Nelle ultime settimane, unimportante casa editrice di prodotti di consumo nel mondo degli operatori giuridici ha mandato in libreria un esemplare che non ha precedenti del suo genere, né nei suoi cataloghi né in quelli dei suoi concorrenti. In effetti, Il diritto del lavoro nellItalia repubblicana (a cura di Pietro Ichino, Milano, Giuffrè, 2008, euro 45) costituisce un ambizioso tentativo di ricostruire origini, significato ed esiti di un incontro quello tra lavoro e diritto dello Stato-nazione che ha segnato tutte le democrazie contemporanee. Da noi, nel secondo dopoguerra lincontro ha avuto i suoi venerati numi tutelari e gli autori (oltre ad Ichino, Raffaele De Luca Tamajo, Giuseppe Ferraro e Riccardo Del Punta) hanno ritenuto di doverli collocare nel Pantheon del diritto del lavoro dellera repubblicana ove sono annoverati tra i padri fondatori.
Coscienziosamente intervistati da Pietro Ichino, ciascuno di essi (Luigi Mengoni, Federico Mancini, Gino Giugni, Giuseppe Pera, Renato Scognamiglio) ha sunteggiato lapporto dato allo sviluppo della materia e definito la cifra stilistica della sua mediazione per favorire lincontro tra lavoro e diritto. Le testimonianze che erano già state pubblicate tra il 1992 e il 2006 su di una rivista giuridica sono adesso disponibili nella seconda parte del volume e dunque hanno guadagnato enormemente quanto ad accessibilità; della qual cosa gli storici di storia del diritto non possono non rallegrarsi trattandosi di una documentazione che parla soprattutto a loro.
Resta però da chiarire quale sia leffettivo lascito culturale di queste storie ricordate di protagonisti e come esso abbia influenzato la storia degli storici. Si direbbe che i nostri padri ci avessero preparato a dare tutte le risposte, senza presagire che il tempo non si sarebbe comportato da galantuomo e, allimprovviso, avrebbe cambiato tutte le domande. Chissà se è proprio questo il messaggio che gli autori del diritto del lavoro nellItalia repubblicana hanno voluto trasmetterci. Ma è certo che, diversamente, si stenterebbe a capire il disegno di politica del diritto che avevano in mente. In effetti, ha ancora senso disporre di un Pantheon se i devoti scarseggiano? La sensazione che da qualche anno mi accompagna, scrisse nel 1997 Giuseppe Pera, ossia uno dei padri putativi del diritto del lavoro dellItalia repubblicana, è quella di essere come ubriaco e di stentare a mantenermi in piedi.
Soltanto in apparenza gli autori si sono distribuiti equamente i compiti. Vero è che se li sono ripartiti per blocchi temporali di media grandezza circa quindici/ventanni a testa e che i moduli narrativi si assomigliano, assumendo ciascuno la forma di un affresco di sintesi bibliografica, non senza qualche (inutile) venatura di folklore accademico. Nondimeno, pur riaffermando con toni di convinta adesione il primato dei padri fondatori, nessuno (né Ichino né De Luca Tamajo né Ferraro) percepisce la necessità di spiegarne estesamente le ragioni e tutti convengono di astenersi da un riesame critico reso superfluo, nelleconomia del volume, dal contenuto delle interviste che vi sono riportate.
Ma ciò significa che prima o poi i nodi sarebbero arrivati al pettine, tuttin una volta, nel senso che tutti gli interrogativi dissacranti e rinviati si sono concentrati e di fatto scaricati sullultimo dei moduli di cui si compone il saggio sulla cultura giuridica del lavoro inizialmente pensato in funzione ancillare alle interviste. A farne le spese è toccato perciò a Riccardo Del Punta. Il più giovane del team, ma per fortuna sua e dei lettori non il più disarmato. E toccato a lui confrontarsi con laffievolirsi degli indizi di paternità sparsi nei dibattiti sul futuro del diritto del lavoro e anzi con linfittirsi di discontinuità, fratture, dietro-front inconciliabili, anche a causa di un crescente deficit di autorevolezza, con le memorie custodite nel Pantheon.
Non cè dubbio infatti che il diritto del lavoro ereditato dal 900 stia attraversando una fase di ripensamento per effetto del rovesciamento della prospettiva in cui viene risituato non solo dalle forze politiche, ma anche da intellettuali darea giuridica.
Quando si dà per scontato, come un dato ovvio, di senso comune, che
Non è che ricerca scientifica e partisanship abbiano smesso di convivere nel mestiere dei giuristi, costituzionalisti o del lavoro che siano. Infatti, sebbene il diritto del lavoro abbia una dimensione etico-culturale che ne fa un insieme di principi ordinanti della collettività nazionale, né ladesione né lavversione ai medesimi fanno parte dello statuto epistemologico del giurista. Lo statuto cioè non esige lequidistanza. Quindi, gioca lealmente il giurista che, sia pure non senza qualche cedimento al gusto del sensazionalismo, ha confessato che, nellepoca della (sua) astinenza dalla politica, lo studio del diritto del lavoro ha funzionato come può funzionare il metadone per un tossico-dipendente. Ma, in precedenza, col candore protervo del fanciullo della fiaba del re cui fanno credere di indossare un magnifico vestito e che invece è nudo, Federico Mancini aveva affermato: il giurista fa politica, i suoi tempi sono quelli della politica; e, riflettendo sulla sua biografia, non senza un filo di divertita auto-ironia (ma con lorgoglio della sua diversità) Gino Giugni era giunto alla conclusione che nessuno, neppure lui, saprà mai se Giugni è un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto. Ed è stato Federico Caffè ad ammonire: gli ideali costituiscono una componente ineliminabile della personalità dello studioso e il suo necessario sforzo di obiettività consiste nel dichiararli in modo esplicito, anziché introdurli in modo subdolo o reprimerli.
Insomma, è vietato barare nascondendosi dietro apriorismi del tipo: desiderio di conoscenza e partisanship non possono coesistere e la loro coesistenza è dostacolo alleccellenza di unelaborazione culturale, o allalto profilo di unoperazione concettuale, ossia alla credibilità scientifica. In realtà, viene il sospetto che si è cominciato presto ad abusare di questi alibi. Non a caso i giuristi del dopo-Liberazione ne hanno tramandato una rappresentazione come di uninnocente vacatio legis ininfluente sul diritto del lavoro repubblicano. Tuttal contrario, è proprio allora che sincrinò il sillogismo caro allantifascismo militante il fascismo è strettamente legato al passato, rompere col fascismo significa rompere col passato e, nella misura in cui venne sdoganata lidea che non tutto quello che il fascismo aveva fatto in materia sindacale deve essere rigettato, si posero le premesse al prodursi di effetti di lungo periodo. Come dire: il dopo-Liberazione che doveva segnare linizio della fine del diritto sindacale e del lavoro partorito dal corporativismo fascista segnerà invece la fine di un nuovo inizio.
Daltronde, il clima nel quale si avviò la transizione al diritto sindacale e del lavoro post-corporativo è il medesimo in cui decolla la surreale vicenda della de-fascistizzazione dei codici. Tanto svogliata quanto convulsa, essa si concluse con laccomodante saggezza che un colto giurista amante della buona prosa espresse nel 1946 sulle colonne del periodico specializzato più letto dagli operatori giuridici del nostro paese. Nella vita di un popolo, scrisse Giuseppe Ferri sul Foro Italiano, il presente è strettamente legato al passato e lavvenire al presente; la natura non consente tagli netti tra le diverse epoche e le diverse generazioni. In definitiva, un popolo, entro certi limiti, non cessa mai di rassomigliare a se stesso. Ciononostante, poiché di una vittima illustre cera bisogno, il ruolo sacrificale toccò alla Carta del lavoro. Era stata legificata (nel 1941) in guisa di proemio del codice civile come epitome dei principi generali dellordinamento giuridico dello Stato e (nel 1944) tornò ad assumere la rilevanza propagandistica del Libro bianco di un governo ormai disarcionato che si era assegnato il compito di celebrare il XX come il secolo della potenza e della gloria del lavoro. Così, finì per prevalere lorientamento per cui, per defascistizzare il codice, era sufficiente togliere qualche parola di troppo, e i conti col passato restarono aperti.
Viceversa, in sintonia con la nozione di scienza giuridica, che è eminentemente dialogica, la tecnica giuridica è essenzialmente una tecnica argomentativa e gli argomenti che il giurista sviluppa sono e restano argomenti: come tali, confutabili tanto de lege lata quanto, e soprattutto, de lege ferenda. Si dica allora la verità, a proposito della prospettiva in cui si sta riposizionando lo star-system accademico dei giuristi scrittori di diritto del lavoro nellItalia repubblicana, e la verità è che il segno della partisanship è mutato: loriginario orizzonte culturale di riferimento non è più condiviso e il diritto quello del lavoro incluso non è separabile dal contesto di cui è, ad un tempo, parte dipendente e costitutiva.
(Questo articolo è stato pubblicato, con alcuni tagli, su "La Repubblica" del 28.3.2008)