Il Continente è isolato: vada avanti senza Blair

Bisogna prendere atto che l'Inghilterra ha interessi economici che divergono dalla costruzione europea: la crisi può essere superata per iniziativa di un nucleo di paesi dei quali non è realistico che essa faccia parte, che hanno invece interessi comuni e che devono accelerare verso l'integrazione politica

Al termine della recente riunione di Bruxelles sulla formazione del bilancio 2007-2013, il presidente di turno, il luxemburgese Jean-Claude Junker, prendendo atto degli esiti fallimentari della consultazione, ha affermato che l'Unione Europea è in crisi profonda.

Il conflitto emerso a Bruxelles non è nuovo e di per sé non rappresenta un segnale di crisi. La scadenza per la definizione delle linee su cui costruire il bilancio dell'Unione Europea nel sessennio 2007-2013 è lontana (aprile 2006) e le discussioni su questi temi sono state tradizionalmente conflittuali (specie quelle sulla Politica Agricola Comunitaria e il rebate inglese) senza che si sia parlato, nelle occasioni precedenti, di crisi. Se oggi invece se ne parla, non è per i conflitti sul bilancio, ma per la mancanza di chiarezza sul ruolo e le prospettive future dell'Unione Europea e per il complesso di altri problemi che ha prodotto i risultati negativi dei referendum sulla Costituzione europea.

I governi francesi hanno sempre tenuto in alta considerazione le richieste degli agricoltori, per il sostegno politico che essi ricevono dai loro connazionali allorchè reclamano protezione per le loro produzioni. L'agricoltura contribuisce solo per il 4% al prodotto interno francese, ma sono rilevanti i settori connessi alla trasformazione e alla vendita dei prodotti agricoli e l'attaccamento della cultura francese alle tradizioni rurali, a quelle culinarie ad esse connesse, allo stile di vita dei paesini di campagna e ai loro mercati locali.

I governi francesi hanno sistematicamente richiesto che la Politica Agricola Comunitaria riservasse abbondanti risorse alle loro produzioni. La Politica Agricola Comunitaria assorbe il 40% della spesa dell'Unione Europea, ma la quota di popolazione che trae sostentamento dall'agricoltura si aggira intorno al 5%. La sproporzione tra numero di beneficiari e ammontare dei benefici concessi è evidente e difficilmente difendibile. Richiamando questi dati, la Thatcher ebbe buon gioco nel richiedere e ottenere un rebate (una restituzione) del contributo dell'Inghilterra al bilancio dell'Unione Europea (rebate peraltro ottenuto in un periodo di crisi per l'economia inglese e di resistenza interna alla partecipazione alla Comunità Economica Europea).

Anche il rebate è difficilmente difendibile, come lo stesso Blair ha ammesso in occasione della riunione di Bruxelles. Esso consente all'Inghilterra, quarto paese dell'Unione Europea nella classifica del reddito pro capite, di collocarsi al nono posto nella classifica dei contribuenti al bilancio dell'Unione. Quando, alla fine della riunione di Bruxelles, Chirac ha accusato Blair di curare solo gli interessi del proprio Paese, questi ha risposto che se è necessario rivedere i termini del rebate, è altrettanto necessario aprire una discussione generale sui fini e le prospettive dell'Unione e ridefinirne conseguentemente la composizione del bilancio, sia in entrata che in uscita.

La risposta di Blair alle critiche di Chirac in apparenza apre l'orizzonte del dibattito e  affronta la questione assumendo il punto di vista dei cittadini europei, il cui interesse attuale è considerare le questioni di fondo del ruolo e delle prospettive dell'Unione e della democrazia e della distanza dei centri decisionali dalle popolazioni. La considerazione di questi temi non va poi disgiunta dalle implicazioni economiche delle scelte, perché è necessario in sede comunitaria potere adottare politiche che più direttamente rilancino la crescita e l'occupazione. E' interesse di tutti affrontare le ragioni vere della crisi. Purtroppo, però, è molto probabile che la risposta di Blair sia strumentale, e ancora una volta agganciata alla difesa di interessi nazionali particolari, in quanto volta a ricercare un compromesso con Chirac per minizzare le riduzioni del rebate e dei contributi agli agricoltori europei. Questa posizione risulta condivisa anche da autorevoli organi di informazione internazionali, come l'Economist. Tanto più la Francia insisterà sulla riduzione del rebate, tanto più l'Inghilterra insisterà per la riduzione del peso della Politica Agricola Comunitaria nel bilancio europeo: si realizza una sciagurata convergenza di interessi dei governi di entrambi i Paesi a dilazionare nel tempo le correzioni in questione.

La probabilità di trovare una soluzione di compromesso, evitando di mettere al centro del dibattito i temi delle prospettive dell'Unione, sembra quindi molto elevata. Sfortunatamente, tale esito elude del tutto obiettivi prossimi alla salvaguardia degli interessi dei cittadini europei.


Come rilanciare l'Europa

La crisi attuale sta evidenziando la necessità e l'urgenza di rilanciare la costruzione dell'Unione Europea. Questa operazione implica una riflessione sul piano dei valori che si vogliono perseguire e impone una considerazione pragmatica della divaricazione degli interessi economici fra i principali attori in gioco. Avviamo un'analisi di detti interessi, per argomentare che il processo di unificazione politica va intensificato a partire da un nucleo di Paesi, dei quali non è realistico attendersi che l'Inghilterra faccia parte.

Quella inglese è un'economia peculiare rispetto a quella degli altri Paesi europei, che ha basato la recente ed elevata crescita sulla vendita al resto del mondo di servizi specializzati, in primo luogo quelli finanziari. L'andamento dell'economia inglese ha tratto un enorme vantaggio dall'esplosione dei mercati finanziari dagli anni Settanta ad oggi. Dai tempi della Thatcher si è andato realizzando in Inghilterra un processo di de-industrializzazione, accompagnato dall'espansione dei settori finanziari. Nei ventun anni che vanno dal 1977 al 1998, il complesso delle transazioni finanziarie internazionali è aumentato di 89 volte (il che implica un tasso medio annuo di crescita che si avvicina al 24%), mentre il complesso delle transazioni internazionali in beni e servizi è aumentato nello stesso periodo solo di tre volte e mezzo (con un tasso medio annuo di crescita intorno al 6%). L'ammontare giornaliero delle transazioni finanziarie internazionali è elevatissimo ed è paragonabile al reddito nazionale prodotto in un anno da un paese ricco, come ad esempio l'Italia. Un terzo di tutte le transazioni finanziarie internazionali avviene sulla piazza di Londra e rappresenta pertanto una fonte di reddito rilevantissima per le imprese finanziarie inglesi e per l'intera economia del Paese: percepire, come commissione o interesse, anche una percentuale bassissima di una singola transazione significa incassare proventi smisurati.

Il successo dell'economia inglese va attribuito all'abilità delle imprese della City nel vendere serivizi specializzati al resto del mondo e al regime normativo e fiscale che quel Paese ha adottato per favorire le proprie piazze finanziarie. Esso è inoltre dovuto al processo di liberalizzazione dei mercati finanziari, iniziato alla fine degli anni Settanta, che ha profondamente inciso sulla gestione economica e politica del mondo contemporaneo.

Succede invece di sentire attribuire la recente crescita dinamica dell'economia inglese alle riforme del mercato del lavoro, introdotte dai tempi della Thatcher ad oggi, riforme che hanno reso tale mercato molto più "flessibile" di quello dei Paesi dell'area dell'euro. Questa interpretazione, diffusa tra gli addetti ai lavori, lascia perplessi per due ragioni: per l'estensione del processo di de-industrializzazione realizzatosi nel Regno Unito, a dispetto della maggiore "flessibilità" del mercato del lavoro, e per il fatto che il successo delle imprese finanziarie inglesi è legato, più che ai bassi costi del lavoro nel settore, all'espansione straordinaria dei mercati finanziari internazionali e alla tradizionale qualità dei servizi da esse offerti al resto del mondo.

Considerato alla luce delle informazioni appena riportate, il modello inglese, sia per quanto riguarda la scelta dei settori da espandere che per quanto riguarda le modalità di regolamentazione del mercato del lavoro, non è esportabile: esso non può essere imitato da altri Paesi, perché fondato sul felice connubbio di abilità storicamente consolidate nella produzione e vendita di servizi finanziari e occasione di crescita del settore a livello mondiale. Attualmente, appare difficile individuare un altro settore con le stesse potenzialità di crescita nel contesto internazionale.

Dal canto loro, i Paesi dell'area dell'euro stanno attraversando una fase di crescita le cui caratteristiche, costanza e lentezza, di là dai mutevoli andamenti dei cambi, del ciclo e del commercio internazionale, appaiono sempre più chiaramente e rispettivamente discendere da due elementi: la solidità delle economie industriali appartenenti all'area e il prolungarsi della fase di transizione verso la creazione di un'autorità fiscale sovranazionale.

Nell'Unione Europea ad un'autorità monetaria di livello sovranazionale, qual è la Banca Centrale Europea, non corrisponde un'autorità fiscale di pari livello, nè istituzioni politiche con poteri analoghi a quelli dei Governi e dei Parlamenti nazionali. Dopo l'introduzione della politica monetaria unica nel 1999 e della moneta unica nel 2002, il mancato completamento delle riforme istituzionali europee, e segnatamente la perdurante assenza di un'autorità fiscale sovranazionale, impedisce l'uso di una politica fiscale unica e rende necessaria l'introduzione di forme rigide di coordinamento fiscale, come il Patto di Stabilità e Crescita. In una tale situazione, pur in presenza di elevato surplus commerciale nei conti con l'estero dell'area dell'euro, ossia pur in presenza di condizioni macroeconomiche che consentirebbero da tempo politiche fiscali per rilanciare la crescita dell'economia, non ne è possibile l'adozione.

Nel suo complesso l'area dell'euro si presenta come un'economia parzialmente aperta agli scambi con l'estero, che rappresentano all'incirca il 20% del suo PIL. La dinamica di fondo, pur reagendo ai cambiamenti nel commercio internazionale, tende pertanto a subire maggiormente l'influenza delle componenti interne della domanda, ossia dei consumi, degli investimenti e degli acquisti di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione. I primi, come è noto, stanno crescendo lentamente riflettendo la moderata crescita dei redditi delle famiglie. L'andamento degli investimenti è condizionato dal clima di scarsa fiducia degli imprenditori sulla possibilità che l'economia europea cresca in modo sostenuto, un clima chiaramente evidenziato dalle indagini sulle aspettative fornite dalla Banca Centrale Europea. Esso non riesce pertanto a dare all'economia quella spinta di cui ha bisogno. Al riguardo appare emblematico il caso della Germania, che, pur facendo registrare nel 2004 un aumento elevato delle sue esportazioni (+8,6%), trainato dall'aumento delle esportazioni di beni di investimento che testimonia il perdurare della tradizionale forza dell'economia tedesca, ha fatto registrare un tasso di crescita negativo degli investimenti (-0,9%).

Il lento procedere della spesa per investimenti deve preoccupare (e non poco!). Il rinnovo degli impianti e delle tecnologie che l'investimento produce rappresenta l'unica possibilità per le economie europee di mantenere la loro posizione di preminenza nel contesto internazionale. I differenziali connessi al costo del lavoro con le economie emergenti sono troppo elevati per pensare di batterne la concorrenza sul prezzo e non sulla qualità e sul contenuto tecnologico e innovativo dei prodotti. Ma senza nuovi investimenti non c'è progresso tecnologico, né innovazione.

E' pertanto interesse dei Paesi dell'area dell'euro fare pieno affidamento sulle politiche governative per rilanciare la domanda e la crescita, migliorare il clima di fiducia degli imprenditori e selezionare quelle politiche infrastrutturali e industriali in grado di difendere la posizione delle nostre economie nel contesto internazionale. Completare le riforme istituzionali muovendo verso una maggiore unità politica, o almeno ripristinando l'uso della politica fiscale (strumento utilizzato con pieno successo negli USA per uscire in tempi rapidi dalla crisi cominciata nel 2001), è quindi essenziale sia per la difesa delle posizioni raggiunte che per la nostra crescita economica. Riteniamo che la mancata ripresa di iniziative in questa direzione metta sicuramente in pericolo il benessere e le conquiste nel campo civile e sociale che le nostre democrazie hanno raggiunto nella loro storia. Al contrario, il completamento delle riforme istituzionali e la formazione di una politica fiscale europea ci appaiono oggi in opposizione agli interessi dell'economia inglese, che ha trovato nella fornitura di servizi finanziari al resto del mondo la principale fonte del suo successo.

I Paesi dell'area dell'euro devono quindi prendere atto che l'Inghilterra non solo non aderirà all'euro, ma che si opporrà, ponendo il veto, a ogni mutamento riguardante una sua maggiore integrazione politica e fiscale in Europa, ossia si opporrà a quelle riforme che sono oggi necessarie per consentire alle economie dell'area dell'euro di difendere le proprie posizioni nel contesto internazionale, incrementando la crescita, i livelli di occupazione e il benessere dei propri cittadini. D'altra parte, alla luce della precedente analisi, non si evidenziano motivi per ritenere che l'Inghilterra possa opporsi a una maggiore integrazione delle politiche fiscali riguardante solo i Paesi che hanno adottato l'euro. Al contrario, rafforzare la collocazione dell'economia dell'area dell'euro nel contesto internazionale non dovrebbe essere visto dagli Inglesi come un fattore negativo per gli equilibri internazionali.

Per quanto concerne i Paesi che sono entrati nel 2004, molti di loro hanno alle spalle una storia profondamente diversa da quella degli altri Paesi dell'Unione. In particolare, essi non hanno partecipato, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, al movimento culturale e politico, ricco di spinte ideali, che mise in moto il processo di integrazione economica per porre fine alle guerre in Europa e raggiungere l'obiettivo ultimo dell'integrazione politica. Si è inoltre segnalato, nelle ultime consultazioni elettorali europee, un maggiore distacco dei cittadini di quei Paesi dalla vita delle istituzioni comunitarie rispetto ai cittadini degli altri Paesi.

Tuttavia, la mancata partecipazione alla fase storica suddetta e l'astensionismo nelle ultime elezioni europee non implicano una mancanza di attenzione verso i valori democratici di cui l'Unione è portatrice. La volontà di consolidare l'ordinamento liberal-democratico è stata uno degli elementi fondanti la richiesta di partecipazione all'Unione Europea per molti Paesi. Più frequentemente hanno spinto motivazioni di convenienza economica, legate ai benefici derivanti dall'integrazione a un'area economica solida e di grande dimensione, area che può offrire protezione nei mercati internazionali e ampi spazi per la vendita dei propri prodotti, nonchè l'erogazione delle risorse necessarie per affrontare una fase di transizione politica ed economica e per inserirsi a pieno titolo tra le economie forti del mondo.

I conflitti che attualmente affliggono l'Unione, così come la fase di stallo nella sua evoluzione, la crescita lenta dell'area dell'euro e i connessi pericoli di perdita di forza e competitività sui mercati internazionali, rappresentano per i nuovi Paesi un elemento di delusione rispetto alle aspettative iniziali. L'insieme di detti elementi non contribuisce a ravvivare la partecipazione di quei cittadini alla vita istituzionale, ma favorisce la formazione di ulteriori fattori di staticità per la vita delle istituzioni europee.


Le vere ragioni della crisi

In conclusione, è assolutamente necessario e urgente affrontare le ragioni vere della crisi dell'Unione Europea evidenziata dai fallimenti dei referendum sulla Costituzione. A tal fine, appare improrogabile che i Paesi dell'area dell'euro prendano atto della necessità di completare le riforme istituzionali iniziate con l'adozione della politica monetaria unica. Bisogna accelerare il processo verso la maggiore integrazione politica o, almeno, verso un maggiore coordinamento fiscale, prendendo atto che ci sono importanti Paesi dell'Unione, come l'Inghilterra, che non possono essere interessati a tali processi.

L'ipotesi dell'Europa a più velocità di integrazione è pertanto ineludibile, sempre che si parta, per definirne le forme, dall'analisi economica degli interessi dei Paesi coinvolti. La ripresa di iniziative istituzionali è la via per difendere le economie dell'area dell'euro, per garantire ai Paesi nuovi entrati l'adempimento di quelle aspettative per le quali hanno richiesto la partecipazione all'Unione ed evitare un generale decadimento economico e sociale dell'Europa. È l'esistenza di precisi interessi economici a legittimare l'attesa che siano i Paesi di consolidata tradizione europeista a rilanciare l'iniziativa dell'integrazione ulteriore.

Giovedì, 21. Luglio 2005
 

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