Il CPE tradotto in italiano

Proposte analoghe a quelle francesi sono state formulate anche da noi. Partendo da presupposti molto discutibili e prefigurando effetti non certo vantaggiosi per i lavoratori
Il diffuso e convinto sostegno popolare - che, da alcuni mesi a questa parte, in Francia si va consolidando - alla mobilitazione di milioni di studenti e lavoratori, in opposizione al premier Dominique de Villepin, per il provvedimento che introduce il Cpe (contrat de premier engagement), ci trasmette una inequivocabile conferma, insieme ad un messaggio di speranza.

La prima è rappresentata dal fatto che il postulato governativo - secondo il quale un lavoro "qualsiasi" è sempre preferibile allo stato di disoccupazione, anche se si tratta di rinunciare a qualche diritto - esprime una concezione molto cinica di un rinnovato diritto del lavoro, da piegare alle esigenze di un "nuovo welfare", che, in Francia come in Italia, molti cercano di affermare.

In questo senso, nel nostro paese, abbiamo dovuto prendere atto del "nuovo corso" attraverso le pagine della Gazzetta Ufficiale. Ciò è avvenuto al momento della pubblicazione del decreto legislativo 276/03, applicativo della legge-delega 30/03.
Infatti vi si dichiara, per la prima volta nella storia della legislazione del lavoro italiana, che le norme in esso contenute sono state elaborate al fine di soddisfare le "esigenze" delle aziende e le "aspettative" dei lavoratori (art. 1, comma 1, del decreto legislativo).

Il messaggio di speranza è rappresentato dalla prova che non siamo soli nel tentare di escludere che la, pur plausibile, esigenza del ricorso alla flessibilità sia, sempre e comunque, coniugata ad un lavoro "aggettivato": temporaneo, intermittente, discontinuo. Un lavoro - inevitabilmente - destinato a sconfinare in una condizione di precarietà.

Tale è, purtroppo, quella che si prospetta ai giovani francesi attraverso il ricorso al contratto di prima assunzione. Uno strumento, riservato ai minori di 26 anni, che dà alle aziende la possibilità di licenziare senza motivo, per un periodo di due anni, i neo-assunti.

Una divagazione, mi riporta alle parole di un autorevole dirigente sindacale francese: "Vorrei proprio sapere in quale paese al mondo i giovani devono pagarsi da soli la loro formazione", che commentava la rivolta degli studenti contro i provvedimenti (poi revocati) con cui il governo Balladour, nel 1995, aveva introdotto il salario d'ingresso per i giovani al primo lavoro.

Tornando al nostro tema, senza però mancare di rilevare che il collega francese, evidentemente, dimenticava che quel paese si chiama(va) Italia, mi preme evidenziare che quanto avviene ai nostri confini, ha già trovato autorevole eco nel nostro paese.
Infatti, la soluzione prevista dal premier francese ha una notevole assonanza con una proposta avanzata - alcune settimane or sono, dalle pagine di uno dei maggiori quotidiani nazionali - da due brillanti studiosi italiani con il nobile scopo di superare il "dualismo" che, a loro parere, separa i lavoratori con rapporto di lavoro a tempo indeterminato da quelli che ne sono privi e lo auspicano. La loro ipotesi di lavoro si propone di conseguire l'obiettivo indicato, attraverso tre "direttrici".

In estrema sintesi: la prima è rappresentata dall'idea di procedere alla individuazione di alcuni diritti minimi - da generalizzare a favore di tutti i rapporti di lavoro (riducendo, nel contempo, la miriade di nuove tipologie contrattuali previste dal 276/03) - e lasciare alle parti (datore di lavoro ed "aspirante" prestatore d'opera) la possibilità di elaborare qualsivoglia figura contrattuale.

Rispetto a questo primo punto, me la cavo con una battuta. Una soluzione di questo tipo, pare corrispondere ad una logica secondo la quale: strappare i capelli a coloro i quali ne hanno in quantità sufficiente, al fine di confezionare parrucche da destinare a quanti ne sono sprovvisti, significa affermare un principio di equità sociale.

La seconda, che rinvia alla diffusa idea secondo la quale il differenziale di produttività tra Nord e Sud del nostro paese sia da addebitare, in sostanza, unicamente ai lavoratori meridionali, piuttosto che ad una serie di carenze di tutt'altra natura, prevede di differenziare i salari, su base regionale o, almeno, interregionale.

La terza direttrice, che, a mio parere, ci riporta alla legittima protesta dei giovani (e non solo) studenti e lavoratori francesi, prevede di aumentare la durata del cosiddetto "periodo di prova", portandolo a due anni. Il tutto dovrebbe consentire, secondo i sostenitori di tali ipotesi, di superare il dualismo che esisterebbe tra quelli che qualcuno definisce core-workers e i marginali.

Premesso che non sono tra coloro i quali pensano alla flessibilità del lavoro come ad un reato, o, almeno, un tabù, contro il quale fare fronte comune con quanti ritengono che il solo nominarla, prima ancora di condividerla e/o praticarla, evochi il ritorno alla schiavitù del lavoro, condivido le motivazioni addotte da quanti ritengono indispensabile contrastarne un utilizzo "a senso unico".

Da questo punto di vista, l'aumento del periodo di prova risulta non condivisibile per almeno due motivi.

L'uno, dettato dal fatto che, se lo spirito della proposta è quello di consentire al datore di lavoro di avere più tempo a disposizione, per verificare la "affidabilità" personale e professionale del lavoratore, prima di sottoscrivere un contratto di lavoro a tempo indeterminato, ciò è già abbondantemente consentito dalla ampia disponibilità di tipologie contrattuali; anche se si dovesse procedere, come auspicato dai due autori, ad una drastica riduzione delle stesse. Questo in virtù della banale considerazione che la vera e propria "controriforma" della normativa relativa ai rapporti di lavoro a tempo determinato - operata attraverso il sostanziale superamento delle causali "oggettive", che in passato ne limitavano e regolamentavano l'uso, e la mancata previsione di qualsiasi limite massimo di utilizzo - finisce con il rappresentare, in sostanza, lo strumento attraverso il quale, già oggi, il lavoratore è sottoposto ad un periodo di prova enormemente più lungo di quello previsto da qualsiasi contratto collettivo di lavoro.

Per quanto attiene al secondo motivo di dissenso, confesso che esso è (forse) dettato da una maliziosa e malevola interpretazione. In pratica, a parere di chi scrive, un corposo aumento della durata del periodo di prova finirebbe con il rappresentare un sostanziale "aggiramento" della legge 108/90; un effetto ancora più dirompente di quello rappresentato dal tentativo, per fortuna "sopito", di derogare dall'art. 18 della legge 300/70.

Infatti, come a tutti noto, la legge dell' 11 maggio 1990 estese l'obbligo di motivare il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo anche ai datori di lavoro che occupano meno di 15 dipendenti; contemporaneamente, una delle eccezioni è rappresentata dal licenziamento del lavoratore nel corso del periodo di prova.
Questo significa, evidentemente, che un eventuale aumento della durata del periodo di prova corrisponderebbe alla possibilità di dilatare in misura notevolissima, rispetto a quello attuale, lo spazio di "licenziabilità" senza giusta causa o giustificato motivo.
E', in sostanza, la prospettiva rispetto alla quale milioni di giovani transalpini tentano di non essere costretti a soccombere.
Martedì, 4. Aprile 2006
 

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