Il Garante dei "non liberi": "Soluzioni, non proclami"

Parla Mauro Palma, che si occupa non solo dei diritti dei detenuti, ma anche di tutti quelli che per le più diverse ragioni subiscono questa condizione, dai migranti ai malati psichici. Nella sua relazione annuale al Parlamento le criticità di queste situazioni

Ci conosciamo da troppo tempo perché non appaiano fuori luogo gli apprezzamenti che ti voglio esprimere per l’intelligenza, la razionalità e l’empatia che hai saputo mettere nella relazione al Parlamento che hai prodotto questo anno. Per prima cosa allora vorrei che tu affrontassi il tema, centrale al rapporto di questo anno, dei Diritti di tutti coloro che a vario titolo sono privati delle libertà personali, non solo dei detenuti o dei ristretti per cause di giustizia.

Sembra strano trovare un filo comune tra persone che hanno soggettivamente situazioni molto diverse: chi è in esecuzione di un provvedimento penale, chi è ristretto a seguito di fermo o arresto, chi lo è perché migrante irregolarmente presente nel territorio e, non da ultimi, coloro che lo sono in base a vicissitudini connesse alla propria salute, fisica o psichica. Un insieme di persone molto diverse rispetto a ragioni e attese. Eppure tenuto insieme da quell’intrinseca vulnerabilità sul piano dei diritti individuali che la concretezza della mancata libertà di movimento e di autodeterminazione comporta inesorabilmente. Proprio per questo unite dalla necessità di vedere rafforzati gli strumenti di tutela, soprattutto relativamente a quei diritti – e ai simmetrici doveri dello Stato – che attengono alla persona in quanto tale, qualsiasi sia il motivo che possa aver determinato la sua situazione in essere.

Questo è quanto richiede l’impianto complessivo della nostra Costituzione e gli specifici articoli 2, 3 e 13, prima ancora di parlare di altri diritti che da essi discendono e, nel caso della detenzione penale, prima ancora di considerare lo stesso principio della sua finalità, che l’articolo 27 enuncia.

È il nucleo costituzionale repubblicano stesso a dirci che ognuno ha innanzitutto diritto al riconoscimento e alla tutela della propria dignità e della propria integrità fisica e psichica. Da qui, il compito di chi ha come mandato quello di vigilare affinché quanto affermato sia reso materia viva e non mera enunciazione: un compito che si estende anche alle forme ‘improprie’ di privazione della libertà, quando cioè questa si realizza de facto, anche se manca un provvedimento che la qualifichi de iure come tale.

Lo scorso anno il pubblico che ha ascoltato la tua relazione  era curioso, attento a cogliere le reazioni dei nuovi decisori politici, del resto questo senso di attesa si sentiva anche nelle tue parole, quest’anno ci hai costretto a riflettere sulla detenzione anche dal punto di vista delle paure  e delle percezioni che agitano la gente comune, quale è la ragione che ti ha portato a parlare di soggettività, delle richieste e delle attese dei detenuti, ma anche dei cittadini in genere?

Spesso mi è stato chiesto nell’ultimo periodo quali cause si intravedano dietro l’aumento – inequivocabile – del numero di tentati suicidi e di quelli effettivamente compiuti. Molto spesso si cercano cause oggettive, quali il sovraffollamento o le condizioni materiali di detenzione. Non credo che lo sguardo debba volgersi a questi aspetti, bensì alla percezione complessiva che chi è privato della libertà ha avuto rispetto alla collettività sociale esterna e a un mondo politico in affannosa ricerca di consenso da parte di essa. Se nello scorso anno, come è giustamente riportato nella domanda, si registrava un’attesa, variegata come lo sono ragioni e mondi che l’esprimevano, quest’anno è scattata la sensazione di totale ininfluenza rispetto a un mondo che fuori scorreva. La percezione che ho avuto ‘navigando’ all’interno dei mondi chiusi dove la privazione della libertà si concretizza è stata quella di sentirsi ormai non interessanti, neppure per lo scontro ideologico e politico – che intanto si è articolato su altri temi.

Per questo ho voluto ribadire che una parola che riassume il sentimento interno, in carcere, nei centri per migranti, negli stessi reparti dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, nelle strutture per disabili è soggettività. Una parola che esprime una richiesta: ovunque la richiesta è di prendere atto dell’esistenza di vite al di là dei muri che non sono mondi a sé e che devono essere riconosciuti come parti del complessivo corpo sociale. E che sono abitati da soggetti, appunto, e non da numeri buoni per le statistiche.

La mancanza di soggettività riconosciuta a chi in tali luoghi è ospitato determina sulla sensazione di ininfluenza che può portare al desiderio di uscire definitivamente dal teatro della vita; questo sempre detto con cautela per il rispetto che si  deve avere per decisioni drammatiche individuali che mai possono essere analizzate e interpretate compiutamente da altri.

Potresti indicare quale è, secondo te, il punto in cui la nostra cultura del diritto rischia di perdere senso e valore di fronte alla complessità dei processi migratori?

Anche qui entra in gioco la soggettività: dei migranti non conosciamo quasi mai i nomi, ma soltanto il loro numero. Numeri drammatici, se soltanto pensiamo che in media nel Mediterraneo nell’ultimo anno sono morte o disperse circa sei persone al giorno; se pensiamo che soltanto il 43 percento (ben meno della metà) delle persone che sono state private della libertà in funzione del rimpatrio sono state poi effettivamente rimpatriate, così dando alla loro detenzione il sinistro significato di mero strumento per convincere gli altri a non partire, e che delle donne soltanto il 13 percento, se pensiamo che un bel numero di adolescenti giunti nel nostro Paese e non in grado di indicare mese e giorno della loro nascita, ma soltanto l’anno, sono stati registrati come nati il 1°gennaio e che, quindi, presumibilmente, alcuni rimandati indietro erano ancora minori perché avrebbero compiuto il diciottesimo anno nei mesi successivi.

Questi numeri, frettolosamente qui detti e compiutamente riportati nella voluminosa Relazione presentata al Parlamento – con le sue quasi 380 pagine – indicano già le criticità che il nostro sistema ordinamentale incontra nel confrontarsi con un tema complesso ed emotivamente rappresentato fino a farlo diventare quasi l’asse del consenso o dissenso politico; un tema che richiede soluzioni articolate e non proclami o decisioni unilaterali. Richiede la necessità di non coniugarlo artificialmente con la questione della sicurezza perché altrimenti alimenta quel retro pensiero che fa declinare la propria insicurezza sociale in termini di lotta a potenziali aggressori della propria sicurezza individuale.

Sia chiaro: lo Stato deve tutelare i propri cittadini e, quindi, deve conoscere l’identità di chi giunge entro i propri confini: ma, l’identità non si esaurisce con l’identificazione perché richiede anche attenzione ai diversi progetti individuali di migrazione, alla volontà di andare in altri Paesi o di rimanere, di ricongiungersi a parenti, non può esaurirsi nell’identificazione – che appunto non è sinonimo di identità.

Una osservazione mi viene sempre da fare quando si affronta questo tema: non è paradossale che in un mondo ‘globale’, dove ognuno di noi è reso ‘ubiquo’ dalle nuove tecnologie e dove i limiti di spazio sembrano svanire appena ci si metta davanti a una tastiera, si riscopra un ‘localismo’ fatto di muri, d’inaccessibilità, di reti che ormai si snodano in Europa?

Infine tu hai usato tre concetti che, riferiti soprattutto alla privazione di libertà in ambito sanitario, percorrono tutto il tuo rapporto. Addizione versus Sottrazione, prevenzione versus sofferenza e bilanciamento versus applicazione burocratica delle norme, mi è sembrato che qui tu abbia cercato di lanciare, anche se sommessamente, un messaggio alla politica dell’oggi. Ti posso chiedere di esplicitarlo?

Il mio compito è sempre quello di non entrare nel dibattito politico, ma di cercare di dare un indirizzo che orienti verso una maggiore tutela dei diritti. Questo indirizzo non nasce da posizioni teoriche di un campo o di un altro – e se e quando rischia di essere tale vuol dire che sto commettendo un errore – bensì da quanto osservato, vigilando. Dalla lettura di ciò che concretamente il mio Ufficio ha registrato: cento visite a strutture nel corso del 2018 e relativi rapporti redatti con raccomandazioni alle amministrazioni e ai decisori politico-legislativi. Piero Calamandrei nel 1949 mise “Bisogna aver visto” come titolo a un numero della Rivista “il Ponte” che trattava di carcere e necessarie riforme. Ecco, il Garante nazionale deve avere occhi per vedere e solo dopo aver visto, anche in base agli ampi poteri intrusivi che ha, ha la responsabilità e il dovere di formulare raccomandazioni e di seguire in un dialogo cooperativo le conseguenti risposte delle diverse autorità Questo è il suo modo di inviare messaggi alla politica, sempre partendo dal fatto che si è parti di uno stesso sistema ordinamentale, seppure con ruoli doverosamente distinti e diversi.

La Relazione al Parlamento è parte di questo dialogo. Forse il messaggio implicitamente ‘politico’ che ho inviato è di non aver paura della complessità; al contrario di vederla come valore nel processo di comprensione dei fatti, delle situazioni, dei processi di mutamento. Purtroppo si è prodotto negli ultimi anni – forse qualche decennio – un’idea di semplificazione che vede nella complessità un disvalore, quasi un modo per non leggere soluzioni che invece sarebbero a portata di mano. Non è così: la complessità riconosciuta e come tale considerata dà all’azione politica la capacità di snodare le difficoltà, comprendendo e crescendo: non va confusa con la complicazione.

In tale riconoscimento c’è un pezzo importante dell’agire politico, quando questo non è inteso come inseguimento di un supposto senso comune, ma come strumento per l’evoluzione del senso comune stesso.

Dal sito education 2.0 

Domenica, 14. Aprile 2019
 

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