Il negoziato Usa-Iran visto da Teheran

La sintesi (tradotta, a cura di Angelo Gennari) del recentissimo Rapporto di un think tank indipendente considerato tra i più autorevoli del mondo per le sue analisi. Gli studiosi hanno incontrato più volte esponenti dei due governi per ricostruire il quadro entro cui può svolgersi una trattativa

L’International Crisis Group è un think tank indipendente i cui fini sono il perseguimento della pace e la prevenzione dei conflitti. Il suo prestigio deriva dal generale riconoscimento del carattere non di parte delle sue analisi e dall’autorevolezza dei membri del suo Board. E’ considerato fra i cinque-sei massimi istituti di ricerca di politica internazionale al mondo.Questo testo è il sommario del  Rapporto Middle East Briefing n. 28,  pubblicato il 2 giugno scorso; per  il testo integrale v. http://www.crisisgroup.org/home/index. cfm?id= 6131&1=1/ .

 

 

Oggi, forse per la prima volta da quando gli Stati Uniti ruppero le relazioni con l’Iran nel 1980, esistono prospettive concrete di un cambiamento fondamentale. Il nuovo presidente americano, Barack Obama, ha dichiarato di voler aprire un dialogo senza precondizioni, e il leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Khamenei, implicitamente ha benedetto il dialogo, coi candidati in corsa per la presidenza della Repubblica decisi a provare come ciascuno di loro sarebbe al dunque l’interlocutore più efficace.

Pure, mentre obiettivi e tattiche americani sono relativamente ben noti, poco si sa di quello che pensa davvero l’Iran, anche se molto di quel che lì si pensa è presunto. L’interagire dell’occidente con un sistema politico e decisionale poco trasparente come quello iraniano si è rinsecchito e, insieme, si è strettamente focalizzato sul dossier nucleare.

Comprendere meglio la prospettiva con cui l’Iran guarda al dialogo è cruciale, però, se la connessione tra i due paesi deve poter funzionare. Questo Rapporto, basato su una serie di incontri con esponenti dei due governi e con diversi analisti, mira a mettere in evidenza il pensiero reale di Teheran sul dialogo, sui suoi fini, sulle diverse visioni che lì vengono avanzate di un rapporto futuro.

Le conclusioni sono che, mentre una normalizzazione piena al momento realisticamente sembra fuori portata, c’è invece una concreta opportunità di arrivare a un obiettivo più immediato e concreto: l’inizio di un dialogo a lungo termine che minimizzi i rischi di uno scontro e sviluppi il processo in aree di reciproco interesse.

A parte le mutue espressioni del desiderio di un nuovo rapporto, per i due paesi ci sono solide ragioni di voltare pagina. Fra le eredità involontarie della presidenza di Bush c’è anche il rafforzamento della posizione iraniana sotto molteplici aspetti oltre all’aver dimostrato la miopia di una strategia esclusivamente fondata sull’isolamento.

Washington ha molto da guadagnare da una cooperazione con l’Iran nei suoi due campi di battaglia mediorientali, Iraq e Afganistan, e altrettanto da perdere con la sua ostilità. Né la reiterazione per anni delle sanzioni, né le pressioni internazionali, né le minacce hanno rallentato l’arricchimento dell’uranio in Iran. E altri aspetti della politica statunitense hanno addirittura rafforzato l’influenza di Teheran sull’opinione delle masse in tutta la regione (mettendo al riparo l’Iran dai regimi sunniti di Saddam Hussein in Iraq e dei talebani in Afghanistan, i due paesi che lo “chiudono” a ovest e a est e suoi tradizionali avversari – N.d.T.) e rafforzato i suoi legami con la Siria, con Hamas e con gli Hezbollah. Questa strategia non è solo fallita. Si è rivoltata completamente contro chi se l’era inventata.

La Repubblica islamica si può così ben sentire avvalorata, confermata nelle sue scelte.  Ma non è propriamente, oggi, in una situazione rosea. Non c’è alcuna garanzia che la sua influenza regionale continui a crescere, si trova a dover fronteggiare un risentimento montante tra i regimi arabi; e le sanzioni, del tutto inefficaci nel costringere Teheran a cambiare strategia, hanno invece comportato costi onerosi sul piano economico (uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo scarseggia di benzina, perché tutte le majors occidentali che controllano la distribuzione l’hanno tagliato fuori; non era mai stato dotato sotto lo Scià - e, dopo, non è ancora riuscito a dotarsi - delle raffinerie sufficienti a garantirsi l’autonomia - N.d.T.).

Anche i più conservatori tra i leaders iraniani vedono il valore che c’è nel consolidare quanto è stato ottenuto attraverso qualche accomodamento con gli USA. E si vede, vedono anche loro, la forte convergenza di interessi che salta all’occhio tra America e Iran su questioni regionali di grande rilievo per l’una e per l’altro: l’integrità territoriale e la stabilità dell’Iraq; la tenuta sotto scacco dei talebani in Afganistan; l’interruzione del flusso di narcotici attraverso i confini afgani.

Tutto questo significa che il dialogo è possibile e potenzialmente fruttuoso, ma nulla di tutto questo sarà facile. Usa e Iran devono superare tre decenni di estraniazione segnata da eventi di grande portata che hanno approfondito ancora di più le distanze (nel conteggio degli Usa, trent’anni: da Khomeini e il 1979; cinquant’anni e più secondo l’Iran, dal golpe della Cia e degli inglesi contro Mossadeq che rimise sul trono del pavone lo Scià nel 1953 - N.d.T.).   

Nel corso della sua campagna elettorale, il presidente Obama ha apertamente promosso il progetto di cercare il confronto/dialogo con gli Stati che in precedenza venivano bollati come “Stati canaglia”, in particolare la Siria e l’Iran. Oggi, a quattro mesi dall’inizio della sua presidenza, sta venendo a fuoco l’abbozzo della sua linea verso l’Iran: una partecipazione incondizionata a colloqui multilaterali sul nucleare; a un certo stadio del processo, l’inizio di un dialogo bilaterale su un fronte più esteso; il mantenimento delle sanzioni come strumento di pressione; un’azione diplomatica internazionale più intensa e più vasta a livello regionale per aumentare la pressione se la politica di confronto/dialogo non dovesse riuscire a produrre i cambiamenti richiesti delle politiche altrui.

Già… ma che cosa ne pensa l’Iran? Non è facile capire la struttura di potere e il sistema di presa delle decisioni che vigono nella Repubblica islamica e, nel tirare qualsiasi conclusione, la modestia si fa necessaria. Il regime ha le sue ragioni – alcune giustificate, altre architettate – per nutrire sospetti verso i  ricercatori stranieri che, perciò, si scontrano con ostacoli significativi.

Non possiamo dire che gli intervistati di parte iraniana (ma, se ci è consentito, almeno qualche volta anche quelli di parte americana: si legga questo Rapporto, nella versione integrale, per verificarlo… - N.d.T.) – funzionari, analisti che spesso hanno stretti legami col regime e capi di centri di ricerca con reale influenza – offrano una visione esatta del pensiero della dirigenza. Per cui questo nostro briefing va letto, e filtrato, con in mente questa limitazione di fondo.

Detto, questo, nel corso di diverse settimane di interviste condotte a Teheran, il Crisis Group ha riscontrato una notevole consistenza di vedute sul modo in cui il regime contempla questa possibilità di un dialogo rinnovato, ciò che teme e quanto crede che possa estendersi un miglioramento dei rapporti. Riportare questi punti di vista non vuol dire né farli propri né respingerli; dovrebbero invece essere presi in considerazione attenta in un momento in cui l’Amministrazione Obama si imbarca in una delle sue iniziative più importanti in Medio Oriente, e una delle più complesse e più ardue.

Le conclusioni più rilevanti che abbiamo tratte dal nostro lavoro sono:  

• La richiesta più spesso reiterata da parte di Teheran è anche quella più astratta e, perciò, anche quella più facilmente (anche se erroneamente) ignorata da parte americana: che gli Usa cambino la maniera in cui guardano e trattano l’Iran, il suo ruolo nella regione mediorientale e le sue aspirazioni.

 

Il fatto è che questa è una questione centrale nel modo di pensare di una dirigenza convinta che Washington in vari modi abbia cercato di rovesciarla, di indebolirla, di contenerla. Ed è questione che ha implicazioni di ordine pratico: l’insistenza che gli Usa abbandonino qualsiasi tentativo di cambiare il regime iraniano; il rispetto per l’integrità territoriale del paese; e il riconoscimento della necessità e della legittima del ruolo che deve poter svolgere nella regione mediorientale (insomma, esigono la reciprocità: quel che gli USA considerano scontato nei loro confronti da ogni paese col quale hanno rapporti - N.d.T.).


• Teheran vedrà con enorme sospetto ogni approccio che voglia imporle un qualche test preliminare – un qualche progresso sul dossier nucleare; una qualche cooperazione in Iraq e in Afganistan – piuttosto che cercare di ridefinire, in prima battuta, nel loro complesso i reciproci rapporti e parametri di comportamento. Una strategia che miri a sposare impegni da una parte e pressioni dall’altra – anche comprensibile da parte americana – rischia di scatenare una reazione negativa da parte iraniana. I dirigenti americani vanno presentando come uno strumento di pressione necessaria per un negoziato di successo gli sforzi tesi a mettere in piedi una coalizione arabo-israeliana contro l’Iran o quelli che mirano a forgiare un’alleanza internazionale disposta a rendere più stringenti le sanzioni contro di esso. Gli iraniani percepiscono questi tentativi come espedienti fraudolenti per produrre un vasto consenso a più rigide misure di contenimento nei loro confronti nell’aspettativa che i negoziati falliscano.

 

• Teheran considererà il modo in cui gli Usa gestiranno il dossier nucleare come una cartina di tornasole. La linea rossa è per gli iraniani il diritto ad arricchire l’uranio sul proprio territorio; qualsiasi richiesta che vada oltre è considerata inaccettabile.

• Qui, in Iran, vedono svilupparsi il dialogo sullo sfondo di rivalità regionali che continueranno a persistere, in particolare nei confronti di Israele. L’Iran, a questo punto, non intende dismettere il sostegno che fornisce a Hamas o a Hezbollah, o la sua opposizione a Israele. La concezione che ha del futuro del suo rapporto con gli Usa comprende tre livelli distinti: un dialogo a largo spettro che copra questioni sia bilaterali che regionali; una cooperazione mirata su dossiers specificamente riguardanti la regione mediorientale, in particolare l’Iraq e l’Afganistan; e la realtà persistente di divergenze profonde e di una concorrenza globalmente strategica che non scompare.

• Le sanzioni stanno esigendo il loro costo e l’Iran fa fronte a seri problemi economici. Ma è altamente improbabile che questa realtà produca significativi spostamenti di policy. Il processo decisionale di questo paese sulle questioni di rilevanza strategica considerate centrali è influenzato solo marginalmente da considerazioni di ordine economico.

• A fronte di ogni vantaggio, la normalizzazione dei rapporti con Washington comporterebbe costi politici seri per il regime. L’ostilità nei confronti degli Stati Uniti è uno dei suoi pilastri ideologici, l’avversità della situazione economica può venire imputata alle sanzioni, mentre i successi tecnologici – in particolare proprio quelli nel campo nucleare – possono essere salutati come simbolo possente di resistenza nei confronti delle potenze occidentali.

Più acute sono le tensioni con Washington, più facile è per il regime tenere insieme i propri sostenitori, sopprimere il dissenso e invocare l’unità nazionale contro un nemico comune. In modo analogo, anche la concorrenza interna fra le varie fazioni complicherà una politica di impegno nei confronti dell’interlocutore. Anche di qui la frustrazione espressa da funzionari e esponenti del governo americano per le difficoltà riscontrate nell’aprire canali di contatto e di collegamento con l’Iran. E’ il senso delle cose a venire.

Quello di oggi non è il primo sforzo per migliorare le relazioni reciproche. Ma è il più promettente. Se fallisce, potremmo pagare tutti un prezzo assai caro.
Venerdì, 12. Giugno 2009
 

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