Sono tuttora numerosi i giuristi, quelli del lavoro inclusi, che amano autorappresentarsi come tecnici imparziali, detentori di un sapere specialistico di per sé neutrale, custodi di verità assolute. Del loro mestiere, invece, lopinione pubblica si è fatta unidea assai più demistificante. Eppure, ne ha sentito parlare solo nelle occasioni apparentemente meno adatte, per violenza emotiva, a capire bene di cosa si tratta. Lultima volta risale al 2002, quando le Br uccisero Marco Biagi. Ma era già accaduto: nel 1999, quando a Massimo DAntona fu inflitta la stessa sorte e, nel 1983, quando Gino Giugni subì un attentato commesso con intenti omicidi che non si realizzarono soltanto (per miracolo, si usa dire in casi del genere, ma in realtà) per imperizia dei killer.
Attualmente, si sa che Pietro Ichino vive dal 2002 sotto scorta armata.
Lintera vicenda, che ha dellincredibile anche perché non ha riscontro nel mondo contemporaneo, è sconvolgente. Ciononostante, su di essa il ceto degli operatori giuridici non si è interrogato. Ha commemorato, ha esecrato, ha sofferto. Poi, si direbbe che ha rimosso. Chio sappia, il generale e assordante silenzio è stato rotto per un attimo soltanto da Luigi Mariucci: Se non veniamo a capo del perché il diritto del lavoro è stato insanguinato non potremo più fare il nostro mestiere. Più teatralizzante del necessario, il linguaggio scivola nella retorica apocalittica. Tuttavia, esprime la condivisibile esigenza di spingere più in là la notte (direbbe Mario Calabresi) riflettendo su di un ruolo professionale che ha offerto il pretesto dei fatti criminosi di cui hanno dato notizia le cronache.
Essi ci dicono inter alia che segmenti del nostro paese dispersi come schegge impazzite si congiungono nella condivisione di un immaginario malato, inquinato come laria che stagna sulle paludi. Un immaginario che appartiene a individui antropologicamente diversi dai comuni mortali che, non appena la visibilità mediatica del giurista scoperchia loggettiva difficoltà di tracciare netti confini tra il suo mestiere e la sfera della politica, ne rimangono impressionati e, nellimpossibilità di spiegarsela a causa della estrema povertà del loro patrimonio culturale, la estremizzano con traumatizzante rozzezza fino a farne il simbolo del Male.
Non è che i mass media cadano (e facciano cadere) in errore divulgando la tesi secondo cui i killer colpiscono figure che simboleggiano il riformismo applicato alle politiche del lavoro. Tuttavia, lanalisi appare sfuocata nella stessa misura in cui riformismo è una parola che ha smesso di parlare. Logorata dalluso indiscriminato cui si presta, non ha più un significato univoco, perlomeno da quando si formulano proposte o si effettuano scelte che, nel segno del riformismo, comportano arretramenti degli standard di protezione allelevazione dei quali il diritto del lavoro deve il successo di cui, si dice, è rimasto vittima e, più in generale, è ancora nel medesimo segno che si attribuisce una virtù salvifica allattitudine del diritto del lavoro ad orientarsi in modo che se ne possa dire ciò che una volta disse di lui Gérard Lyon-Caen: Cest Pénélope devenue juriste.
Comunque sia, ciò che frange di assassini fondamentalisti giudicano uneresia non è che lepifania della matrice compromissoria di un diritto che, come quello del lavoro, pur concedendo al lavoro la parola, al tempo stesso gli proibisce di alzare troppo la voce e perciò è del lavoro nella stessa misura in cui è sul lavoro. Esso, infatti, è soltanto il costrutto storico di un processo politico nel quale interviene uninfinità di fattori interagenti e confliggenti. Uno di essi è senzaltro la cultura giuridica, ossia la cultura dei giuristi. Non è mica necessario diventare giuristi scafati per rendersi conto che essa è in grado dinfluenzare il destino di specifiche e puntuali determinazioni di diritto positivo nellampia misura in cui prevale uninterpretazione adeguatrice o, allopposto, restrittiva (e, in ogni caso, correttiva) delle stesse.
E, quando come, per es., succede da noi in materia sindacale si è in presenza di vuoti regolativi anche le meno tonte matricole delle Facoltà di Giurisprudenza intuiscono che limportanza della cultura giuridica cresce con andamento esponenziale, perché lassenza di regole suscita il bisogno di utilizzare la risorsa dellinterpretazione creativa, sia pure allinterno dei vincoli di sistema rintracciabili con le cautele di cui ciascun interprete è capace. Come dire che il diritto del lavoro consta della stratificazione dei più svariati compromessi via via raggiunti, ma non pietrificati e dunque modificabili perché la contesa rimane aperta, probabilmente non si esaurirà mai e lultimo compromesso sarà rinegoziato.
Ecco allora cosa ha capito lopinione pubblica: ha capito quel che nellambiente giuridico si stenta ad ammettere e anzi si rifiuta energicamente. Ha capito che la rinegoziabilità delle soluzioni adottate è fisiologica non solo quando a deciderne tempi e modi siano le parti direttamente interessate, ma anche quando assume la forma dellattività interpretativa ad opera di un ceto professionale di intellettuali formati a questo scopo nelle Università. Ed ha capito che, sebbene la dimensione etico-culturale trasformi il diritto del lavoro in un insieme di principi ordinanti della collettività nazionale, né ladesione né lavversione ai medesimi fanno parte dello statuto epistemologico del giurista.
Lo statuto però vieta di barare nascondendosi dietro apriorismi del tipo: desiderio di conoscenza e partisanship non possono coesistere e la loro coesistenza è dostacolo alleccellenza di unelaborazione culturale o allalto profilo di unoperazione concettuale. Quindi, gioca lealmente il giurista che non senza qualche cedimento al gusto del sensazionalismo ha confessato che, nellepoca della (sua) astinenza dalla politica, lo studio del diritto del lavoro ha funzionato come può funzionare il metadone per un tossico-dipendente. Ma, in precedenza, col candore protervo del fanciullo della fiaba del re cui fanno credere di indossare un magnifico vestito ed invece è nudo, Federico Mancini aveva affermato: Il giurista fa politica, i suoi tempi sono quelli della politica; e, riflettendo sulla sua biografia, non senza un filo di divertita auto-ironia (ma orgoglioso della sua diversità) Gino Giugni era giunto alla conclusione che nessuno, neppure lui, saprà mai se Giugni è un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto. Daltronde, come scrisse Federico Caffè, gli ideali costituiscono una componente ineliminabile della personalità dello studioso e il suo necessario sforzo di obiettività consiste nel dichiararli in modo esplicito, anziché introdurli in modo subdolo o reprimerli.
Sulla base delle premesse finora svolte, è dato comprendere come non sia una casualità che il diritto del lavoro ereditato dal 900 e il diritto costituzionale elaborato sessantanni or sono conoscono una fase di ripensamento per effetto del rovesciamento della prospettiva in cui vengono risituati.
Quando si dà per scontato, come un dato ovvio, di senso comune, che
Non è che ricerca scientifica e partisanship abbiano smesso di convivere nel mestiere dei giuristi, costituzionalisti o del lavoro che siano. Infatti, in sintonia con la nozione di scienza giuridica, che è eminentemente dialogica, la tecnica giuridica è essenzialmente una tecnica argomentativa e gli argomenti che il giurista sviluppa sono e restano argomenti: come tali, confutabili tanto de lege lata quanto, e soprattutto, de lege ferenda. Piuttosto, è il segno della partisanship che è mutato, perché loriginario orizzonte culturale di riferimento non è più condiviso e il diritto quello del lavoro incluso non è separabile dal contesto di cui è, ad un tempo, parte dipendente e costitutiva.