Il miliardario che vuole pagare più tasse

Nella classifica degli ultraricchi di "Forbes" Warren Buffet compare subito dopo Bill Gates e per il suo fiuto leggendario per gli affari lo chiamano "l'oracolo di Omaha". Ma le sue idee sulla società e il capitalismo sono molto diverse da quelle dominanti

Warren Buffett non si fida. Da anni non si fida dell’economia americana. Secondo lui è profondamente bacata e raccomanda a tutti (col peso che gli viene dall’esperienza, dal dimostrato buonsenso e, alla fine, dal fatto di essere il secondo uomo più ricco del mondo) di non fidarsene.

E Buffett sembra sapere quel che dice, a stare almeno al fatto che è appunto stramiliardario (in dollari), un vispo 78enne, investitore, uomo d’affari e filantropo americano. Lo classifica appunto, come secondo uomo più ricco del mondo, nel 2007, subito dopo Bill Gates – con Berlusconi povero cinquantunesimo – e con proprietà personali sui 60 miliardi di dollari, il periodico più informato e addentro della congrega (Forbes magazine, The World's Billionaires: Warren Buffet).

Buffett lo dice chiaro da anni che non ci si può davvero fidare dello stato di salute del business americano. Ogni anno, nella lettera agli azionisti della Berkshire Hathaway, la holding di cui è fondatore, azionista di riferimento e presidente, uno dei fondi di investimento più pingui e remunerativi del mondo. La Hathaway tiene insieme, tra i suoi tanti e diversificatissimi assetts, pacchetti azionari di Coca Cola e American Express e speculazioni sui cambi, come catene di vendite a scala mondiale di tappeti o strutture a scala galattica per l’allevamento del pollame.

Il problema è che, almeno fino a tempi molto recenti, i “mercati” (operatori, cioè, analisti, investitori, ecc.) consideravano palesemente Buffet come una persona saggia sì – a Wall Street lo chiamano il “saggio di Omaha” – ma troppo maverick, troppo cane sciolto, per seguirne i consigli (anche se adesso, poi, se ne pentono). Troppo eversivo, diceva l’America mainstream, uno che proclama come l’America sia malata. Uno che, in fondo, puzzava qualche po’ di anti-americano per quel che andava predicando… quasi come un Fidel Castro qualsiasi.

Anche se poi i riscontri erano dalla sua parte: perché i fondi che gestiva erano di gran lunga i più redditizi d’America e Buffett era uno che ci ha sempre “azzeccato”, guadagnando col suo fiuto e facendo guadagnare ai suoi azionisti “trilioni” (cioè migliaia di miliardi) di dollari. Nel 2003, ma è solo un esempio, sfidando ogni saggezza convenzionale – i soldi bisogna farli fruttare, no? – ha messo via – sotto il mattone, si direbbe per somme più piccole – una riserva cash di qualcosa come 36 miliardi di dollari della Hathaway. Perché era profondamente scettico, lui – e aveva ragione, no? – su una Borsa che considerava ipervalutata (rapporto costo/rendimento delle azioni, spropositato) e, ancora una volta, tenuta su da una bolla speculativa – stavolta quella edilizia – come quella dell’high tech e dei punto-com cui, praticamente da solo fra i grandi gestori di capitali, sfuggì grazie alla sua prudenza preveggente tra il ’99 ed il 2001: quando alla fine scoppiò.

Per chi ha qualche familiarità coi bilanci – ma anche per chi apprezza uno humour tenuto sottotono ma tagliente e un po’ sadico – è una lettura affascinante la collezione di rapporti annuali di Buffett agli azionisti (Assemblee degli azionisti della Berkshire Hathaway, Messages from Warren Buffet). Si tratta di documenti che dicono pane al pane, per semplificare sensatamente neo-keynesiani, iconoclastici come il loro estensore ed ironicamente sprezzanti coi guru della finanza e dell’economia che, ha scritto una volta, “con qualche eccezione, non sanno proprio di cosa parlano, come dimostrano i risultati che ottengono, ma riescono il più delle volte a farti pensare che la colpa di quei risultati sia tua”.

Lo preoccupa molto, stavolta, oltre allo squilibrio che persiste cronicamente da anni nella bilancia dei pagamenti (il debito estero), i guadagni spropositati “dei managers e dei consigli d’amministrazione delle imprese: un test pratico e serio della vera volontà di riforma della corporate America che proprio non sembra dar risultati”. E lo preoccupa la debolezza del dollaro: per questo, per ridurre il rischio di un biglietto verde in perdita accelerata di valore, ha anche cominciato ad investire, pesantemente, in valuta estera: iniziando, dice, la diversificazione con un tesoretto da 12 miliardi di dollari in euro e yen, soprattutto euro.

Warren Buffett è popolarissimo, in un certo senso. E odiatissimo e temutissimo, in un altro. Proprio perché “al contrario del presidente”, sottolinea e non scherza per niente, lui dice sempre la verità. O, almeno, la verità come la vede lui. Del resto, se lo può anche permettere…

Ad esempio non ha esitato qualche tempo fa – lui, stramiliardario – a mettere per iscritto che “se si può dire che una guerra di classe sta avendo luogo in America, e secondo me si può proprio dire, va anche detto chiaramente che da tempo a vincerla è la mia classe”.

Di fatto in America si sta diffondendo l’idea che ormai bisogna ridistribuire un po’ della ricchezza creata dal lavoro di tutti, per ricominciare a crescere tutti, ma cominciando anzitutto con chi ne ha più bisogno. E’ che troppi profitti, fatti a scapito di troppo bassi salari, fanno male all’economia perché, come disse mesi fa un breve, succoso articoletto della nostra stampa confindustriale, di cui forse adesso in viale dell’Astronomia come a Bankitalia qualcuno si va ricordando, “nel lungo periodo nessuna componente del reddito aggregato di una nazione può aumentare più del reddito stesso, se non prendendosi fette crescenti che, oltre ad avere un ovvio limite matematico, hanno sempre incontrato limiti economici e sociali”. Limiti “dettati dalla necessità di far crescere i consumi”… che, dopotutto, “sono alimentati dalle retribuzioni”. E sempre li incontreranno anche in America, perfino in America, ammonisce Buffett che difficilmente si può far passare per un “marxista”, pur parlando di guerra di classe (più correttamente, anzi, di guerra delle classi) e che certo non ha letto il trafiletto in questione.

Comincia a serpeggiare negli ambienti economicamente più ortodossi e conservatori, attenti alla difesa dei grandi patrimoni sui piccoli, dei piccoli rispetto a chi patrimonio non ha e, in  generale, di chi più ha rispetto a chi ha di meno, una preoccupazione di fondo che, al meglio, è stata espressa di recente in un allarmato articolo del NYT.

Questa non è certo l’unica uscita controcorrente (contro la sua corrente, quella di quelli che hanno vinto la “guerra di classe”). Attaccò a suo tempo – e ha continuato a reiterarlo con dovizia di argomenti – la sua totale contrarietà all’abolizione della tassa di successione. Ha detto e scritto molto sull’argomento e qui possiamo citare solo una delle opinioni più nette che ha espresso sul tema: “L’idea che a uno tocchino a vita doviziosi sussidi di fonte privata solo perché occasionalmente è sortito da un utero giusto piuttosto che da un altro va decisamente contro la mia idea di equità”.

E così, Buffett, ci sembra, ha detto tutto, insieme a non pochi altri americani che la pensavano e la pensano come lui: da altri miliardari, capitalisti di ferro come ieri Andrew Carnegie e oggi Bill Gates, a intellettuali, storici e politici di grande spessore di ieri e di oggi, come Alexis de Tocqueville, Thomas Paine, il rivoluzionario del 1789, i due Roosevelt, ecc. (cfr. per estero le varie prese di posizione sul tema, compreso Buffett integralmente).

E, anche negli ultimi mesi, quando Bush si intestardiva a ripercorrere la strada di tagli fiscali concentrati sui ricchi (il 90% di quelli che ha fatto passare su un Congresso complice o imbelle, dal 2001 ad oggi, sono stati incassati dall’1% dei contribuenti) è stato Buffett a sintetizzare, in una frase breve e efficace, il sentire comune di quella che sta diventando giorno dopo giorno e ogni giorno più chiaramente la maggioranza degli americani: che c’è qualcosa di marcio “in un sistema nel quale io, Warren Buffet, vengo tassato per il 17,7% dei 46 milioni dollari che ho fatto l’anno scorso, senza neanche aver tentato di evitare l’aliquota più elevata, e la mia segretaria che ha guadagnato 60 mila dollari viene tassata al 30% del suo reddito”.

Del resto, anche tra i fautori del capitale, i precedenti sono assai illustri: il primo e anche il più chiaro, forse, è nelle parole del fondatore/inventore della concezione stessa del libero mercato e del capitalismo come il sistema che – pur lacunoso, poi, sul piano della distribuzione delle ricchezze – è  quello maggiormente capace di far crescere la ricchezza di sistema. Adam Smith, che quanto a radicalità ed a logica non la cedeva a nessuno, diceva che “siccome per le classi lavoratrici inferiori” il reddito da lavoro è nei fatti anche l’unico patrimonio che hanno ed è quanto determina, in ultima analisi, il livello di sopravvivenza, “sia esso generoso, moderato o taccagno”, lui era contrario a qualsiasi tassazione del reddito da lavoro (cfr, La ricchezza delle nazioni, V.ii.i.1). Ed era favorevole alla proporzionalità di ogni imposizione fiscale sul resto dei redditi e delle rendite, qualche volta – i superprofitti, i consumi di superlusso – anche “più che in proporzione” (Ibidem, V.ii.b.5).

“In ogni caso – concludeva Adam Smith, spiegando in termini diciamo così tecnici, perché era radicalmente contrario a qualsiasi tassazione dei redditi da lavoro dipendente – una tassa diretta sui salari del lavoro non potrà, nel lungo periodo, che causare una riduzione maggiore dell’affitto della terra ed un aumento maggiore del prezzo dei beni manifatturati di quelli che sarebbero seguiti ad un appropriato accertamento della somma pari a quella che avrebbe prodotto questa tassa particolare (incassata) in parte dall’affitto delle terre (cioè, in termini moderni, dalla tassa sui mezzi di produzione di oggi, diversi da quelli di allora, di certo) ed in parte dalla tassazione dei consumi” (Ibidem, V.ii.3).

Anche ripensandoci, ci pare che l’unico “avversario di classe” che avesse la capacità, la lucidità e, tutto sommato, la saggezza di Warren Buffett che sia nato in Italia si sia chiamato Adriano Olivetti. Ma è morto ben quarantotto anni fa…

Sabato, 19. Gennaio 2008
 

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