Il lavoro cambia? Guardiamolo senza lenti

Che ci siano delle trasformazioni è fuori di dubbio, che questo significhi andare verso un destino di autonomia e di libertà del lavoratore non più dipendente è piuttosto azzardato affermarlo. E l'Italia, tra l'altro, è in coda all'Europa sul problema degli infortuni - Secondo di una serie di articoli
                                                                                              (secondo di una serie di articoli: qui il primo)
 
Il lavoro che cambia: un tramonto non è un’alba

 

Veniamo ora al secondo tipo di immaginario, che dipinge il lavoro con i colori cangianti dell’arcobaleno. Questa visione delle cose prefigura (in curiosa simbiosi con la terminologia marxista) che alla condanna della subordinazione e della gerarchia per il lavoro seguirà ineluttabilmente (i più ottimisti ne scorgono già i segni) il regno della libertà e dell’autonomia personale. Questa concezione ottimista assume due forme. La prima si basa sulla convinzione che i giorni del lavoro salariato siano contati e che il lavoro salariato verrà presto sostituito da prestazioni di servizio rese da un lavoratore indipendente. La seconda prefigura, invece, la trasformazione del lavoro salariato: da subordinato esso diventa autonomo; dalla obbligazione dei mezzi si passa alla obbligazione dei risultati. Ciascuno sarà portato a prendere da solo le decisioni più opportune senza aspettare che sia il capo a  dettargliele.

 

Fino a qualche tempo fa, secondo la letteratura sull’organizzazione produttiva, l’impresa doveva essere piccola ma con buoni muscoli. Doveva fare riferimento ad un numero importante di collaboratori scelti per la loro capacità di aiutarla a risolvere i suoi problemi; per renderla più performante, per gestire meglio i clienti. Il modello dominante era la lean production, la “produzione snella” motivata dal fatto che “il lupo magro corre più veloce del cane grasso”. Il massimo da perseguire sembrava, quindi, l’impresa senza fabbriche. In ogni caso, con il processo di esternalizzazione le imprese si sono separate da alcune attività per richiederle a dei fornitori esterni in funzione delle necessità. In questo processo il numero dei dipendenti è stato ridotto. Ora però la teoria “dell’impresa magra” ha subito qualche revisione perché ci si è resi conto che le imprese troppo magre rischiano l’anoressia. E, comunque, soprattutto le imprese di piccole e piccolissime dimensioni (che sono la maggioranza della struttura produttiva italiana), con rare eccezioni, hanno livelli di produttività troppo bassi e quindi non sono quasi mai in grado di competere sui mercati globali. Si riducono perciò al ruolo di sub-fornitore per una sola impresa di maggiori dimensioni (spesso la stessa nella quale il “nuovo imprenditore” era precedentemente occupato) con tutta la precarietà che questa funzione comporta.

 

Quanto al discorso sul lavoro che perderebbe il suo carattere penoso, essendo i lavoratori sempre meno costretti a guadagnare il pane con il “sudore della fronte”, perché i contenuti delle mansioni richiederebbero meno fatica e nello stesso tempo comporterebbero una valorizzazione, un arricchimento, una maggiore creatività delle prestazioni, bisogna - come sempre - diffidare delle generalizzazioni .

 

Che in una certa misura il lavoro sia soggetto a trasformazioni è sicuro. Che in alcuni casi sia anche più qualificato è più che probabile. Che esso implichi maggiore responsabilità da parte di un certo numero di operatori è anche possibile. Sebbene questo non sia affatto vero per i dipendenti di Mac Donald, per le cassiere dei grandi magazzini, per gli addetti ai call-center, come per la maggioranza dei lavoratori del settore manifatturiero. Il fatto è che la molteplicità delle forme del lavoro autorizza tutte le approssimazioni ed una estrema varietà di interpretazioni.

 

La diversità dell’evoluzione è tale che è sempre possibile praticare quello che potrebbe essere definito “effetto lente di ingrandimento”. Cioè scambiare il particolare per il generale. Il che succede quando si focalizzano i dettagli senza vedere le tendenze d’insieme. Il sistema produttivo è in continua evoluzione. Questo è un fatto incontestabile, che si riflette inevitabilmente sulle caratteristiche e sui contenuti del lavoro. Ma la subordinazione dei rapporti salariali e le stesse relazioni di lavoro cambiano in modo tutto sommato marginale. Molto semplicemente perché la società del lavoro da una parte e le relazioni fondate sull’ineguaglianza dall’altra, rimangono le basi dell’attività produttiva attuale. Come, tutto sommato, lo erano più o meno mezzo secolo fa.

 

Si dice spesso che “le società non si cambiano per decreto”. E certamente vero. Ma è altrettanto  vero che nemmeno il lavoro cambia, semplicemente per compiacere qualche  astrologo.

 

 

Morire di lavoro

 

 

Difficile anche sostenere che il lavoro sia diventato meno penoso rispetto al passato. Se infatti in generale è diminuita la fatica fisica (sostituita dall’impiego delle macchine) è aumentato lo stress, prodotto dai ritmi, dalla ripetitività, dall’attenzione richiesta. Ma anche dalle condizioni di lavoro che, malgrado i progressi fatti, comportano ancora  un prezzo troppo esoso, in termini di diritti umani denegati e comunque non sempre rispettati. Lo confermano, tra l’altro, i dati relativi ai problemi per la salute e sicurezza sul lavoro.

Quando gli incidenti sul lavoro sono circa un milione all’anno ed i morti più di mille, quando ogni sette ore muore un lavoratore, diventa arduo sostenere che il fondamentale diritto di una persona, ossia il diritto alla vita ed alla sicurezza di ciascuno nello svolgimento del proprio lavoro sia adeguatamente garantito. L’Italia ha da tanti anni un primato negativo in questo campo.

 

Negli ultimi tempi qualche progresso è stato fatto. Ma non c’è alcun dubbio che si debba fare di più e meglio. Per la semplice ragione che, malgrado tutto, l’Italia resta il paese europeo “maglia nera” per i morti sul lavoro. Le “morti bianche” sono da noi quasi il doppio della Francia ed il 30 per cento in più della Germania che però ha due terzi di occupati in più rispetto all’Italia. Da noi il lavoro uccide più della criminalità. Le vittime del lavoro sono infatti circa il doppio di quelle della criminalità; 1.170 contro 663 (nel 2007). Constatazione che ha indotto Peacereporter a scrivere al ministro della Difesa: “Soldati per strada? Meglio nei cantieri edili: perché i numeri delle morti bianche sono quelli di una vera guerra. Ed è sul lavoro che si combatte la battaglia per la sicurezza.” O a far dire al Centro studi investimenti sociali (Censis): “Gran parte dell’impegno politico degli ultimi mesi è stato assorbito dall’obiettivo di garantire la sicurezza dei cittadini rispetto al rischio di subire crimini violenti”. Ma i dati “dimostrano una sfasatura tra la provenienza dei pericoli reali ed gli interventi concreti per fronteggiarli”.

 

Malgrado in dieci anni (dal 1995 al 2005) i morti sul lavoro siano diminuiti, il dato italiano (-25,5 per cento) risulta peggiore rispetto alla media di diminuzione europea (-29,4 per cento) e sensibilmente più basso di quelli di: Danimarca (-48,8); Austria (-48,3); Germania (-45,9); Svezia (-36,7) e persino Spagna (-33,6). Va un po’ meglio il raffronto europeo per gli incidenti non mortali, ma si deve tenere conto dell’elevato numero di infortuni non denunciati nell’ambito del lavoro nero. L’Inail stima infatti che siano non meno di 200 mila all’anno.

 

Si deve quindi fare di più e meglio per mettere l’Italia al passo con il resto dell’Europa. Anche per la buona ragione che la tutela del lavoro e della salute, contribuendo al rendimento ed al benessere dei lavoratori, migliora la produttività e comporta risparmi significativi per l’intera economia. Basti pensare che in Italia si stima che gli incidenti sul lavoro abbiano un costo che arriva al 3 per cento del Pil. Anche se deve essere assolutamente chiaro che 3,4 morti e 2.563 lavoratori infortunati al giorno non possono essere ridotti solamente ad un problema economico. Proprio per questo si deve prestare più attenzione ai settori ed alle attività maggiormente esposte al rischio ed alle fasce più deboli del mercato del lavoro. Non a caso l’incidenza degli infortuni è particolarmente  elevata tra gli immigrati, i lavoratori temporanei, i lavoratori scarsamente qualificati. A questo fine le ispezioni sui posti di lavoro costituiscono un fattore essenziale. Andrebbe perciò presa in seria considerazione la raccomandazione del Parlamento europeo che invita gli stati nazionali a fornire agli ispettorati personale e mezzi finanziari adeguati, nella misura necessaria per disporre di un ispettore del lavoro almeno ogni 10 mila occupati. Ma anche a migliorare la qualità del loro lavoro dotandoli di una appropriata formazione multidisciplinare. Naturalmente dovrebbe pure essere impedito agli ispettori di assolvere due parti in commedia. Cioè di esercitare contemporaneamente funzioni di vigilanza verso le aziende e nello stesso tempo assolvere il compito di “consulenti” pagati dalle stesse aziende.

 

Importanza fondamentale riveste poi la “prevenzione”. A questo riguardo il compito e la responsabilità dell’impresa risultano decisivi. Perché le attività di prevenzione non possono che essere svolte prevalentemente all’interno dell’azienda. Oltre tutto il monitoraggio della salute non può essere disgiunto dalla concreta attività di prevenzione. Così come la legislazione relativa alla salute e la sicurezza sul posto di lavoro andrebbe sistematicamente adattata all’evoluzione tecnologica.

 

Infine, per quanto riguarda la violazione delle norme di sicurezza e la repressione dei reati sarebbe opportuno prendere in considerazione le esperienze dei paesi europei. Che hanno conseguito risultati migliori dell’Italia. Nel campo penale, ad esempio, in Francia è da tempo attivo un pool di magistrati che si occupa dei reati gravi relativi alla salute ed alla sicurezza ed in Spagna è stato istituito un procuratore speciale per gli incidenti sul lavoro.  Purtroppo in Italia la mancanza di strutture giudiziarie ad hoc costringe i magistrati incaricati di seguire anche le tragedie più gravi a farsi una esperienza partendo praticamente da zero. Il che, sommato alle croniche disfunzioni della giustizia, fa sì che la maggior parte dei reati relativi al mancato rispetto delle norme sulla sicurezza del lavoro restino “sostanzialmente impuniti”. Così che, troppo spesso, per le vittime del lavoro ottenere giustizia si riduce ad una timida e non di rado disattesa speranza.

Martedì, 10. Marzo 2009
 

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