Il lavoro è cambiato, bisogna cambiare la difesa

E’ finito il sistema della produzione industriale standardizzata che aveva dato forma a un modello di società e ai suoi valori. Di quella si occupava il diritto del lavoro, che dunque non potrà tornare indietro. Il nuovo statuto giuridico si dovrà trovare esplorando la nuova forma della società

Diritto ed economia condividono il destino delle scienze umane – nemmeno quelle cosiddette “dure”, come la chimica e la fisica, se ne sottraggono completamente  –  e ciò che hanno in comune ne fa delle scienze sociali, nel senso che tanto il discorso giuridico quanto (come riteneva Adam Smith) il pensiero economico non possiedono l’autoreferenzialità dei costrutti ontologici. Entrambi influenzabili dalle dinamiche della società, sono sottoposti ai medesimi condizionamenti. In proposito, resta illuminante un brano del primo libro del Capitale: “ciò che distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è che soltanto l’architetto costruisce la celletta nella sua testa prima di costruirla con la cera”. Come dire: il risultato del processo creativo preesiste nella mente dell’autore e dunque corrisponde all’obiettivo che lui voleva e ha deciso in anticipo. Pertanto, i giuristi non hanno motivo di rivendicare per la loro scienza una dose di autonomia superiore a quella che gli economisti possono ragionevolmente pretendere per la propria. Questa, perlomeno, è la conclusione cui sono giunto partecipando al convegno della rivista Lavoro e diritto – “Autonomia e subordinazione del diritto del lavoro” (Bologna, 17-18 novembre 2016) – durante il quale ho potuto ascoltare accenti somiglianti a quelli rinvenibili, in epoche e campi diversi, nella storia delle idee ogniqualvolta le più sconvolgenti hanno minacciato l’ordine costituito con i suoi primati e le sue certezze. (1)

Si sa come la pensassero i tolemaici quando cominciò a spargersi la voce che il pianeta terrestre non aveva mai avuto il privilegio di collocarsi al centro dell’universo. Pensavano che i copernicani fossero degli eretici, dei blasfemi, degli impostori. Esattamente come, alcuni secoli più tardi, i creazionisti pensavano che fossero i darwiniani secondo i quali l’uomo si sarebbe evoluto da progenitori comuni ad altre specie viventi attraverso processi di selezione naturale. Non diversamente, al giorno d’oggi sono incompresi quanti (come Domenico De Masi) arrivano ad ipotizzare, sulla base di un’infinità di dati empirici, che il passaggio al post-industriale segna una svolta di cui non riescono a calcolare e nemmeno a comprendere le conseguenze perché, per adesso, si trovano nell’impossibilità di conoscerle analiticamente nella loro interezza. A loro avviso, la svolta è epocale, perché rischia di far sparire la posizione privilegiata attribuita al lavoro nella scala dei valori dalla cultura dominante, dalla religione, dallo stesso senso comune e, alla fine, dal costituzionalismo democratico del secondo dopoguerra. Infatti, essendo cambiato il modello prevalente di organizzare la produzione che, storicamente, ha sempre avuto la proprietà di condizionare stili di vita e di pensiero, sta cambiando anche il modo di lavorare.
Se Thomas Carlyle nel 1829 poteva osservare con tono allarmato che “la nostra età è quella della macchina”, oggi non è certo esagerato affermare che, coi suoi incessanti progressi e l’uso che se ne fa, la tecnologia sta cambiando tutto: il modo di imparare, interagire, comunicare. Persino di giocare. Insomma, riempie di sé il mondo reale: anche gli stadi ove si gioca a calcio. Pertanto, può spaventare, ma non stupire che l’innovazione tecnologica tolga al lavoro la centralità che aveva potuto raggiungere nella prima modernità con la scoperta e, in seguito, col crescere della fiducia che fosse l’unico o il principale strumento di emancipazione della gente normale e la piena occupazione un sogno in procinto di realizzarsi.

“L’industrialismo”, scriveva Herbert Spencer nello scorcio finale Ottocento, “non deve essere confuso con l’industriosità”. Mentre questa designa situazioni caratterizzate soltanto dalla diligente erogazione di ingenti quantità di lavoro e dalla disponibilità diffusa ad attivarsi e “arrangiarsi” per guadagnarsi da vivere, quello designa una situazione che vede l’industria trasformarsi in uno dei grandi laboratori della socializzazione di cui tutti hanno finito per enfatizzare l’ubiquità, considerandola come un luogo non solo fisico, ma anche mentale. Infatti, prolungando il processo di socializzazione avviato in famiglia, in caserma o in parrocchia, il sistema della produzione industriale standardizzata non produce soltanto vetturette e frigoriferi. Prefigura una forma di società e predetermina un totalizzante codice di riferimento che i comuni mortali possono soltanto interiorizzare. “Questo era il Novecento”, ha potuto scrivere Aris Accornero: “tutti ci alzavamo alla medesima ora, tutti uniformati negli orari giornalieri, settimanali, annui” e tutti eravamo stati educati a pensare che “la vita lavorativa si svolgesse su tutto l’orario giornaliero per tutti i giorni feriali della settimana in tutti i mesi lavorativi dell’anno, fino alla pensione”.  

Sempre più lontana dai suoi archetipi, l’industria 4.0 non è equiparabile ai grandi datori di lavoro della post-modernità: lo Stato, sia pure con quel che resta dei suoi apparati del passato; i servizi, specialmente quelli a basso valore aggiunto e l’economia sommersa che sconfina spesso nell’adiacente criminalità organizzata. Chiusa la fase della sua massificazione, il lavoro è andato in frantumi, perdendo la sua unità spazio-temporale e, con essa, la sua identità concettuale; poi, scoprendosi all’improvviso politicamente muto e sotto-rappresentato, è ridiventato una merce che, a sua volta, è ridiventata un bene che si può de-valorizzare.

“Bisogna allora dire addio al diritto del lavoro del Novecento?”, mi ha chiesto di recente Giovanni Cazzetta nel corso dell’intervista che ho rilasciato alla rivista Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno da lui diretta. (2) “Tutto lascia presagire questo finale”, ho risposto, argomentando che il “dove” del diritto che dal lavoro ha preso il nome non è più quello dell’epoca in cui traghettò il popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose dalla condizione di sudditi a quella di cittadini. Non può esserlo perché la globalizzazione dell’economia ha de-territorializzato il sistema delle sue fonti di produzione, cancellando letteralmente i confini degli Stati-nazione ciascuno dei quali è destinato a cedere quote crescenti di sovranità democratica alla business community erede della societas mercatoria  medievale. Né più realistica è la proposta di ricostruire il diritto del lavoro com’era. Due sono le componenti fondamentali del diritto del lavoro del Novecento. In primo luogo, esso non si sarebbe formato con le caratteristiche che abbiamo conosciuto (anzitutto, uniformità e inderogabilità) se il modo di produrre nella fabbrica fordista non si fosse imposto anche come un modello di organizzazione della società nel suo complesso. In secondo luogo, il diritto del lavoro non avrebbe assunto la forma vincente che a un certo punto ha potuto esibire di se medesimo, se la Russia sovietica non avesse intimorito l’Occidente capitalistico, persuadendone i governanti a essere tolleranti nei confronti delle forze politiche e dei sindacati che si battevano per fare di quello del lavoro un diritto a misura d’uomo. Pertanto, sia il passaggio alla società post-industriale che l’implosione dell’Urss hanno spinto moltitudini di comuni mortali ad incamminarsi dentro un gigantesco processo di mutazione antropologico-culturale il cui riflesso più evidente è la pratica riduzione della distinzione tra destra e sinistra a categorie da codice della strada. Infine, è appena il caso di menzionare che nemmeno il capitalismo è quello dell’età dell’industrializzazione. Si è finanziarizzato e, nel passare dall’economia di scala all’economia di scopo in un mercato senza frontiere, ha sostituito il lavoro culturalmente e politicamente egemone che la società industriale declinava al singolare con una galassia di “lavoretti”. Minuscoli. Eterogenei. Precari. Sotto-pagati. Come dire: la strategia ispirata al principio di ricostruire il diritto del lavoro com’era dà per scontato ciò che non lo è affatto. Presuppone che tutti i discorsi (quello giuridico incluso) presto o tardi ripartiranno da dove si sono interrotti, come se il virtuoso rapporto d’interazione tra economia e democrazia che si protrasse durante i gloriosi trent’anni –“il lungo momento socialdemocratico dell’Europa” di cui parlava Tony Judt – fosse caduto in uno stato di latenza provvisoria, ma sia destinato a rianimarsi. Presuppone che, col cessare di uno sciopero degli investimenti privo di precedenti quanto a durata e consistenza quantitativa, l’economia reale riacquisterà l’importanza che aveva, come se fosse secondario il fatto che l’innovazione tecnologica crea meno posti di lavoro di quelli che divora. Presuppone che il volume di produzione aumenterà, mentre nel medio-lungo periodo la prospettiva è, se non la decrescita, la crescita-zero o una crescita rallentata a causa delle compatibilità ambientali e della finitezza delle risorse naturali. Presuppone che il lavoro occasionale, usa-e-getta, a chiamata sia un fenomeno transitorio e l’espansione dell’Uber economy o dell’economia voucherizzata possa essere arrestata con divieti legali, per eticamente doverosi che possano apparire.

Per questo, ho immaginato che il percorso che al diritto del lavoro resta da compiere sia traducibile graficamente in un contro-movimento. Se l’inizio fu segnato dalla transizione dallo status al contratto, il segmento conclusivo consisterà in un ritorno allo status; uno status che, non potendo più coincidere con quello occupazionale o professionale, nemmeno ne dipende. E’ lo status di cittadinanza riconosciuto e protetto da una democrazia costituzionale. Il che significa, come presagiva Gaetano Vardaro in un suo densissimo saggio del 1986, “che il diritto del lavoro dovrà avventurarsi oltre le colonne d’Ercole fin qui assegnategli, confrontandosi con le attività lavorative di tipo squisitamente imprenditoriale, senza lasciarsi intimorire da tale qualificazione fin qui estranea alla sua prospettiva”. Dovrà misurarsi con la divaricante alternativa di fondo che postula una scelta tra il preesistente welfare, disegnato sul prototipo del lavoro egemone nelle società industriali, e un welfare orientato a proteggere lo status di cittadinanza indipendentemente dallo svolgimento del lavoro “regolare” la nozione del quale è il retaggio culturale più interiorizzato e resistente dell’età industriale. Dovrà insomma trasformarsi in diritto “per il” lavoro inteso come il diritto della cittadinanza industriosa nella stessa misura in cui il diritto “del” lavoro è stato il diritto della cittadinanza cha venne chiamata industriale perché odorava di petrolio, sudore, vapore di macchine.

Come dire che, adesso, vista la crescente scarsità di lavoro nella forma che rese possibile farne la fonte primaria di legittimazione dello status riconosciuto e protetto dalla costituzioni contemporanee, ho creduto che fosse arrivato il momento di rimodellarne lo statuto giuridico su quel che sta raggomitolato nel sottosuolo dell’età post-industriale e gli scavi porteranno in superficie.  Probabilmente, i materiali finora estratti non sono pregiati. Questa, però, non è una buona ragione per desistere. Anzi, se non avremo il testardo ottimismo del cercatore d’oro che setacciava l’acqua dei torrenti dell’Alaska per trovare nella fanghiglia una scheggia di metallo giallo, ci attarderemo per chissà quanto tempo a rimpiangere la cittadinanza industriale, senza sapere quel che la cittadinanza industriosa può dare.

Per la verità, finora la proposta dev’essere stata fraintesa, per mia colpa. Diversamente, durante il convegno di LD non mi avrebbero dato del catastrofista. Nichilista. Rinunciatario. Evidentemente, la censura proviene da chi pensa che l’inevitabile non succede mai: l’imprevisto sempre. E l’imprevisto sarebbe il riappropriarsi, da parte della politica, della “dimensione alta” che attribuisce al lavoro un insieme di valori che nessuna esigenza economica può mettere in discussione. Come sapeva fare la politica, direbbe Ulrich Beck, “con la P maiuscola”; la stessa che, iper-valorizzando il lavoro, gli consentì di avere la L maiuscola. Non so se questa sia una speranza che si vergogna di morire. So soltanto che, per quanto la Signora Storia sia una grande improvvisatrice, difficilmente essa ha la capacità di far rivivere emozioni custodite nell’archivio della nostra memoria. Con maggiore frequenza, ha la capacità di dimostrare che la speranza è un sogno fatto da svegli, perché non risulta in possesso della valigetta del piccolo chimico che trasforma il piombo in oro. In ogni caso, se succederà davvero, l’imprevisto finirebbe per confermare ciò che dicevo in apertura: il diritto – incluso quello del lavoro – non esiste senza il sostegno di punti di vista esterni.


Note
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(1) Gli Atti del convegno, promosso per celebrare il 30° compleanno della rivista trimestrale edita dal Mulino, sono raccolti nel quarto fascicolo del 2016.

(2)Il testo dell’intervista fa parte del secondo dei due tomi di cui si compone il volume (46° della serie) pubblicato nel 2017.

Venerdì, 15. Settembre 2017
 

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