Il declino scritto nel sistema dell'istruzione

Il problema italiano non è tanto la quantità della spesa, più o meno paragonabile a quella degli altri paesi avanzati, ma la sua composizione: sono insufficienti le risorse per l'istruzione terziaria (universitaria e post). Nelle classifiche Ocse di quel segmento siamo davanti solo a Turchia, Messico e a volte Grecia
L'Italia appare ancora vincolata al modello di istruzione emerso nel Secondo Dopoguerra, particolarmente incentrato sullo stadio primario (scuole elementari) e secondario inferiore (scuole medie inferiori). L'impegno finanziario (misurato per studente e in proporzione al PIL pro-capite) è superiore al livello OECD-UE all'inizio del percorso formativo, per poi divenirne inferiore a partire dall'istruzione secondaria superiore, con una differenza sempre più marcata nel passaggio al primo stadio (diploma di laurea) e quindi al secondo stadio dell'istruzione terziaria (dottorato di ricerca).
 
In particolare, per quanto riguarda l'istruzione terziaria, l'Italia si colloca al confine tra: da un lato, il gruppo dei Paesi (a basso PIL pro-capite) per i quali l'istruzione universitaria non rappresenta ancora o solo recentemente è diventata il target cui tentare di innalzare il livello medio di istruzione nella cittadinanza; e, dall'altro, il gruppo dei Paesi (ad alto PIL pro-capite) nei quali, ormai inglobato quel target nella struttura e nel funzionamento del sistema universitario, l'istruzione terziaria superiore è divenuta un vero e proprio strumento di politica economica, per guidare lo sviluppo e l'innovazione del sistema economico-sociale.
 
Questa posizione dell'Italia trova spiegazione nel fatto che il sistema universitario di base (diploma di laurea) e quello dell'"alta formazione" (dottorato di ricerca) sono quasi completamente sovrapposti e fortemente compenetrati, pur dovendo perseguire finalità diverse, avvalendosi anche di metodi e strumenti diversi. I programmi di individuazione dei cosiddetti "centri di eccellenza" per la ricerca e di costituzione delle "scuole di dottorato di ricerca ad alta qualificazione" (veri e propri poli off-shore), avviati da alcuni anni, mirano appunto alla creazione di un sistema di istruzione terziaria superiore e di ricerca dotato di maggiore autonomia e responsabilizzazione. Tuttavia, questo cambiamento rimane ad oggi ancora in uno stadio embrionale e non può dirsi riforma compiuta. Una tale riforma riveste invece carattere di urgenza, se si considerano alcune caratteristiche non solo del sistema di istruzione/ricerca, ma anche della struttura produttiva e del mercato del lavoro del Paese.
 
L'Italia è, all'interno dei Paesi OECD, nel contempo quello che: (a) forma il minor numero di dottori di ricerca (se si escludono Turchia e Messico); (b) manifesta il più elevato "esodo" di capitale umano per motivi di "alta formazione" con successiva stabilizzazione all'estero; (c) fa registrare la più bassa presenza di capitale umano estero all'interno dei propri corsi di dottorato. Il deficit rispetto al resto del mondo industrializzato risulta acuito se si focalizza l'attenzione sulle materie scientifiche e tecnologiche.
 
Le statistiche mostrano come si debba parlare di deficit di offerta formativa e di incapacità del sistema produttivo di valorizzare appieno il capitale umano, e non di scarsità di domanda interna di "alta formazione" o di scarsità di potenziale offerta interna di professionalità specializzate e votate all'innovazione (lo confermano i flussi internazionali sia di studenti di livello dottorale che di lavoratori nel settore S&T).
 
Il sistema produttivo e il funzionamento del mercato del lavoro sembrano essersi adeguati, in un processo di endogena interazione, alla scarsità di capitale umano di alto profilo: (a) la percentuale di ricercatori sugli occupati totali nelle imprese e al di fuori delle stesse (accademia e centri di ricerca) è in Italia la più bassa dell'area OECD, ad esclusione della Turchia e del Messico; (b) le possibilità occupazionali diminuiscono in Italia con l'aumentare del livello di istruzione oltre quello secondario (unico caso assieme alla Turchia); (c) sul mercato del lavoro italiano l'apprezzamento della formazione è inferiore alla maggior parte dei Paesi OECD, come testimoniato dalla ridotta differenza tra le retribuzioni medie ottenibili al variare del titolo di studio; (d) infine, l'Italia mostra, all'interno dei Paesi UE-15, i più alti gradi di "job-mismatches" che indicano una cattiva allocazione e un sottoutilizzo del patrimonio umano.
 
Nel confronto internazionale, l'Italia appare concentrare su di sé una molteplicità di aspetti negativi sia dello status quo che del trend, che inducono a far parlare di una sorta di equilibrio di "sottoccupazione tecnologica" o, più in generale di "sottoccupazione di capitale umano"; se non spezzato, tale equilibrio è destinato a relegare il Paese in posizioni sempre più subalterne, prima sul piano economico-sociale e poi, come conseguenza, su quello politico. E' necessaria una stagione intensa di riforme profonde, per riattivare la formazione e l'accumulazione di capitale umano di alto profilo, promuovere la ricerca e l'innovazione e il suo trasferimento nei processi produttivi e nella società.
 
Nel 2002, l'Italia dedica all'istruzione (OECD, 2005) il 4,7 per cento del PIL, in diminuzione di due decimi di punto percentuale rispetto al 1995. Oltre a collocarsi al di sotto della media OECD (5,4 con un aumento di un decimo di punto rispetto al 1995), l'Italia mostra un impegno inferiore rispetto a tutti i Paesi UE-15 eccezion fatta per Irlanda, Spagna e Grecia.  La differenza maggiore si rileva rispetto alla Danimarca (8,5 per cento; +0,8 rispetto al 1995),  alla Svezia (7,6; +0,2), alla Finlandia (6,4; -0,4). Il Regno Unito mostra un impegno pari al 5,3 per cento del PIL (in aumento di un decimo rispetto al 1995) e gli USA pari al 5,6 per cento.
 
Esiste una correlazione positiva tra incidenza sul PIL ed incidenza sul totale della spesa
pubblica. Anche in termini di quest'ultimo indicatore, l'Italia denota nel 2002 un impegno inferiore alla media: il 9,9 per cento rispetto al 12,9 dell'OECD, al 15,3 della Danimarca, al 13,1 della Svezia, al 12,5 del Belgio, all'11 della Francia. Anche il Regno Unito e gli USA dedicano maggiori percentuali della spesa pubblica all'istruzione: rispettivamente il 12,7 e il 15,2. All'interno dell'UE-15, l'Italia precede soltanto la Grecia, che dedica all'istruzione l'8,4 per cento della spesa pubblica, il valore più basso dopo la Slovacchia (8,3).
 
I dati devono essere analizzati considerando che si utilizza una definizione ampia di spesa
pubblica in istruzione. Si tratta, ad evidenza, di una definizione onnicomprensiva dell'impegno
finanziario pubblico per l'istruzione, sia diretto (tramite istituti di istruzione di natura
pubblica) che indiretto (tramite finanziamenti ad istituti di istruzione di natura privata, e
tramite il sostegno al singolo o alla famiglia finalizzato alla fruizione dell'istruzione).
 
Rispetto alla media OECD, l'Italia mostra un minor impegno finanziario sia sul lato pubblico
che su quello privato, e questo stato di fatto si ripresenta sia al livello di istruzione terziaria
che ai livelli inferiori. Particolarmente significativo è il confronto con il Regno Unito e con gli USA. Per quanto riguarda l'istruzione primaria e secondaria: l'impegno pubblico italiano è inferiore di 0,3
punti percentuali di PIL rispetto al Regno Unito e di 0,4 rispetto agli USA; il corrispondente
impegno privato è inferiore di 0,5 punti rispetto al Regno Unito e di 0,2 rispetto agli USA. Per
quanto riguarda invece l'istruzione terziaria: l'impegno pubblico italiano ha il medesimo
livello di quello del Regno Unito ed è inferiore di 0,4 punti percentuali di PIL rispetto agli
USA; il corrispondente impegno privato è inferiore di 0,1 punti percentuali rispetto al Regno
Unito e di 1,2 rispetto agli USA.
 
I dati appena esposti suggeriscono delle considerazioni che trascendono le problematiche
economico-politiche relative al dimensionamento della componente privata nell'istruzione,
perché confermano per l'Italia la complessiva minor dedizione di risorse sia attraverso il
canale pubblico che attraverso quello privato. Indicazioni simili, anche se su scala diversa, derivano dal confronto con Francia e Germania; nel primo caso rimangono valide su entrambi i livelli di istruzione; nel secondo caso soprattutto in relazione al terzo livello.
 
Appare evidente come tutti i Paesi abbiano una netta prevalenza del finanziamento pubblico
per l'istruzione primaria e secondaria (l'equivalente in Italia del percorso formativo sino alle
scuole medie superiori), mentre la componente privata si rafforza nel passaggio al livello
terziario (l'equivalente in Italia di laurea e laurea breve, dei corsi di perfezionamento non
classificabili come dottorali e del dottorato di ricerca. Al livello primario e secondario la prevalente presenza pubblica è spiegabile con gli obiettivi di equiparazione dei livelli fondamentali di istruzione. Nella maggior parte dei Paesi, infatti, questi livelli inglobano gli stadi obbligatori del percorso formativo.
 
Nel passaggio al primo stadio (la laurea, i corsi di specializzazione professionale, i master) e al
secondo stadio (dottorati di ricerca e Ph.D.) del livello terziario, l'obiettivo di equiparazione
delle capacità (eguaglianza ex-post) diviene sempre meno importante, mentre assume rilevo
quello della selezione sulla base delle capacità e delle propensioni, dell'avanzamento della
specializzazione e del perseguimento dell'eccellenza. Questo cambiamento di obiettivo finale
rende possibile una maggior presenza del canale di finanziamento privato, non per questo
riducendo tout court l'importanza di quello pubblico.
 
Ai suoi livelli inferiori, l'istruzione rappresenta un bene primario, fondamentale ai fini della capacità di esercizio dei diritti civili e carico di esternalità positive sia sulle altre attività svolgibili dal singolo diretto interessato, che su quelle degli altri componenti la sua comunità (famiglia e società). Proprio per questo motivo, lo Stato "si fa protagonista" dell'offerta di questi livelli e la sua presenza è prevalente rispetto a quella privata. Nei suoi stadi obbligatori, l'importanza fondamentale dell'istruzione ne fa un bene dalla connotazione ancor più marcata: un bene meritorio, che l'individuo è "forzato" a consumare, anche al di là delle proprie preferenze contingenti, per la rilevanza che esso ha nella formazione dell'individuo come singolo e nelle possibili aggregazioni sociali.
 
Mano a mano che si prosegue lungo il percorso di istruzione, la presenza del privato generalmente aumenta per due ordini di motivi: (a) l'affievolirsi della natura di bene primario/meritorio; (b) il conseguente avvicendamento dell'obiettivo di far raggiungere a tutti livelli uniformi di preparazione (quelli prestabiliti per i vari stadi del percorso di istruzione), con l'obiettivo di stimolare il più possibile le capacità di approfondimento, specializzazione e quindi differenziazione tra gli studenti. Quest'ultimo aspetto implica che i risultati ottenibili negli stadi alti del percorso di istruzione siano più facilmente identificabili e appropriabili, sia dall'istituzione formatrice (in senso lato, non necessariamente solo sul piano economico) che dallo studente in formazione. Quest'ultimo aspetto, inoltre, costituisce la principale differenza tra le ragioni della presenza del privato rispettivamente ai livelli inferiori (sino alla secondaria o al primo stadio della terziaria) e a quelli superiori (dal secondo stadio della terziaria in poi) dell'istruzione.
 
Infatti, il vincolo di programmi prefissati e l'obiettivo di realizzare il più possibile l'equiparazione ex-post delle nozioni e delle capacità fanno sì che la domanda e l'offerta di istruzione privata siano, negli stadi iniziali, motivate nella maggior parte dei casi da elementi estranei ai contenuti formativi tout court: la presenza di materie facoltative, l'accoglienza/efficienza delle strutture, la possibilità di praticare sport, la vicinanza nel quartiere, la rispondenza ad interessi/valori di comunità o gruppi sociali. Ai livelli superiori, invece, diviene prevalente il perseguimento del massimo risultato ottenibile, tramite la diversificazione e l'approfondimento dei programmi, il vaglio e la selezione e la successiva capacità di distinzione sul mercato del lavoro.
 
Non si deve sottovalutare l'importanza di flussi redistributivi anche a livello di "alta formazione", necessari a rendere indipendente lo sviluppo delle capacità e l'emersione dell'eccellenza dalle possibilità economiche. Quello che rileva è il diverso obiettivo finale: un livello il più possibile equiparato di capabilities ai livelli iniziali dell'istruzione (eguaglianza ex-post), ed un livello il più possibile specializzato e diversificato ai livelli più elevati (diversificazione e specializzazione ex-post).
 
I dati elaborati dall'OECD permettono di evidenziare come, rispetto alla media OECD, l'Italia attualmente abbia un maggior presidio nelle fasi di istruzione primaria e secondaria, per poi diminuire il suo impegno nel passaggio alla fase terziaria.
 
In conclusione, il finanziamento dell'istruzione in Italia appare condizionato all'assetto
storico e tradizionale del sistema di istruzione, particolarmente concentrato sulla scuola
elementare e media inferiore (quelli che erano gli obiettivi di equiparazione culturale adottati
nelle politiche dell'istruzione dal Secondo Dopoguerra), e rimasto poco reattivo sia di fronte
alla evoluzione sociale (diffusione dell'istruzione e innalzamento delle aspirazioni) e
demografica (riduzione della natalità e assottigliamento delle fasce d'età giovani), sia di
fronte all'ampliamento e all'approfondimento dei percorsi di formazione (avanzamento delle
conoscenza in senso lato e crescita della domanda di "alta formazione").
 
Un ritardo rispetto all'evoluzione sociale si coglie anche a livello di istruzione pre primaria, dove l'organizzazione formale si colloca poco al di sopra della media OECD e non riceve lo stesso impegno finanziario dei due stadi successivi (primario e secondario inferiore), probabilmente facendo affidamento sulla presenza della famiglia. Una analisi approfondita delle statistiche dell'istruzione pre primaria dovrebbe considerare non tanto le risorse per effettivo beneficiario, ma quelle per potenziale beneficiario, in modo tale da cogliere gli effetti del possibile razionamento della domanda, in uno stadio in cui la frequenza non è ancora obbligatoria e spesso la famiglia o altre relazioni sociali suppliscono all'inadeguatezza dell'offerta.
 
In termini di classificazione economica, ai primi due livelli l'istruzione costituisce un bene primario/meritorio, cioè un bene la cui fruizione, per l'estrema importanza che essa riveste all'interno dell'equilibrio economico-sociale e ai fini del riconoscimento dei diritti civili, deve essere estesa al maggior numero di cittadini. Per questo motivo, nella misura in cui la crescita del PIL pro-capite è un indicatore di sviluppo non solo economico ma anche sociale, le risorse dedicate ai primi due livelli di istruzione aumentano corrispondentemente. Inoltre, ai primi due livelli di istruzione la spesa è costituita principalmente dalle retribuzioni degli insegnanti, che crescono verosimilmente in linea (soprattutto nel comparto pubblico, quello largamente più presente proprio in questi livelli) con il tasso di crescita del PIL. Questo aspetto rafforza il collegamento tra PIL e spesa in istruzione primaria e secondaria.
 
In sintesi, anche questi ultimi dati confermano l'osservazione precedentemente fatta: in Italia
la politica dell'istruzione è rimasta in un certo senso "vincolata" all'obiettivo principe che
essa si era prefissa all'inizio della seconda metà del secolo scorso, senza rinnovarlo
significativamente, sia per spostare in avanti il target cui realisticamente tentare di innalzare il
livello medio, sia per dare corpo ad un sistema di istruzione avanzata, selettiva nei metodi e
con l'obiettivo della specializzazione e della preparazione alla R&S.
In un certo senso, l'organizzazione del sistema universitario ha dovuto da sempre rispondere
a due obiettivi diversi e per molti aspetti apertamente configgenti tra loro: da un lato
l'innalzamento del livello medio dell'istruzione (quella che si è definita come prosecuzione
naturale dell'istruzione secondaria); dall'altro quello della selezione e della specializzazione
per l'avvio all'attività di ricerca.
 
La riforma del "3+2", attivata negli scorsi anni, ha in parte inteso incidere proprio su questo
snodo cruciale, soffrendo tuttavia di alcuni limiti che al momento ne rendono poco efficaci i
cambiamenti. E', non a caso, una delle principali critiche mosse all'organizzazione dei dottorati di ricerca in Italia: sovrapposti e "incastonati" nel funzionamento dell'università di base, di cui ancora condividono la totalità delle strutture e del corpo docente e in alcuni casi anche porzioni di programmi didattici, non hanno potuto perseguire appieno, con diretta responsabilità decisionale, l'obiettivo dell'"alta formazione", della preparazione alla ricerca e del collegamento con il tessuto produttivo.
 
Nella loro quasi ventennale esperienza di vita, i dottorati italiani si sono contraddistinti più come scuole di formazione/cooptazione di futuri professori (nella maggior parte dei casi presso le medesime sedi universitarie di svolgimento dei corsi di dottorato), che come centri di ricerca e di avanzamento delle conoscenze.
 
Alcuni recenti lavori (cfr. Alesina, 2005; Gagliarducci, Ichino, Peri, Perotti, 2005; Perotti, 2005) mostrano come la posizione dell'Italia cambi significativamente se, in luogo del numero totale di studenti iscritti, si considera il numero di coloro che realmente frequentano a tempo pieno. Così facendo, l'impegno finanziario in istruzione terziaria dell'Italia aumenta rispetto alla media internazionale, e l'Italia si colloca completamente all'interno dei Paesi ad alta spesa per studente ed alto PIL pro-capite.
 
Ben lungi dal rappresentare un aspetto positivo, questo dato riveste importanza fondamentale perché rivela un'inefficienza di fondo del sistema di istruzione terziaria (ivi incluso il dottorato di ricerca) tale da rendere equivoco il suo stesso obiettivo formativo. Gli studenti non frequentanti o frequentanti parzialmente, infatti, comportano comunque dei costi e incidono sulla disponibilità delle strutture, delle attrezzature e dei docenti, senza utilizzare appieno le potenzialità formative del sistema.
 
E' vero che, come alcuni fanno notare, è di per sé una flessibilità positiva quella di permettere l'iscrizione ai corsi universitari senza obbligo di frequenza, per favorire tutti coloro che, in qualunque condizione e a qualunque età, vogliono intraprendere un percorso di studi, misurandosi di volta in volta con il superamento degli esami e con la preparazione di un lavoro finale. Tuttavia, questa flessibilità non può divenire la regola assoluta o prevalente di funzionamento del sistema universitario e giungere a pesare così tanto nelle statistiche universitarie. Se così avviene, ciò è sintomo di un grave errore di percezione da parte del singolo dei costi del sistema universitario e dei benefici della sua corretta e completa fruizione.
 
Nel caso di dottorati di ricerca senza corsi o con corsi non obbligatori emerge addirittura il paradosso di un sistema che finanzia l'"alta formazione" senza creare una effettiva struttura di ricerca, e anzi implicitamente o esplicitamente spinge il capitale umano a rivolgersi altrove, utilizzando la borsa di dottorato a copertura dei costi di iscrizione e permanenza presso università straniere. In quest'ultimo caso, la distinzione tra studente non frequentante e studente frequentante è impropria o molto meno utile che per l'istruzione universitaria di base, perché la spesa è sostenuta in entrambi i casi, anche se quelle risorse non concorrono interamente alla costruzione di un sistema di ricerca in loco. Si rimarca sin da ora la necessità di non intendere questa critica come basata su infondate pretese "neo-nazionalistiche" o "neo-autarchiche"; quello che rileva è semplicemente la capacità di utilizzare le risorse disponibili per la costruzione di un sistema di ricerca in grado di agire da protagonista a livello internazionale e dotato del massimo grado di apertura a livello internazionale.
 
Per leggere il saggio in versione integrale e completo di tabelle e grafici:
Mercoledì, 25. Gennaio 2006
 

SOCIAL

 

CONTATTI