Il federalismo e il costo dei confini

L'attuale conformazione politico-amministrativa delle Regioni non coincide con le dimensioni ottimali da un punto di vista economico. Quali sono i parametri da prendere in considerazione e i rischi che si corrono: tra cui uno piuttosto sorprendente

Con molto clamore il governo, gettando il cuore oltre un decennio, ci annuncia le centrali nucleari del 2020, mentre la Lega incalza con i progetti federalisti da attuare in più di un quinquennio. Ho sempre sostenuto l'esigenza della programmazione di periodo medio-lungo: ma qui siamo all'ubi minor maior cessat. Se mi si allaga la casa, chiamo l'idraulico e non progetto una sofisticata ristrutturazione con un architetto di interni.

 

La legge sul federalismo fiscale, in quanto legge quadro, offre l'opportunità di un approfondito dibattito sui futuri decreti delegati che ne determineranno la funzionalità operativa. Ciò mi consente di ritornare sull'argomento (già affrontato in questo articolo del 15/2) per evidenziare un aspetto di fondamentale importanza. Alludo al fenomeno della non coincidenza dei confini economici con quelli politico-amministrativi.

 

I coefficienti di localizzazione, di cui al precedente articolo testè citato, debbono tener conto di molti fattori. Ad esempio, il rapporto fra valore, peso e ingombro dei prodotti (è conveniente trasportare per aereo diamanti, ma non patate o cemento); le distanze dai centri di approvvigionamento di materie prime e semilavorati, le dimensioni del bacino dell'indotto, i punti di sbocco delle esportazioni. Avremo dunque dei confini di convenienza economica correlati al costo della logistica. Più in generale, i confini economici sono legati alla tipologia dei prodotti, ai mezzi di comunicazione impiegati e alla rete dei trasporti. Essi dipendono dunque dalla struttura economica e dal livello della tecnica. La loro potenziale mobilità si accresce nelle fasi di crisi che implicano profonde trasformazioni produttive.

 

Il sistema tributario finora vigente è ancora basato, a livello di enti locali, in larga misura sulla finanza delegata. Facevano eccezione l'Ici, inopinatamente abolita (e non solo ridotta per i meno abbienti, come inizialmente deciso) e l'Irap, della quale le associazioni imprenditoriali chiedono a gran voce l'abolizione. Per la parte restante delle entrate regionali, provinciali e comunali, lo Stato preleva i tributi e ne trasferisce ad essi una quota. Incidentalmente, questo è anche uno strumento perequativo. Esistono infine compartecipazioni al gettito di imposte erariali, sotto forma di odiatissime (da tutti noi contribuenti) addizionali.

 

In un sistema di questo tipo la non coincidenza dei confini economici con quelli amministrativi non ha un'importanza decisiva, se non per i tributi immobiliari. I confini amministrativi, com'è noto, sono un'eredità storico-campanilistica, anche se non si può escludere che in altre epoche abbiano coinciso con motivazioni di "economia chiusa". Tali confini entrano quasi sempre in collisione con gli indicatori di omogeneità territoriale, oltre che con le dimensioni economiche ottime degli stessi enti locali.

 

L'omogeneità territoriale si caratterizza in termini di redditi, di tipologie produttive e delle relative sinergie, di esigenze di utilizzazione di risorse naturali e ambientali, nonché delle reti infrastrutturali. A loro volta, le dimensioni ottime dell'ente territoriale si correlano alle funzioni ad esso attribuite o attribuibili (peraltro ancora nel vago nell'attuale formulazione della proposta di legge in discussione). Negli anni in cui furono istituite le Regioni a statuto ordinario e fiorì la programmazione regionale, intorno a questi argomenti si accesero dibattiti, da tempo spenti in questo paese delle ombre cinesi. Una ragionevole applicazione pratica delle tipologie organizzative che emersero da quei dibattiti avrebbe portato a ridurre a non più di 800 -1.000 il numero dei Comuni, ad abolire le Province e a disegnare diversamente i confini di alcune Regioni. Si pensi al Lazio, regione sostanzialmente artificiale: accanto all'area metropolitana abbiamo le province meridionali, che gravitano sulla Campania e quelle settentrionali, che sembrano più strettamente collegate con la Toscana e con l'Umbria. La stessa Umbria (regione in cui sono nata ed alla quale sono ancora profondamente legata, e la cui economia ha sofferto per la scelta politica del tracciato della A1) proietta un continuum produttivo verso le Marche, che le garantiscono l'accesso al mare.

 

I confini economici acquisiscono un'importanza decisiva proprio nell'ambito del disegno di federalismo fiscale, in quanto le basi imponibili appaiono strettamente legate all'attività produttiva, compresa la finanziarizzazione. Essi, inoltre, sono diversi per ogni comparto merceologico e raramente fra loro sovrapponibili. Mutano al mutare delle tecnologie di processo, di prodotto, di marketing e della logistica.

 

Si può inoltre verificare un ampliamento dell'evasione fiscale attraverso quel meccanismo che gli studiosi nordamericani chiamano del "votare con i piedi". Le imprese tendono a migrare, per quanto riguarda gli aspetti puramente fiscali, verso quegli enti territoriali nei quali oggettivamente la pressione tributaria è minore. Nel caso italiano, ciò potrebbe verificarsi non tanto per diversità di aliquote o procedure, ma per il mal funzionamento della macchina amministrativa. Sarebbe paradossale se il riequilibrio fra il Nord e il Sud del paese fosse affidato agli evasori fiscali, con una sorta di legge di Gresham, per cui l'amministrazione cattiva scaccia quella buona.....

 

Ma non finisce qui. L'incalzare delle nuove tecnologie, stimolato dalla crisi economica, non si limiterà a trasformare la struttura economica del paese, ma modificherà sensibilmente gli insediamenti territoriali delle unità produttive. Detto in termini brutali: se il polo del Nord Est si indebolisce, mentre le nuove tecnologie creano altri poli nell'Italia Centrale e Meridionale, quegli enti locali disporranno di minori introiti proprio quando dovrebbero far fronte alle conseguenze recessive dello spostamento dei confini economici. Questo fenomeno si è già verificato a livello internazionale.

 

Sarebbe una ben strana ironia della sorte se in tempi forse meno lunghi di quanto non si creda i sostenitori del federalismo fiscale dovessero invocare un ritorno al centralismo in funzione di riequilibrio. D'altro canto, pur insistendo sull'adeguamento delle dimensioni degli enti locali verso la misura ottimale, la flessibilità continua dei confini economici rende comunque utopistico l'adattamento rapido dei confini amministrativi. E' del pari poco realizzabile la linea delle cosiddette macroregioni. Veniamo dunque alla conclusione che, nell'ambito dell'economia europea, l'unica vera macroregione è costituita dall'intero territorio italiano. Dal che si deduce che, certe volte, stare fermi è minor male che muoversi disordinatamente.....!

Venerdì, 27. Febbraio 2009
 

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