Il fuorilegge di Pomigliano

La vicenda della Fiat di Pomigliano ha assunto un enorme rilievo per il futuro del mondo del lavoro e dell’industria in Italia. E&L ha rivolto tre domande sugli aspetti tecnico-giuridici di quanto sta avvenendo a Massimo Roccella, docente di diritto del lavoro all’università di Torino

L’A.d. della Fiat e della Chrysler, Sergio Marchionne, ha varato la costituzione di una New company a cui sarebbe trasferito lo stabilimento di Pomigliano allo scopo di licenziarne i 5000 lavoratori e, eventualmente, riassumerli sulla base dell’accettazione di un nuovo contratto. E’ un’operazione compatibile dalle vigenti leggi sul lavoro?

 

“Al momento i particolari tecnici dell’operazione immaginata dalla Fiat vengono descritti sulla stampa quotidiana in termini troppo vaghi ed approssimativi per poter dare risposte compiute. Si può solo procedere per tentativi, provando a fissare alcuni punti fermi.

 

a.     Non è revocabile in discussione la legittimità della costituzione di una Newco, né l’intenzione di quest’ultima di proseguire le attività produttive sinora facenti capo allo stabilimento Fiat Giambattista Vico di Pomigliano d’Arco.

 

b.     Quello che si è appena evocato è un mero fatto, che va sottoposto a qualificazione giuridica. Se l’attività di produzione d’automobili della Newco dovesse svolgersi, come tutto lascia credere (diversamente che fine farebbero stabilimento, macchinari ed attrezzature di Pomigliano?), utilizzando i mezzi materiali costituiti dall’impianto Giambattista Vico, quel mero fatto andrebbe qualificato come trasferimento d’impresa (meglio: trasferimento di ramo d’impresa, dal momento che lo stabilimento di Pomigliano è solo parte di un’impresa).

 

 

c.     La qualificazione in termini di trasferimento di ramo d’impresa è indipendente dallo strumento tecnico-giuridico attraverso il quale si produca l’effetto di trasferire la titolarità degli impianti dello stabilimento di Pomigliano: sul punto v’è una sterminata giurisprudenza della Corte di giustizia (si ricordi che la disciplina italiana in materia di trasferimento d’impresa è di derivazione comunitaria), che dovrebbe scoraggiare chiunque dal ritenere utilmente praticabili trucchetti ed escamotage di varia natura.

 

d.     Trattandosi di trasferimento di ramo d’impresa, va da sé che tutti i lavoratori dovrebbero (non essere riassunti, ma) continuare ex lege il proprio rapporto di lavoro con il cessionario, conservando tutti i diritti di cui godevano nel rapporto di lavoro con il cedente. Il cessionario (la newco nel caso nostro), in particolare, sarebbe tenuto a rispettare i contratti collettivi, nazionale ed aziendale, in essere presso il cedente, sino alla loro scadenza, salvo sostituirli con altri contratti collettivi, con la decisiva precisazione che ‹‹l’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello›› (art. 2112, comma 3°, cod. civ.).

 

 

e.     E’ impensabile (e comunque illegittimo) che la newco scelga fior da fiore, procedendo ad individuare singolarmente, in epoca precedente al trasferimento d’impresa vero e proprio, i lavoratori da assumere sulla base dell’accettazione individuale delle condizioni concordate nell’accordo separato firmato fra Fiat, Fim, Uilm e Fismic. A parte il fatto che simile modo di procedere (davvero un penoso escamotage) potrebbe essere contestato in quanto integrante gli estremi di una discriminazione per ragioni sindacali, resterebbe fermo in ogni caso quanto osservato sub d: i lavoratori non assunti, e  rimasti alle dipendenze di Fiat, dovrebbero comunque continuare il loro rapporto con la newco nel momento in cui il trasferimento di ramo d’impresa dovesse essere perfezionato.

 

La Fiat ha messo in gioco la sorte del contratto collettivo nazionale. Lo schema di riferimento è quello americano, dove vigono i contratti aziendali: si va in questa direzione che contraddice lo schema di relazioni industriali tipico dei paesi europei? O piuttosto si punta a un contratto nazionale, formalmente vigente, ma sostanzialmente svuotato dalle deroghe previste per le singole aziende?

 

La seconda ipotesi è già prefigurata dal modello contrattuale varato da Confindustria, Cisl e Uil nel gennaio/aprile 2009, ma non è poi stata accolta neppure dall’accordo separato stipulato da Federmeccanica, Fim e Uilm nell’ottobre 2009: non a caso si vocifera di una specifica integrazione che le parti stipulanti potrebbero concordare per rendere il contratto nazionale dell’industria metalmeccanica (peraltro non firmato dalla Fiom, che ritiene tuttora in vigore, con molte buone ragioni non esaminabili in questa sede, il precedente contratto unitario del gennaio 2008) ampiamente derogabile in sede aziendale.

 

La Fiat, in realtà, sembra più attratta dal modello americano della contrattazione aziendale, il che spiegherebbe l’intenzione di sganciarsi da Federmeccanica e Confindustria, volutamente fatta circolare in questi giorni. Quel modello, del resto, è sicuramente più vicino alla formazione culturale del suo amministratore delegato, il quale davvero non sa farsi una ragione del perché in Italia (ed in Europa) ci siano ancora organizzazioni sindacali legate all’idea (per lui vetusta ed obsoleta) della solidarietà collettiva e della distinzione (se proprio non si vuole parlare di contrapposizione) d’interessi fra capitale e lavoro. Il che, sia detto di passata, permette di capire meglio come mai i sindacati tedeschi, fiutate tempestivamente le caratteristiche del personaggio, si siano chiarissimamente opposti al tentativo Fiat di acquisizione della Opel.

 

Resta una terza ipotesi, sulla quale varrebbe la pena di riflettere un po’ più a fondo. Le mosse di Marchionne, da un paio di mesi a questa parte, sono troppo vistosamente (ed inutilmente) provocatorie per potersi spiegare solo in ragione della volontà di assicurasi certi obiettivi di produzione e/o di emarginare le organizzazioni sindacali conflittuali. I mezzi impiegati rispetto al fine appaiono sproporzionati e, verosimilmente, inadeguati: se davvero il fine fosse di tipo esclusivamente produttivo. E’ possibile, viceversa, che il fine sia ben diverso: l’obiettivo reale, forse, è quello di disimpegnarsi dalla produzione di auto in Italia, preoccupandosi, al tempo stesso, di sollevare un gran polverone funzionale a scaricare la responsabilità della scelta sulla rigidità e inaffidabilità di lavoratori e sindacati.

 

Nell’accordo di Pomigliano è messo in discussione, in forme più o meno ambigue, il diritto di sciopero. Sarebbe ammissibile licenziare un lavoratore per avere esercitato questo diritto sulla base della norma costituzionale e della prassi giurisprudenziale vigente?

 

No, si tratterebbe di un licenziamento assolutamente illegittimo che porterebbe agevolmente alla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato per un motivo del genere. In realtà, neppure la clausola 15 dell’accordo siglato per lo stabilimento di Pomigliano lo prevede: dal momento che collega le eventuali sanzioni disciplinari alla “violazione” da parte del lavoratore di una qualsiasi delle clausole concordate, dunque non all’esercizio del diritto di sciopero che, proprio perché tale (ovvero perché esercizio di un diritto), per definizione non costituisce inadempimento contrattuale. E’ vero, però, che la clausola è scritta in termini ambigui e proprio in questo è da ravvisare la sua efficacia deterrente nei confronti di comportamenti conflittuali dei lavoratori e, per altro verso, il suo carattere oggettivamente provocatorio. Clausole del genere appaiono irricevibili, se si vuole preservare, per il presente e soprattutto per il futuro, lo spazio di un’azione sindacale autonoma. Forse proprio per questo Pierre Carniti ha giudicato l’accordo di Pomigliano alla stregua di una capitolazione sindacale.

Domenica, 1. Agosto 2010
 

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