Il diritto del lavoro nel secolo del lavoro frammentato

Deve cambiare, ma è un'inutile arroganza imporgli di svilupparsi al di fuori della necessaria legittimazione sociale

Non solo nell’Occidente europeo, se lo chiedono tutti. Anche uno storico illustre come Jacques Le Goff terminava nel 1985 un’appassionata ricostruzione dei 150 anni di storia del diritto del lavoro francese con l’interrogativo: “Où va le droit du travail?”. La sua risposta non poteva essere incoraggiante.
La tradizionale logica acquisitiva si stava convertendo nella logica del meno peggio o del male minore. Una strategia di contenimento era subentrata alla strategia aggressiva della conquista. La prevalenza della dimensione collettiva era già declinante a vantaggio di quella individuale. Ormai, si era sparsa la voce che la riduzione degli standard protettivi del lavoro dipendente costituisse la tecnica più adatta per continuare a proporsi realisticamente il traguardo della piena occupazione nell’ampia misura in cui restituisce al mercato spontaneità e dinamismo.

Per 100 anni, invece, lo sviluppo dell’occupazione non era sembrato incompatibile con quello delle regole del lavoro dipendente ovvero – ma è la stessa cosa – la soluzione del problema della disoccupazione sembrava sganciato dal livello di protezione degli occupati.

Questo infatti era il Novecento: “tutti ci alzavamo alla medesima ora, tutti uniformati negli orari giornalieri, settimanali, annui” e tutti pensavamo che “la vita lavorativa si svolgesse su tutto l’orario giornaliero per tutti i giorni feriali della settimana in tutti i mesi lavorativi dell’anno, fino alla pensione” (Accornero). Certo, l’itinerario esistenziale non era allegro e poteva non piacere. Ma il suo costo sociale non impensieriva. Non impensieriva nemmeno il costo economico-finanziario complessivo della sua percorribilità. L’essenziale era che segnasse l’avvento della seconda generazione dei diritti legati alla nuova forma di cittadinanza che, non a torto, Thomas Marshall avrebbe definito industriale: la sola forma di cittadinanza che il diritto del lavoro del Novecento poteva promettere al popolo degli uomini col colletto blù e le mani callose.

La promessa è stata onorata. Ed è stato un successo. Raggiunto il quale, però, il diritto del lavoro ne è stato la principale vittima ed ha scambiato la sfida che il futuro gli rivolgeva per ingratitudine della società. Diceva La Rochefoucauld: “tutti si lamentano della loro scarsa memoria. Nessuno del suo scarso intelletto”. Anche l’eccesso di memoria, però, fa male. Può causare una specie di blocco mentale che obbliga a scartare a priori ogni strategia diversa da quella di opporsi, in un modo o nell’altro, a tutto ciò che potrebbe tradursi in una rinuncia ai vantaggi acquisiti.

Naturalmente, si può imprecare contro questo conservatorismo che pretende dal domani il massimo di somiglianza con l’oggi. Si può persino sottolineare, come osservava di recente Jean Paul Fitoussi, che i protagonisti più chiassosi di questa strategia sono coloro i cui vantaggi acquisiti sono più sostanziosi e la cui protezione è tale che la loro protesta può farsi udire senza timori.

Tuttavia, bisogna ammettere che non è insensato l’atteggiamento di chi non vuole privarsi dei mezzi che potrebbero permettergli di affrontare al meglio un incerto avvenire.

Per questo, i giuristi del lavoro della mia età giudicano fisiologico che il diritto del lavoro non abbia fretta di liberarsi della sua storia.

Sanno che il diritto del lavoro vivente è il prodotto di un’infinità di aggiustamenti talvolta maldestri talvolta ingegnosi, la cui cifra stilistica è quella del bricolage. Sanno che la sua più visibile costante evolutiva è la micro-discontinuità e il suo più lodato know-how appartiene a moltitudini di comuni mortali. Appartiene ad isolati giudici di provincia almeno quanto ai difensori dei litiganti. Ai rappresentanti sindacali che conducono le trattative contrattuali. Alle folle che riempiono le piazze per protesta o vi si esibiscono in festosi girotondi.

Insomma, sanno che è un’inutile arroganza imporre al diritto del lavoro di svilupparsi al di fuori degli schemi di autodeterminazione che hanno conformato la costituzione materiale per attuare la costituzione formale.

Infatti, intimando con toni ultimativi che autori e utenti del diritto del lavoro se ne separino con l’istantaneità di un caffè liofilizzato per tradurre in termini precettivi un disegno prefabbricato chissà dove e chissà da chi, elevato è il rischio di sbagliare due volte.

Una prima volta perché, quando ciò che declina è ancora forte e ciò che è in ascesa è ancora debole, vecchio e nuovo possono interagire positivamente durante quello che può essere definito il tempo dell’adattamento. Un tempo tutt’altro che vuoto e inoperoso, perché il vecchio non resiste al nuovo più di quanto non occorra per aiutarlo a crescere né il nuovo cammina accanto al vecchio più di quanto non occorra per aiutarlo a morire.

Una seconda volta perché insopprimibile è la vocazione del diritto del lavoro a svilupparsi strada facendo attraverso sperimentazioni consensuali e invenzioni condivise che non cessano di stupire, ma sono difficili da classificare. Per questo, il diritto del lavoro ha bisogno soprattutto di legittimazione sociale. Anzi, stante l’inseparabilità del suo processo creativo dalla forma storica di governo della società, è il più efficace parametro a nostra disposizione per misurare la democraticità dei processi decisionali che influenzano l’esistenza dei comuni mortali e ne condizionano i progetti di vita.

Infatti, un regime pluralistico può funzionare subordinatamente all’accettazione della “legge del dialogo”, la quale postula non solo che si parli la stessa lingua, si siano frequentate le stesse scuole e studiati gli stessi libri di testo. Postula anche la disponibilità di ciascuna delle parti a relativizzare le proprie verità in quanto – esclusa l’esistenza di soluzioni salvifiche solamente perché conformi all’ideologia prevalente – la formazione della volontà comune deve svilupparsi secondo un processo di sintesi dialettica o – direbbe Piero Calamandrei – sulla base del principio del contraddittorio, perché la contrapposizione di diverse verità “è il miglior mezzo per vedere illuminata la verità tutt’intera”, per quanto convenzionale e provvisoria essa sia.

Dopotutto, l’intero diritto moderno non è riducibile alla semplice registrazione di un esito elettorale né la risultante di un rapporto di forze materiali. Tornare a pensare in questa maniera significa postulare che la giustificazione della norma giuridica si esaurisca nella legalità della sua formulazione. Significa non rendersi conto che l’ottocentesca cultura positivistico-legalistica ha ceduto il passo ad un modo d’intendere il diritto che ne esige la corrispondenza all’arca dei valori metalegislativi custoditi in quelle super-leggi che sono le costituzioni democratiche contemporanee. Come dire che il diritto positivo non si legittima per il solo fatto di essere posto da determinati organi e con certe procedure.

Non a caso, gli ultimi vent’anni e passa di concertazione sociale, di patti triangolari, di leggi prenegoziate sono serviti a favorire una evoluzione normativa il cui gradualismo permette di dire che, se il diritto del lavoro non è ancora quel che sarà, neanche è rimasto quel che era, riducendo però al minimo storico la turbolenza sociale e la conflittualità nei luoghi di lavoro. Ecco il saldo attivo dell’esperienza che si è chiusa per decisione di un governo persuaso che la vittoria elettorale ottenuta con una legge d’impianto maggioritario lo esoneri dal ricercare consensi giorno dopo giorno, malgrado il visibile malessere che indebolisce tutte le democrazie rappresentative. Dove quote crescenti di elettorato disertano le consultazioni elettorali. Dove alle elezioni si guarda come all’occasione in cui il popolo elegge il suo monarca, scegliendo la persona che ha il carisma mediatico del leader. Dove la funzione originaria delle elezioni, quella di dare una stabile rappresentanza ai cittadini, è diventata (se non marginale certamente) secondaria. Infatti, uno dei più gravi limiti delle democrazie rappresentative è quello di essere troppo poco rappresentative, perché non promuovono un accettabile livello di partecipazione politica permanente.

In proposito, desta sensazione un dato che emerge da una indagine condotta pochi anni fa dall’Eurisko per conto del CNEL. Alla domanda “da chi ti senti meglio rappresentato nei tuoi interessi economici e professionali?” soltanto il 2% degli italiani ha risposto “dal partito che voto”, appena il 7% ha privilegiato il sindacato, mentre il 70 % ha risposto: “mi sento rappresentato esclusivamente da me stesso”. Identica però è anche la percentuale dei rispondenti favorevoli a valutare positivamente che il governo consulti i sindacati prima di prendere decisioni con ricadute sulla vita dei cittadini.

Infatti, la concertazione sociale, se non ha fatto il miracolo di restituire al principe (cioè al popolo) il suo scettro, aveva comunque il merito di avere aperto un circuito informale di natura extra-costituzionale capace di innestare sulla tradizione della democrazia rappresentativa processi partecipativi ad integrazione del funzionamento delle assemblee elettive. Come dire che la concertazione non era una malattia. Piuttosto, era un sintomo della più diffusa malattia dei sistemi politici.

Ciò non toglie che, come succede non di rado, le medicine possano produrre effetti collaterali indesiderati. Anche la concertazione li ha prodotti. Perché ha contribuito a far emergere disfunzioni che contraddicono l’esigenza di una efficiente governabilità e, in conseguenza, la voglia di una forma di governo più definita quanto a poteri e responsabilità dei governanti. Troppo lunghe e spesso inconcludenti le procedure, troppi gli attori in un coro senza guida, troppi i consensi richiesti per decisioni che non si prendono o sono rinviate a momenti migliori che non arrivano mai. Quando tutto questo diventa stanca routine, è un errore decidere, come invece si è deciso nel 1998, di rivitalizzarla iniettandovi robuste dosi di una ideologia della cooptazione del sindacato nelle istituzioni che ha finito per farne un ostaggio e far perdere di vista che la concertazione non è che un metodo empirico di formazione della volontà politica dei decisori pubblici.

Come dire che si deve anche all’overdose concertativa e ad un giudizio negativo su di essa se gli italiani hanno spazzato via con ripetuti referendum la legge elettorale d’impianto proporzionale che sagomava da cinquant’anni la rappresentanza politico-parlamentare e, fiduciosi che al di sotto dei dissensi esistesse il collante di un nucleo di valori condivisi, hanno premiato un modello della democrazia dell’alternanza prossimo alla democrazia d’investitura.

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E’ in questo contesto che ritorna la domanda: dove va il diritto del lavoro?

Di sicuro, le cose non potranno più essere semplici e chiare come potevano sembrare in passato.

In passato, nessuno dubitava della sostenibilità dei vincoli di solidarietà tra le generazioni. Si sapeva che, nel quadro di un processo incrementale di diritti e garanzie praticamente illimitato, le regole del lavoro dei padri si sarebbero trasmesse automaticamente ai figli. La cosa era possibile perché il lavoro si declinava al singolare e il vestitino confezionato a misura della sua taglia andava bene a tutti e per tutte le stagioni: stesso lavoro, stessi diritti. E anzi di più. Le giovani generazioni infatti consideravano un punto di partenza il punto di arrivo delle vecchie.

E’ ancora così? Queste riposanti certezze sono ancora credibili quando il lavoro si declina al plurale? Adesso che il lavoro non è più la dimensione dominante nella formazione degli individui, quanti di loro avranno ancora la possibilità di entrare nel cono di luce emesso dall’etica privata – spirito di sacrificio, disciplina, senso del divere – e dalle pubbliche virtù che segnarono l’ascesa, da sudditi a cittadini, dei produttori subalterni? A cosa serve continuare a custodire nella memoria collettiva il mito sacrificale della laboriosità industrialista che doveva portare la classe operaia in Paradiso? Perché colpevolizzarli, “i figli della libertà” come li chiama Ulrich Beck, se si dicono inclini ad attribuire al lavoro un significato soltanto strumentale? Il lavoro che trovano è occasionale, precario, saltuario, povero di effetti socializzanti che non siano distorsivi e, ad ogni modo, sono meno devastanti di quelli inflitti all’incalcolabile massa degli occupati nell’economia sommersa e illegale.

In un contesto del genere, è naturale che le giovani generazioni si innervosiscano se presagiscono che anche i più scolarizzati dovranno comportarsi come trapezisti a cui sia ordinato di volteggiare senza rete anche in età avanzata o correre a perdifiato come levrieri all’inseguimento di una lepre finta irraggiungibile. Ed hanno ragione ad agitarsi, perché ci sono dei diritti fondamentali che non riguardano il lavoratore in quanto tale, bensì il cittadino che dal lavoro si aspetta reddito, sicurezza e, se un dio lo assiste, identità.

Per questo, gradirebbero assetti regolativi capaci di seguire la persona nelle sue attività, senza che sia il concreto contesto nel quale l’attività si iscrive – ossia, il modo di lavorare – ad imporre il confine della tutela.

Sarebbero interessati a misure di sostegno del reddito quando il lavoro non possa esserne la fonte in misura equa e sufficiente; pur evitando le estremizzazioni del peggiore familismo – come quella di ritenere, con l’indulgenza di una recente pronuncia della Corte di Cassazione, che “non c’è colpa nella condotta di un giovane, specialmente se di famiglia agiata, che rifiuta un posto di lavoro inadeguato alle sue aspirazioni”. Vorrebbero che – in un paese come l’Italia ove una rigida finalizzazione delle regole del lavoro alla difesa contro il mercato ha fatto crescere la richiesta di misure di difesa dentro le dinamiche del medesimo – si creasse un complesso funzionale e funzionante di istituzioni formative attrezzate per fornire adeguate chances di occupabilità nel lavoro; un lavoro che può cambiare nel tempo e può essere autonomo o subordinato.

Amerebbero che all’uguaglianza intesa come riequilibrio del dislivello di potere sociale intrinseco al rapporto di lavoro si affiancasse una uguaglianza intesa come pari opportunità di scegliere e mantenere anche nel rapporto la propria differente identità.

Alle domande che provengono da irrequiete platee giovanil-femminil-scolarizzate non si risponde innalzando pile di materassini di gomma in prossimità delle curve più pericolose del percorso esistenziale. A questo possono pensarci – e difatti ci pensano, ci pensano eccome – i genitori con reddito da lavoro stabile e speranza di arrivare alla pensione, che vedono prolungarsi l’obbligo di mantenimento dei figli ben oltre la laurea. Ma i governanti, no. Essi hanno la responsabilità di modificare lo stesso itinerario e provvedere affinché sia percorribile.

Nessuno pretende performances di fervore immaginativo. Anzi, un surplus di creatività non sarebbe che un indizio sicuro del loro analfabetismo costituzionale. Infatti, l’itinerario è già tracciato, anche se i principi-guida sono congelati in una Costituzione-frigorifero come quella scritta nel 1948. Costituzione presbite, la definì Enzo Cheli, perché la generazione dei costituenti aveva visto chiaramente più nel lungo periodo che nell’immediato.

Pertanto, tutto ciò che si esige dai governanti di oggi è di rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. “La ragione per cui ci tenevo ad inserire nel testo costituzionale” una norma come questa, ripeteva spesso Lelio Basso, “è che essa smentisce tutte le affermazioni della costituzione che danno per realizzato quel che è ancora da realizzare”.

Come dire che ai governanti di oggi chiediamo di comportarsi in modo da consentire al tempo di essere galantuomo, permettendo così alla Costituzione di correggere finalmente il vizio del suo originario presbitismo.

Viceversa, è di moda parlare della Costituzione non per attuarla. Bensì per cambiarla. Un pezzo alla volta e, magari, ad ogni cambio di maggioranza parlamentare.

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Come ogni altra Costituzione, anche la nostra è esposta al pericolo di trasgressioni multiple e non sempre i rimedi praticabili sono adatti a reprimerle con efficacia.

E’ inattuazione non solo congelare istituti costituzionalmente previsti: come è capitato per molti anni all’Alta Corte, al CSM, al sistema delle autonomie territoriali. E’ inattuazione non solo emanare disposizioni incostituzionali o non mettere al passo con la Costituzione le leggi antecedenti. Inattuazione è anche adottare provvedimenti che, nell’ambito delle possibilità offerte dal compromesso costituzionale, scelgono la più scialba (come è successo con l’istituzione del CNEL) o, peggio, sono a doppio fondo, perché si richiamano alla Costituzione e alla sua scala di valori fondativi nello stesso momento in cui ne provocano o ne assecondano la delegittimazione.

Proprio questa è l’inattuazione più pericolosa, perché è misurabile non solo e non tanto col metro del legalismo, bensì sul terreno della legalità democratica intesa come attitudine del potere pubblico di raccogliere e stabilizzare la più vasta aggregazione possibile di interessi e consensi; un’attitudine che oggi è sottoposta a durissime prove perché il valore prescelto come fondamento dello Stato ha perduto centralità e smalto.

Infatti, il secolo del Lavoro – “maiuscolo, vale a dire salariato, produttivo, manifatturiero” – lo abbiamo alle spalle, mentre in quello che ci sta di fronte il lavoro si declina al plurale e, per quanto frammentato e diversificato, non ce n’è per tutti in eguale quantità e qualità. Questa, però, non è una buona ragione per rileggere l’incipit della costituzione come se ci fosse scritto che la Repubblica italiana è fondata sui lavoretti.

Pertanto, in una situazione in cui le antiche certezze si sgretolano spetta ai giuristi ammonire che nessuna Costituzione può piegarsi a tutti i mutamenti di contenuto richiesti da variazioni del contesto originario. Specialmente una Costituzione che, come la nostra, non intendeva dare vita ad una “democrazia agnostica”, bensì “ha assunto come sua direttiva la realizzazione di una democrazia sostanziale rivolta a consentire lo svolgimento, per quanto più possibile pacifico, di quel movimento grandioso che è dato dall’immissione nella vita dello Stato, con funzioni di protagoniste, delle masse del lavoro” (Mortati).

Insomma, non basta convincersi che la figura del produttore elevata a simbolo della laboriosità dalla cultura marxista non meno che da quella cattolica si è sgualcita e dunque è anacronistico continuare ad innalzarla al rango di concetto generale. Né può bastare convincersi che il secolo nel quale siamo appena entrati non sarà più caratterizzato dal predominio di un sistema economico che prefigurava un modello di società ove un certo modo di produrre era diventato anche un certo modo di pensare.

Bisogna anche convincersi che, proprio perché l’area del lavoro regolare, routinizzato, continuativo, connotato dalla subordinazione coessenziale alla civiltà industriale si va restringendo e ciò contribuisce ad indebolire la coesione sociale, è giunto il momento di imprimere alla ri-regolazione del lavoro una torsione che ne sposti l’asse centrale dal terreno privatistico dei rapporti contrattuali sul terreno delle garanzie di cittadinanza, ossia dei principi inderogabili che ne sono espressione di rilevanza costituzionale – incluso quello per cui la cittadinanza non è fonte soltanto di diritti. A tal fine è del tutto irrilevante che la cittadinanza abbia perduto le caratteristiche che consentivano di qualificarla industriale. Essa resterà necessariamente industriosa ed uno Stato che si proclama fondato sul lavoro non può, senza contraddirsi, disinteressarsi dell’effettivo contributo dei cittadini al “progresso materiale o spirituale della società”.

Non a caso, il vocabolo “lavoratore” è usato dagli autori della Carta di Nizza del 2000 assai più parsimoniosamente di quanto non sia il vocabolo “cittadino” e, comunque, con una sobrietà che, al confronto con quella esibita dagli autori delle costituzioni post-liberali del Novecento, sfiora la ritrosia. Basti pensare che, nel 1947, soltanto per una manciata di voti l’Assemblea costituente non approvò la proposta di proclamare quella italiana una Repubblica di “lavoratori” piuttosto che “fondata sul lavoro”.

Nondimeno, il vocabolo conserverà egualmente nella futura Costituzione europea il significato che già possiede nella tradizione delle Costituzioni vigenti nei singoli paesi dell’Unione: continuerà a designare colui che vive essenzialmente del proprio lavoro personale, distinguendosi dall’imprenditore per il netto prevalere, nell’economia della prestazione contrattuale, del suo lavoro personale sugli altri fattori produttivi di cui si avvale per eseguirla. “Il che, se è troppo poco per dedurne senz’altro l’applicabilità di tutti gli standard protettivi a qualsiasi rapporto di lavoro, è tuttavia sufficiente di per sé a porre in dubbio che essi siano applicabili esclusivamente ai rapporti di lavoro subordinato” (Ichino).

Il giurista che per primo è riuscito a decifrare la trama di un garantismo adeguato alle mutate aspettative è stato Massimo D'Antona. Suo è il merito di avere per primo delineato la prospettiva di ri-regolare il genus-lavoro a partire non già dalla sua species più intensamente protetta, bensì dal lavoro che resta oggettivamente eguale a se stesso a prescindere dalla tipologia contrattuale. Il paradigma del lavoro senza aggettivi, infatti, consiste nel compimento di un’opera o un servizio destinati ad altri con attività esclusivamente o prevalentemente personale; un lavoro che, come quello tipicamente subordinato, può esserci o non esserci, essere cercato e non trovato o perduto e, come quello tipicamente subordinato, può realizzare, ma anche compromettere valori che appartengono al lavoratore in quanto cittadino.

Per questo, Massimo esortava a riorganizzare il corpus delle regole del lavoro “in base ad una triplice polarità: le garanzie generali del lavoro senza aggettivi; le regole comuni alla famiglia dei contratti che realizzano l’integrazione onerosa del lavoro nell’attività economica del datore di lavoro; le garanzie specifiche del rapporto di lavoro connotato dalla subordinazione”.

La prospettiva appena accennata – che ha trovato un principio di attuazione nel recente disegno di legge dell’Ulivo per introdurre diritti di sicurezza sociale in materia di tutela attiva del lavoro e del reddito – ha, mi pare, il pregio di spiazzare ogni logica di ri-regolazione del lavoro che pretenda di avvantaggiare gli outsider nella stessa misura in cui danneggia gli insider: una logica tanto grottesca quanto perfida. Come se, per far crescere i capelli ai calvi, bastasse rapare chi ne ha di più.

Falsamente ridistributiva, in realtà la logica è distruttiva nell’ampia misura in cui espone con irresponsabile spensieratezza al rischio di un inarrestabile deterioramento lo stesso modello sociale europeo.

Sabato, 19. Giugno 2004
 

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