato di tassare diversamente due lavoratori dipendenti con lo stesso salario  lordo. In un caso determinato dal solo contratto nazionale, nell’altro come somma di due livelli di contrattazione. Cosa che, bisognerebbe riconoscere, è alquanto cervellotica. E francamente stupisce che i sindacati, a cominciare da quelli firmatari dell’intesa, sul punto non abbiano avuto niente da ridire. Tanto più tenuto conto che una simile soluzione potrebbe incoraggiare comportamenti opportunistici e o elusivi delle imprese. Tra le quali potrebbero verosimilmente non mancare quelle che cercheranno di trasformare fittizziamente (tanto più ora sono ammessi anche patti in deroga ai salari nazionali) parte della retribuzione nazionale in aziendale o locale, al solo scopo di ridurre le imposte ed i contributi da pagare.

 

In definitiva la soluzione di modifica del “modello contrattuale”, quanto meno sulla carta, sembrerebbe aprire più problemi di quanti non ne risolva. Il che conforta l’opinione popolare secondo la quale: “La causa principale dei problemi sono spesso le soluzioni”.   In ogni caso, visto che se ne discuteva da tempo si può certamente capire che alcuni, per stanchezza, o per sfinimento, abbiano pensato che fosse ormai arrivato il momento di chiudere la partita. Tanto più che i “modelli” sono come le “mode”. Non sono mai acquisite una volta per tutte. E, come diceva Flaiano, “Le mode sono l’autoritratto di una società e l’oroscopo che essa stessa fa del suo destino”.

 

Ci sarà comunque modo di verificare abbastanza rapidamente se l’intesa potrà servire a migliorare le cose o se, al contrario, rischierà soltanto di peggiorarle. Fin da ora è però possibile ritenere che il contrastato accordo del 22 gennaio potrà anche servire, più o meno, ai fini della razionalizzazione delle relazioni contrattuali, ma di per sé non sembra assolutamente in grado di risolvere il problema cruciale e più urgente. Dal quale sarebbe dunque stato opportuno partire. Tanto più se si riconosce che, con i salari attuali, un buon numero di lavoratori fa sempre più fatica ad arrivare alla quarta settimana.

 

A scanso di equivoci è bene chiarire che i rilievi critici sull’accordo per un “nuovo modello contrattuale” non implicano un corrispondente rimpianto per lo schema in vigore dal 1993. Schema che, sia detto per inciso, se ha inizialmente aiutato ad arrestare il collasso dei conti pubblici ed a creare le condizioni per l’ingresso nell’euro, negli ultimi sette-otto anni  ha prodotto risultati piuttosto deludenti. Basti considerare che un ciclo abbastanza lungo di moderazione salariale ha avuto come effetto: un aumento di profitti che non si sono trasformati in investimenti e tassi di crescita nettamente inferiori a quelli dei principali paesi europei.

 

Oltre tutto si sarebbe dovuto tenere prioritariamente conto che il fisco ha ulteriormente aggravato squilibri e diseguaglianze. Per farsene una idea basterà ricordare che, nel solo 2008, in complesso le entrate fiscali sono aumentate (solamente) dell’1,4 per cento. Cioè meno della crescita nominale del Pil. Considerato che l’inflazione media è stata del 3,3 per cento. A tenere alte le entrate sono state però le ritenute effettuate sui lavoratori dipendenti e sui pensionati. Ritenute che sono cresciute  del 7,7 per cento. Il risultato è stato così che lavoratori dipendenti e pensionati hanno pagato 8,4 miliardi di tasse in più, mentre le imposte pagate dagli altri sono diminuite di 2,7 miliardi. Di fronte a queste cifre, il meno che si possa dire è che il prelievo fiscale grava ingiustamente ed inaccettabilmente sui lavoratori. Se quindi nella attuale situazione la priorità andava attribuita a più eque politiche redistributive, ne consegue che (a Palazzo Chigi) sarebbe stato assai più opportuno discutere della restituzione del fiscal-drag a salari e pensioni, anziché di “Nuovo modello contrattuale”

 

Per ultimo, ma non da ultimo. Non scandalizza che, in certe circostanze, si possa pensare che sia appropriato diminuire il rilievo della contrattazione nazionale con un parallelo ampliamento di quello della contrattazione aziendale. Tuttavia è un orientamento che non può essere fatto valere indipendentemente dalle circostanze e dal tempo. Del resto, non è necessario  essere esperti di contrattazione per capire che la congiuntura economica ha una influenza non secondaria sulle dinamiche e sulle strategie contrattuali. Al punto che, in una congiuntura recessiva, se non esistesse il contratto nazionale andrebbe inventato. Perché è lo strumento e la modalità che consente di tutelare meglio il salario medio dei lavoratori rispetto a quanto non sarebbe possibile puntando soprattutto sulla contrattazione decentrata.

 

A scanso di fraintendimenti è bene ricordare che nessuno, in occasione della discussione del modello contrattuale, ha sostenuto che la valorizzazione del livello contrattuale decentrato avrebbe comportato il progressivo affossamento di quello nazionale. Resta tuttavia il fatto che, tanto più nella pericolosa congiuntura con cui siamo alle prese, i maggiori sforzi andrebbero concentrati sul contratto nazionale. Anche per scoraggiare un ulteriore aumento delle diseguaglianze. Derivante, più che dalla diversità dei risultati conseguiti, dalla diversità di situazioni e di potere contrattuale.

Del resto, come ammonisce l’Ecclesiaste: “ogni cosa ha il suo momento ed ogni atto ha la sua ora sotto i cielo; tempo di nascere e tempo di morire; tempo di piantare e tempo di sradicare ciò che è stato piantato; tempo di demolire e tempo di edificare; (…)”. E questo, come potrebbero spiegare molto bene i paesi che ne sono privi, dovrebbe essere ritenuto soprattutto il momento del contratto nazionale. Anche per evitare che ad una dannosa polarizzazione dei redditi si sommi anche una indesiderabile polarizzazione dei salari.

 

Lunedì, 25. Maggio 2009
 

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