Il diritto di esistere del diritto del lavoro

Contravveniamo alle regole e non facciamo un sommario di sintesi: questa 'lectio magistralis' di Romagnoli spazia dalla storia all'economia alla politica. Non rimpiangerete il tempo che serve per leggerla
La crisi del diritto del lavoro è iniziata nel corso degli anni '70 e il diritto del lavoro vi è entrato per fare uscire dalla sua l'economia.
 
Trent'anni hanno la brevità di un sospiro nella storia delle nazioni. Non sono invece un'entità trascurabile nella vita di un diritto che, come quello del lavoro, di anni ne ha poco più di cento. Perciò, visto che le trasformazioni epocali del sistema economico-produttivo e del mercato non lo hanno ancora travolto, non solo bisogna riconoscere che è meno fragile di quanto non si supponesse, ma è anche opportuno interrogarsi sulla qualità delle risorse di cui dispone per resistere.

Sarà perché la memoria collettiva dei sacrifici sopportati dalle passate generazioni per costruirlo e consegnarlo alle successive lo ha equipaggiato con speciali sensori, fatto sta che, quando ci si aspetta di vederlo inciampare, cadere e frantumarsi, come certi buffi orsacchiotti a pila che i più anziani tra noi regalano ai nipotini, lui evita l'ostacolo cambiando direzione e, se cade, si rialza immediatamente. Un po' ammaccato, ma più vispo di prima.

La performance, però, non piace a tutti. Sorpreso e contrariato, un folto settore della platea rumoreggia. Esso è composto da coloro che non sono mai stati nemmeno sfiorati dal dubbio che la relazione tra economia e diritto del lavoro avrebbe un giorno o l'altro potuto assumere articolazioni e movenze proprie del complicato rapporto che soltanto due carissimi nemici sono in grado di gestire.

Così, vero è che in principio c'era l'economia capitalistica senza la quale il diritto del lavoro che conosciamo non sarebbe penetrato nell'ordinamento degli Stati liberali. La novità tuttavia è che l'economia, se ha avuto la forza propulsiva necessaria per generarlo e colonizzarlo, non gode più dell'egemonia originaria. Sembra aver perduto la forza di coazione sufficiente per assoggettarlo alle sue esigenze e adeguarlo ai mutamenti delle medesime nelle forme, nei termini e nei tempi desiderati. Anzi, dà l'impressione di dover superare le medesime difficoltà di chi pretendesse di rimettere il dentifricio dentro il tubetto.

Benché i sismografi consultabili dai giuristi non permettano di registrare un autentico rovesciamento dell'ordine primitivo, è egualmente sopravvenuta una mutazione genetica che preclude al dominante di trattare il dominato con la licenziosità che l'antico rapporto gli consentiva e, in conseguenza, toglie credibilità ad un accattivante sillogismo di questo tenore:
 
Il Novecento è stato un secolo breve. Cominciato tardi, è finito presto.
Quello del lavoro è il diritto del Novecento.
Ergo, al diritto del lavoro toccherà la sorte del suo secolo.
 
Viceversa, la certezza che l'intendance suivra non c'è. Nel frattempo, la creatura si è svezzata dalla patria potestà, si è emancipata, ha elaborato un proprio statuto epistemologico: il diritto del lavoro "era una tecnica giuridica minore, adesso è una scienza maggiore", è l'orgogliosa rivendicazione di Gérard Lyon-Caen che di questa metamorfosi è stato un protagonista. Pertanto, quel che per adesso è dato ragionevolmente affermare è che l'intendance non si accoderà con gli automatismi attesi da economisti abituati ad intrattenere col diritto del lavoro un rapporto fondato su di una tacita intesa: loro portano i panini e lui organizza il pic-nic. Come dire che, nel frattempo, deve essere accaduto qualcosa di significativo.
 
In base al principio di Occam, secondo il quale la chiave di lettura preferibile per capire come stanno le cose è la più semplice anche perché probabilmente è la più corretta, ritengo che quella che mi persuade maggiormente abbia proprio il requisito della linearità.

Il diritto del lavoro non era venuto al mondo per rifarlo da cima a fondo, ma soltanto per renderlo un po' più tollerabile per categorie di soggetti che, scriverà Werner Sombart con aristocratica quanto inutile cattiveria, avevano col lavoro "all'incirca gli stessi rapporti del bambino con la scuola, dove non si reca se proprio non deve". I più zelanti gli imposero il nome di droit ouvrier.

Malgrado le sue umili origini, invece, questo diritto ha cominciato presto a pensare in grande e, con la precocità di un enfant prodige, si è spinto al di là della soglia di un contratto a prestazioni corrispettive.

Appena ha scoperto la propensione a sfidare l'ambiente che all'insaputa anche di se medesimo si portava dentro fin dai primordi, l'ha assecondata. Non si è accontentato di incivilire l'etica degli affari che presiedeva all'attuazione del rapporto di lavoro. Ne ha valorizzato la dimensione collettiva e, così facendo, ha intercettato l'evoluzione del costituzionalismo euro-continentale tardo-ottocentesco, ha interagito con essa e ne ha accelerato i ritmi. Infatti, si deve anche alle sue sollecitazioni la spettacolare ascesa al culmine della quale i comuni mortali inchiodati per motivi di censo nella condizione di sudditi di uno Stato mono-classe hanno potuto accedere allo status di cittadini di uno Stato pluri-classe.

Il che significa che quello del lavoro è stato il diritto del Novecento non solo perché il Novecento era il secolo del lavoro inteso come risorsa indispensabile al sistema della produzione industriale, ma anche perché le culture, le religioni, le ideologie prevalenti hanno attribuito al lavoro la virtù di connotare l'identità degli individui e dunque lo hanno inteso come fattore di inclusione sociale. Il diritto al lavoro riconosciuto dalle costituzioni post-liberali del secondo dopoguerra vuol dire proprio questo: chi non lavora non ha, ma soprattutto non è.

Pertanto, il diritto del lavoro è stato una salvifica eresia non solo perché ha vittoriosamente conteso alle codificazioni civili dell'Ottocento la disciplina dell'obbligazione contrattuale di lavorare alle dipendenze di altri, ma anche e soprattutto perché ha valorizzato la centralità del ruolo del lavoro dipendente nella società industriale. Se fosse rimasto lontano dalla  dimensione politico-istituzionale, non sarebbe diventato una componente essenziale dell'originale riprogettazione dello Stato che, in misura diseguale e con rilevanti sfasature temporali, si è sviluppata nell'Occidente europeo. Come dire, allora, che il diritto del lavoro è il più eurocentrico dei diritti.

L'enunciato non è retorico. E' sufficiente osservare che - qualunque sia la concezione del mondo: liberale, cattolica, socialista e, sì, anche fascista a cui abbiano di volta in volta aderito - i legislatori europei del Novecento non hanno mai esaurito il loro intervento nella disciplina di una relazione contrattuale col proposito di comprare il consenso di collettività tenute a lavorare in luoghi che, in base agli schemi cognitivi del tempo, erano affini alle istituzioni totali, come il carcere o la caserma. Bongré o malgré percepivano che in questi luoghi sconosciuti all'esperienza precedente gli uomini col colletto blu e le mani callose imparavano non solo a lavorare con le indicibili sofferenze di cui Simone Weil sarà l'interprete più lucida quanto appassionata, ma anche a rivendicare la forma di cittadinanza che un sociologo inglese suggerirà di definire "industriale" perché (suppongo) odorava di petrolio e carbone, vapore di macchine e sudore. Là è maturata la persuasione che, per organizzarsi in forma sistemica, il capitalismo non avrebbe potuto sostenersi esclusivamente su di una capocchia di spillo come il contratto individuale di lavoro e la sua elementare disciplina.

Come dire che la coercizione uniformante esercitata sui comuni mortali dal sistema della produzione di massa per il tramite di regole che ne incorporano i principi di razionalità materiale ha posto le premesse per il superamento delle politiche di governo della povertà simboleggiate dalla pietà e dalla forca. Povero infatti era anche l'operaio della fabbrica, come testimoniavano le sue condizioni esistenziali, ma l'insieme degli incentivi e delle sanzioni previsto dalle regole del lavoro salariato disegnava il quadro prescrittivo di riferimento per educare alla laboriosità i comuni mortali.

Insomma, la motivazione della tensione riformatrice a cui ubbidivano i legislatori europei del Novecento li disponeva ad operare "perché alla conclusione del contratto il lavoratore giungesse quanto è possibile libero, perché la coercizione e l'asimmetria intrinseche al rapporto si temperassero, perché la congenita ostilità fra le parti si piegasse all'apprezzamento razionale dei costi e dei benefici che importano le sue manifestazioni" (F. Mancini).

Per questo, può dirsi che, se la povertà oziosa o pericolosa di mendicanti o vagabondi non si fosse trasformata in laboriosa, la cittadinanza non sarebbe mai diventata il diritto di tutti che è oggi né uno statista francese contemporaneo avrebbe potuto affermare, con accenti degni della grande tradizione oratoria del suo paese, che "la justification de l'Europe c'est sa différence".

Del resto, l'Europa dei Quindici era costituita da Stati-nazione i cui valori costituzionali erano sufficientemente omogenei per formare il patrimonio giuridico che la Corte di Giustizia promuoverà al rango di fonte dei principi generali del diritto comunitario. Quindi, questi medesimi Stati-nazione non possono aver ceduto - se non al prezzo di rimettere in discussione le basi della loro stessa legittimazione - quote rilevanti di sovranità per crearsi un alibi che li mandi esenti da responsabilità in caso di rinuncia ad esercitare nel proprio territorio il ruolo di promotori e custodi di un modello sociale assistito dal consenso popolare. Anzi, una volta  trasferito in quel semi-lavorato normativo che è la costituzione europea siglata a Roma il 29 ottobre 2004, il modello sociale condiviso dai paesi fondatori dell'Unione Europea è l'obiettivo su cui dovrà realizzarsi la massima convergenza dell'Europa dei Venticinque, se vorranno davvero stare e marciare insieme sapendo verso dove. Purtroppo, l'ecumenismo affabulatorio esibito in ordine alle politiche sociali dal solenne documento non autorizza a manifestare certezze.

Si ha notizia che, interrogato sul rilievo conferito all'insieme dei diritti sociali, con signorile distacco il Presidente Chirac avrebbe dichiarato: " j'ai tendance à penser que l'on aurait pu être un peu plus ambitieux ". La direttiva Bolkestein, sia pure bloccata in extremis, non ha potuto certo fargli cambiare parere.
 
Dicevo in apertura che le ragioni della crisi del diritto del lavoro vanno ricercate fuori di lui. Ciononostante, si sta diffondendo l'opinione secondo la quale il suo declino dipenderebbe proprio da lui, sia pure con la complicità dei nostri ritardi, perché non avremmo compreso tempestivamente che sarebbe rimasto vittima degli effetti-boomerang, controfattuali e preterintenzionali, della logica concessivo-acquisitiva a cui deve il suo successo nei decenni centrali del Novecento.

A causa di una protezione eccessivamente costosa delle tutele degli insider, ecco la sostanza delle censure rivolte a lui quanto alla pigrizia del ceto professionale degli operatori giuridici, non solo gli outsider stentano a trovare occasioni di lavoro regolare, ma le imprese che possono permettersi di prediligere non tanto le regole del mercato quanto piuttosto il mercato delle regole sono addirittura sospinte a delocalizzarsi od anche a tuffarsi nell'illegalità per poi scomparire nell'economia sommersa. Insomma, più strabico che miope il diritto del lavoro - al punto in cui siamo, però, bisognerebbe chiamarlo: il diritto degli occupati - "ruine", come si dice in Francia,  "le droit au travail"; mentre - quando al lavoro perduto si somma una quantità ingente di lavoro non trovato - stato di bisogno e marginalità sociale sono connotazioni qualificative anzitutto dei senza-lavoro che, nella società dei "due terzi", rappresentano per l'appunto il terzo escluso.

Per riappropriarsi della solidarietà perduta, ecco l'input che si vuole trasmettere, il diritto del lavoro dovrebbe restituire all'economia le chances di autoregolazione che essa ha perduto nel corso del Novecento, allentando i vincoli e rinunciando alla standardizzazione dei trattamenti economico-normativi.
 
Confesso che mi risulta difficile prendere sul serio una riflessione del genere. Mi verrebbe voglia di chiudere il discorso con una sarcastica boutade: l'idea che, per aiutare e proteggere tutti gli aspiranti al lavoro, bisogna aiutare e proteggere meno chi il lavoro ce l'ha è figlia della medesima malvagità con la quale si sostiene che, per far crescere i capelli ai calvi, bisogna rapare chi ne ha di più. Il self-control mi impone invece di farmi guidare dal medesimo sentimento di irritazione ammorbidita dall'indulgenza che suggerì a Franz Kafka un'immagine amabilmente caricaturale del neofita temerario: "corre dietro ai fatti come un pattinatore principiante, che oltre tutto si esercita dove è proibito". L'immagine esprime nel migliore dei modi l'effetto che mi fanno certi giuristi sedotti dal fascino dell'analisi economica del diritto.

Speculare all'analisi giuridica dell'economia, ma premiata dal più esteso e rumoroso successo che le stanno procurando dei giuristi di paesi di civil law, l'analisi economica del diritto è la specie più importante di uno schema argomentativo che differisce da quello tradizionale per il rilievo attribuito alle implicazioni pratiche immediate dell'interpretazione accolta o della decisione presa.

Sulle orme di una sofisticata dottrina tedesca, anche in Italia si parla di "argomentazione orientata alle conseguenze". Ma si ha il buon senso di precisare che, malgrado il suo barocchismo, la locuzione in definitiva rinvia a quello che più sobriamente si chiama argomento pragmatico. Ossia, all'argomento che ha trovato proprio nel diritto del lavoro la sua abituale dimora per lo meno dal momento in cui questo diritto ha smesso di vergognarsi della sua anomalia.

Secondo Massimo D'Antona, essa "è fatta di una attitudine antiformalista, antilegalista e antidogmatica, nonché di un pronunziato eclettismo di metodi di indagine che rende il diritto del lavoro tributario di altri saperi". In realtà, il diritto del lavoro ha perduto la sua purezza - ammesso che un giorno l'abbia avuta - in tenera età. Per sopravvivere, ha sempre dovuto arrangiarsi, senza pretendere di assomigliare alle immacolate eroine dei romanzi popolari. Il suo disagio esistenziale è causato da ciò: mentre il mercato potrebbe persino ucciderlo, e ogni tanto ci prova, nei suoi confronti il diritto del lavoro non può nutrire propositi omicidi.

La segnalata anomalia quindi è un suo elemento costitutivo perché, come è testimoniato dall'ambiguità del diritto del lavoro, quest'ultimo deve trattare il mercato per ciò che è: un meccanismo insostituibile e al tempo stesso pericoloso, come il cuore delle centrali nucleari in cui c'è bisogno di installare congegni che ne impediscano una devastante esplosione.

Infatti, sebbene il diritto del lavoro nasca dalla critica di un assetto di interessi suscettibile di generare conflitti destabilizzanti, la critica di cui non ha mai smesso di alimentarsi è sempre stata - tranne che in rari intervalli, di cui peraltro si è pentito - così poco radicale da proporsi, piuttosto, di prevenire la radicalizzazione dei conflitti e così poco cartesiana da condurre ad esiti che non sono mai definitivi. Se non proprio reversibili con l'intensità che giustificherebbe l'accostamento del diritto del lavoro a "Pénélope devenue juriste", come scrisse una volta Gérard Lyon-Caen, sono comunque provvisori, sperimentali, aperti a modifiche, aggiustamenti, integrazioni. Per questo, la pars construens della critica di cui il diritto del lavoro è il simbolo giuridificato non può non prevalere sulla destruens se si vuole, come si deve, elaborare una "régulation des rapports qui président à la vie économique en instituant un équilibre entre les besoins des entreprises et les revendications de ceux qui travaillent pour elles"; un equilibrio che, per quanto instabile, rilegittima proprio ciò che è oggetto di contestazione.

Tuttavia, la matrice visibilmente compromissoria del diritto del lavoro non autorizza a parlarne come d'un diritto del capitale; casomai, esorta a chiarire che è ambivalente, perché è emancipatorio ed insieme repressivo. Infatti, noi chiamiamo del lavoro un diritto che al tempo stesso è sul lavoro, perché concede al lavoro la parola, ma contemporaneamente gli vieta di alzare troppo la voce. Seguitare a chiamarlo diritto del lavoro è legittimo; tuttavia, l'epico alone da chanson de geste evocato dalla generosa denominazione corrisponde meno al prudente mini-gradualismo evolutivo del diritto del lavoro che al gusto dei lettori di un periodico fiorentino tuttora menzionato nei testi di storia del proto-socialismo italiano. Il primo numero de Il proletario - che fu pubblicato il 20 agosto 1865 - e quelli successivi si aprivano con una profezia ormai incapace di auto-adempiersi persino negli ambienti della gauche più massimalista: "Il capitale è tutto e il lavoro niente. Che cosa sarà il capitale? Niente. Che cosa sarà il lavoro? Tutto." Viceversa, l'intero tragitto compiuto dal diritto del lavoro attraverso il tempo è una continua riscoperta che la dialettica degli opposti che compongono il suo tessuto si converte più nella loro complementarità in vista del reciproco sostegno che nel loro antagonismo a fini distruttivi.

Così, sebbene il diritto del lavoro abbia tagliato le unghie al potere aziendale, lo abbia procedimentalizzato e reso più trasparente il suo esercizio, l'impresa continua ad essere il luogo di massima rifrazione delle diseguaglianze e, al tempo stesso, il luogo in cui è impossibile rimuoverle. Persino nelle cooperative di produzione e lavoro che erano state inventate in epoche risalenti per praticare una logica anticapitalistica si è scoperta la necessità di adottare nei confronti dei soci lavoratori politiche aziendali omologate a quelle delle imprese con scopo di lucro. Non diversamente, le regole di cui si compongono i diritti nazionali del lavoro subiscono nell'arcipelago delle piccole imprese un vistoso calo di universalità. Più indulgente che arcigno nei confronti degli operatori economici di piccole dimensioni, il diritto del lavoro legificato e sindacalmente negoziato di cui essi possono avvalersi trasmette invariabilmente un messaggio che è facile interpretare: il contenimento del costo del lavoro è la pre-condizione della competitività delle aziende di modeste proporzioni.

"La vérité est donc nuancée", come amava dire Gérard Lyon-Caen. E proprio l'argomento pragmatico ne spiega le ragioni. Esso tuttavia, pur introducendo il punto di vista utilitaristico nel discorso giuridico, non si coniuga necessariamente col proposito di svuotare lo schema binario fondato sulla coppia valori/disvalori per sostituirla con la coppia utile/dannoso che, come si addice alle prassi senza dottrina, sfuma gli aut-aut in altrettanti et-et. Di per sé, ha la diversa funzione di correggere l'autoreferenzialità del discorso giuridico spostandolo sul terreno della verifica empirica della sua accettabilità nelle condizioni storicamente date. Vi sono infatti decisioni che, come possono non produrre vantaggi generalizzabili solamente perché si richiamano a valori universali, così possono non produrre solamente svantaggi benché siano condizionate da disvalori. Ciò non toglie che la scelta di relativizzare valori non equivale a premiare disvalori.

Squilibrante, invece, è la tesi secondo la quale il sistema capitalistico è sopravvissuto come forma dominante di organizzazione economica malgrado il diritto del lavoro. La tesi non solo è mistificante perché il sistema capitalistico si è consolidato - e anzi si è rafforzato - grazie alla mediazione sviluppata dal diritto del lavoro per correggere le conseguenze più negative dell'economia e del libero mercato. La tesi è viziata anche da un grossolano contrasto con l'evoluzione del diritto costituzionale. Ignora infatti che diritto di proprietà e libertà dell'iniziativa economica, ossia i pilastri dei sistemi capitalistici, hanno conservato ampi margini di agibilità in quanto le stesse costituzioni che li garantiscono non tollerano equivoci: il lavoro può dare dignità soltanto se è decente e se la persona che lo presta è trattata decentemente.
 
Pertanto, è senza dubbio ragionevole chiedersi - come si chiedeva Hugo Sinzheimer nel 1933, ossia nel buio del più lungo tunnel attraversato dal capitalismo moderno dell'Occidente europeo - che senso abbia "il diritto del lavoro quando esso non è fruibile se non da un sottile strato di lavoratori che hanno la fortuna di lavorare, mentre accanto c'è un cimitero di disoccupazione strutturale". Tuttavia, è da irresponsabili accreditare la falsa certezza che la distruzione del diritto del lavoro novecentesco possa curare un malessere sociale senza crearne di ancora peggiori e più estesi. Come scrive un Premio Nobel per l'economia, "una cosa è rafforzare gli outsider rispetto agli insider, ben altra è rafforzare i datori di lavoro rispetto agli insider", riportando indietro le lancette dell'orologio e dunque cancellando l'acquis normativo che, come sunteggiavo all'inizio, ha caratterizzato l'itinerario percorso dalla storia sociale del Novecento.

In ogni caso, promuovere l'occupazione è un po' come promuovere la democrazia nei paesi la cui diversità di regime politico-istituzionale ci appare minacciosa. In entrambe le ipotesi, quel che conta è il modo con cui si realizza l'obiettivo.

Così, se la guerra è un modo sbagliato di promuovere la democrazia -  la guerra soi-disante preventiva in Irak è già diventata un caso di scuola - neppure l'intento di aumentare il livello occupazionale può giustificare la decisione di promuovere l'accesso al mercato del lavoro moltiplicando le differenziazioni di trattamento fondate su fattori di discriminazione vietata. A cominciare dall'appartenenza al sesso femminile. E ciò per l'impossibilità di conciliare il massacro della legislazione antidiscriminatoria con la nozione di progresso civile condivisa dal senso comune delle popolazioni dell'angolo di mondo che si chiama Europa.

Insomma, può darsi che il paradigma novecentesco del lavoro regolare, a tempo pieno e indeterminato, sia sepolto sotto una coltre di vischiosità ideologiche. Ma, se per flessibilità delle condizioni di lavoro s'intende precarietà e insicurezza delle persone, il diritto del lavoro è destinato, ora più che mai, ad evolvere a misura del cittadino che guarda al lavoro come all'unica o principale risorsa con la quale costruirsi un progetto di vita e - in sintonia coi risultati dell'analisi dell'équipe di giuristi comunitari coordinata da Alain Supiot - il diritto di lavorare nei paesi dell'Unione Europea è indissociabile dal diritto a proteggersi contro i più elementari e frequenti rischi sociali indipendentemente da natura, modalità e durata del rapporto di lavoro. Non si tratta di demonizzare i telefonini. Si tratta piuttosto di non mortificare le scuole e gli ospedali.

Se non prevalesse questa politica del diritto e dunque se gli Stati dell'Europa dei Venticinque si defilassero nel ruolo del convitato di pietra - nello stesso momento in cui le rispettive politiche economiche minacciano i diritti di cittadinanza di cui essi medesimi devono essere artefici e garanti - il diritto comunitario del lavoro non sarebbe più europeo.

"Gli europei farebbero bene a rallegrarsi per essere riusciti a creare la più umana forma di capitalismo finora conosciuta", si è detto di recente, e farebbero anche meglio "a chiedersi quali nuove idee debbano essere messe in atto per migliorare il loro modello attuale". Vero è che gli europei farebbero bene anche ad invocare il loro Dio contro il rischio che Jeremy Rifkin si sia sbagliato un'altra volta - la sua notorietà essendo legata ad un'avventata profezia sulla imminente "fine del lavoro" - ma non si può non concordare.

Come ammoniva Hugo Sinzheimer, "il diritto del lavoro non ha senso isolatamente considerato". Ma, proprio perché "esso è complementare all'economia", "un suo rinnovamento non è possibile senza rinnovare l'ordinamento economico complessivo". Per questo, è un auto-inganno credere che il malessere dell'economia europea possa essere curato soltanto o soprattutto incentivando la creatività trasgressiva di operatori giuridici e sindacali in competizione tra loro per demolire il diritto del lavoro ereditato dal Novecento. L'Europa deve piuttosto compiere uno sforzo di progettualità economica capace di perseguire una innovativa strategia di sviluppo e, a questo fine, creare il potere politico  sovranazionale capace di sostenerlo.

(Questo scritto è la relazione d'apertura della Journée d'étude à la mémoire de Gérard Lyon-Caen, organizzata dall'Associazione francese di diritto del lavoro il 13 maggio 2005 a Parigi. Lo scritto è destinato agli Studi in onore di Miguel Rodriguez Pinero).
Mercoledì, 4. Maggio 2005
 

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