Il crocifisso e i poveri cristi

Nessuna imposizione e nessuna cancellazione. La possibilità di dar seguito all’eventuale richiesta di affiancare il crocifisso con altri simboli religiosi. Uscire dalle strumentalizzazioni come quelle della Lega Nord. L'assegno per il figlio spetta a Marina Berlusconi ma non alla sua colf filippina
Quasi trent'anni fa, nella convulsa fase finale del regime franchista, in tutte le chiese spagnole comparve un manifesto della Conferenza episcopale, nel quale campeggiava uno slogan provocatorio: "Chi fa della Croce un'arma non serve Cristo. Chi serve?". Mi è tornato alla mente, quel manifesto, in questi giorni di nuova, accesa discussione sul crocifisso nelle scuole. I fatti sono noti. Un esponente delle comunità islamiche in Italia, Adel Smith, conosciuto per il suo estremismo non privo di venature fondamentaliste, dopo aver inutilmente chiesto che nella classe frequentata dai suoi figli un simbolo islamico affiancasse il crocifisso, si è rivolto al giudice per ottenere la rimozione di tutti i simboli religiosi dalle aule di quella scuola. Il giudice dell'Aquila gli ha dato ragione e, salvo ricorsi ad altre istanze, il crocifisso dovrà essere rimosso dalle aule di quella scuola abruzzese. La reazione è stata pressoché unanime, contro Smith, contro il giudice e a difesa del crocifisso. In effetti Smith ha sbagliato, come hanno riconosciuto anche molti autorevoli esponenti della comunità islamica. Ha sbagliato, paradossalmente, anche nel difendere le sue ragioni. E' vero infatti che il nuovo Concordato ha abolito il concetto di "religione di Stato". Ed è vero che questo nuovo contesto giuridico rende meno certa la (si passi il termine) "posizione giuridica" del crocifisso nelle aule scolastiche. Ma è anche vero - e di questo Smith non ha tenuto conto - che proprio l'indebolimento del supporto "di Stato" al crocifisso ne esalta, almeno potenzialmente, il fondamento identitario-comunitario. E' precisamente quello che è successo, con la quasi unanime reazione alla provocazione di Smith. Il suo è parso un attacco non già allo Stato, ma alla società, alla comunità nazionale, alla sua identità, a quel crociano "non possiamo non dirci cristiani" richiamato dal Presidente Ciampi. Anche questo sentimento, per la verità e pur con tutto il rispetto per chi lo prova sinceramente (e non strumentalmente), va maneggiato con cura. La Croce non è un'arma in mano allo Stato, ma ci si deve guardare dal farla ritornare tale, in mano ad una comunità civile che voglia usarlo come fattore identitario. L'identità è infatti anche differenza. E il crocifisso non può fondare la differenza, se non a prezzo di negare se stesso: il significante (il crocifisso) smentirebbe il significato (l'amore universale di Dio). "Cristo è morto per tutti", gridava don Mazzolari. Anche per chi lo rinnega. Anche per i comunisti, quando parlava don Primo. Anche per i fondamentalisti musulmani, oggi. Il problema è, allora, quello di come evitare che si apra, attorno al crocifisso, una disputa che può rapidamente diventare blasfema. L'unico modo per farlo, a mio modo di vedere, è quello di seguire il filo d'Arianna del nuovo Concordato, che per l'appunto supera il concetto (anticristiano) di "religione di Stato". Se non c'è più la religione di Stato, non ha più senso imporre per legge il crocifisso nei luoghi "di Stato". Del resto, con la legge sull'autonomia scolastica non c'è più neppure la scuola "di Stato". La scuola diventa luogo pubblico di vita della comunità locale, luogo nel quale la cultura nazionale viene rielaborata e trasmessa anche sulla base dell'attenzione alle dinamiche culturali, sociali e civili della comunità locale stessa. Si potrebbe allora immaginare una normativa quadro che disciplini la presenza nelle scuole di simboli religiosi, affermando criteri generali, piuttosto che norme puntuali e prescrittive. E tra i criteri generali, il primo dovrebbe essere quello del rispetto della libertà di coscienza, il secondo la valorizzazione del pluralismo. Nessuna imposizione quindi, ma anche nessuna cancellazione. Piuttosto, il dialogo, il confronto, l'educazione alla convivenza e al rispetto reciproco. La laicità della nostra Costituzione non è la laicità repubblicana francese: se in Francia si preferisce la neutralità dello Stato (e dunque si prescrive, non senza difficoltà, l'assenza di riferimenti religiosi), la tradizione italiana dovrebbe essere piuttosto tradizione di compresenza, nella libertà, nella tolleranza, nella valorizzazione della differenza. Si lasci, di norma, il crocifisso nelle scuole, in forza della tradizione e non della legge positiva (che non potrebbe prescriverlo). Si ascolti la comunità locale (le famose "famiglie" con le quali la scuola dovrebbe collaborare) e si dia seguito serenamente alla eventuale richiesta di affiancare il crocifisso con altri simboli religiosi. Si eviti, ad ogni modo, di strumentalizzare il delicato tema del dialogo interreligioso per dare nuovo fiato all'intolleranza e al fondamentalismo: musulmano, ebraico o cristiano che sia. Guai, soprattutto, se la religione cristiana fosse utilizzata, rinnegandone il senso, come strumento di ostilità nei riguardi degli immigrati. E' quello che ha cercato di fare in questi giorni la Lega Nord, per rilanciare l'offensiva contro le aperture di Gianfranco Fini e di Alleanza nazionale ad una concezione meno avara nei riguardi degli immigrati: una concezione che finalmente considera preferibile la loro stabilizzazione e integrazione, piuttosto che la precarizzazione della loro presenza. Il voto amministrativo, come tappa intermedia verso la piena cittadinanza è in questo senso un'apertura da accogliere e valorizzare. Così come è da valorizzare l'ammissione da parte del ministro dell'Interno, Pisanu, per la quale la legge Bossi-Fini, accanto ad elementi di forza, manifesta elementi di debolezza che vanno corretti, in un'ottica che consideri gli immigrati come una risorsa più che come un problema. Che gli immigrati siano una risorsa è sempre più vero a livello globale, prima ancora che nazionale. Con il loro lavoro - di solito un lavoro così duro e malpagato che nessuno di noi vuole più fare, gli immigrati non solo contribuiscono al nostro Pil e all'equilibrio del nostro sistema previdenziale. Con il loro lavoro gli immigrati aiutano i "poveri cristi" rimasti nei Paesi di loro origine, assai più di quanto non riescano a fare i nostri Stati e le nostre imprese. Le rimesse degli immigrati, ha detto il ministro Pisanu in Senato, costituiscono ormai il principale flusso finanziario dal Nord al Sud del mondo. Come dire che sono i più poveri del Nord quelli che più contribuiscono ad aiutare il Sud: "un dato - ha commentato Pisanu - che dovrebbe farci arrossire". Peccato che non si riesca a scorgere alcuna traccia di rossore sulle gote di un Governo che ha presentato una manovra finanziaria 2004 che riduce ulteriormente i già risibili stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo. E peccato che il "decretone" escluda le donne extracomunitarie dall'accesso alla provvidenza di mille euro "una tantum" per il secondo figlio, prevista per tutte "le cittadine italiane e comunitarie", anche le più benestanti. Potrà così capitare, per fare solo un esempio, che la signora Marina Berlusconi, qualora decida di rendere nonno per la seconda volta il nostro Presidente del Consiglio, possa richiedere al Comune i mille euro, al contrario della sua colf filippina che ne sarebbe esclusa. Alle nostre rimostranze in Commissione Bilancio, i senatori della Casa delle libertà, senza arrossire, hanno risposto che "tanto quelle (le donne extracomunitarie) di figli ne fanno già tanti". Un provvedimento in favore della maternità, modesto per il suo ammontare e ipocrita perché pagato abbondantemente dal parallelo taglio dei servizi sociali, è diventato così un provvedimento a difesa della razza. Gesù crocifisso, perdonaci.
Lunedì, 3. Novembre 2003
 

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