Il circolo vizioso che ha portato al declino

I dati mostrano che negli ultimi dieci anni in Italia si sono drammaticamente deteriorati la produttività e il reddito pro capite, sceso sotto la media europea. Solo l'andamento dei profitti è stato favorevole. Le cause e una proposta per uscirne

1. La questione: produttività del lavoro e crescita economica

 

Da ormai molti anni l’economia italiana stenta a crescere. All’idea che l’economia non cresca il Paese sembra, però, indifferente. La bassa crescita e il rallentamento o addirittura il declino della produttività in Italia non fanno notizia, non allarmano nessuno.

 

Se guardiamo la dinamica del prodotto lordo in termini reali, dopo il 1995 l’economia italiana ha avuto per 11 anni un tasso di crescita medio annuo dell’1,5 per cento, inferiore a quello medio europeo (2,3%) e a quelli di Francia (2,2%), Regno Unito (2,8%), Stati Uniti (3,2%), Spagna e Grecia (entrambi 3,8%) (Figura 1). Tra i 22 paesi considerati nella Figura 1, solo il Giappone presenta una performance peggiore (1,3%), mentre Germania e Svizzera sono allineate con l’Italia. 

 
 

Accumulandosi nel tempo, differenze anche piccole (e queste non lo sono) producono effetti rilevanti. Gli italiani, che nel 1995 disponevano di un reddito per abitante al di sopra della media europea, maggiore di quello del Regno Unito e prossimo a quello di paesi tradizionalmente prosperi come la Francia o la Svezia, dopo più di un decennio di crescita lenta si trovano otto punti sotto la media europea, 17 punti sotto il Regno Unito (Figura 2).

 
 
Poiché nel periodo la popolazione è rimasta pressoché costante e l’occupazione è cresciuta in misura significativa, la ragione del grave declino dell’economia italiana non può che essere attribuita alla bassa crescita della produttività. È qui che si è spezzato il circolo virtuoso alla base del precedente successo dell’economia italiana. Nel 1995 la produttività oraria media dell’economia italiana superava di cinque punti la media europea; ma nel 2006, dopo un vero e proprio tracollo di 15 punti, non ne superava il 90 per cento.

 

La grave anomalia italiana si colloca nel quadro delle profonde trasformazioni strutturali che hanno attraversato il sistema economico e il mercato del lavoro . Anzitutto il lento e progressivo esaurirsi dell’esodo agricolo e il venir meno dei benefici effetti della sostituzione di posti di lavoro agricoli a bassa produttività con posti assai più produttivi nell’industria e nei servizi. Poi la cosiddetta “terziarizzazione dell’economia”, ovvero l’aumento, assoluto e relativo, dell’occupazione nei servizi (attività generalmente a produttività bassa, o comunque stazionaria) a scapito della manifattura (a produttività più elevata e dinamica); quest’ultima spiazzata o delocalizzata verso paesi con costi molto inferiori. Il processo si è intrecciato con il forte aumento di lavoratori stranieri e/o impiegati con contratti temporanei o collaborazioni, spesso in occupazioni poco qualificate, poco remunerate e a bassa produttività. Peraltro, la flessibilizzazione, quando non la precarizzazione, del lavoro si è scaricata prevalentemente al margine dell’occupazione, sulle generazioni in ingresso nel lavoro, contenendone la remunerazione e spesso sottovalorizzandone il capitale umano. E ancora il venir meno del ruolo trainante delle imprese pubbliche nell’area strategica degli investimenti in tecnologia e innovazione, cui si è accompagnata nel privato una lunga stagione di “cattivi padroni” e raiders (cfr., ad es., Mucchetti, 2003; Gallino, 2005), più impegnati ad acquisire, spezzettare e rivendere le imprese che a innovarle e riorganizzarle per tenere testa al mercato globale.

 

Queste grandi trasformazioni, che peraltro hanno interessato in varia misura anche le altre grandi economie, hanno certamente influito sui ritardi di aggiustamento dell’economia italiana con forza maggiore. Perché?

 

2. Distribuzione primaria del reddito e produttività: il ‘nuovo scambio politico’

 

Dal punto di vista delle relazioni industriali, la chiave di lettura della crisi di produttività dell’economia italiana sta nel processo di distribuzione primaria del reddito. Da molti anni la maggioranza dei paesi avanzati assiste a un imponente fenomeno redistributivo, e l’Italia non fa eccezione (Zenezini, 2004; Tronti, 2005b). La quota dei redditi da lavoro si riduce e, all’inverso, cresce quella dei profitti.

 

Nel caso italiano, tra il 1992 e il 2001 la quota dei profitti è cresciuta di più di 11 punti, per poi tornare a cadere di circa due punti dal 2002, a fronte dell’andamento negativo della produttività del lavoro. Ma la divergenza italiana non sta tanto nell’entità dell’aumento, quanto nella sua inutilità. L’aumento della quota dei profitti può infatti essere considerato come parte di un ‘nuovo scambio politico’ tra lavoratori e imprese, nel quale la maggior remunerazione del capitale è una sorta di contributo straordinario che i lavoratori, in questa fase dello sviluppo capitalistico, pagano alle imprese per consentire loro di riorganizzarsi e sostenere l’urto combinato delle nuove tecnologie e dei nuovi, agguerriti concorrenti sul mercato globale.

 

Il risultato di questo ‘nuovo scambio politico’ (per lo più implicito, ma non per questo meno cogente) nei diversi paesi si può valutare rapportando il tasso di crescita del prodotto lordo all’aumento della quota dei profitti (Figura 3). Per tutti e 15 i paesi considerati, l’elasticità della crescita economica alla quota dei profitti tra il 1992 e il 2005 risulta positiva, e per nove di essi è superiore al valore di un mezzo: ciò vuol dire che l’aumento di un punto della quota dei profitti si è coniugato, in media, con almeno mezzo punto di crescita l’anno. Ciò non prova affatto che sia stata la redistribuzione a causare la crescita, ma almeno segnala che le due cose si sono verificate assieme. Il risultato migliore è quello della Danimarca, dove a ogni punto di aumento dei profitti hanno corrisposto più di tre punti di crescita; mentre Regno Unito, Belgio, Stati Uniti, Svezia, Francia, Olanda e Irlanda si collocano, nell’ordine, nell’intervallo tra un’elasticità di 1,4 e una di 0,7 punti. L’Italia presenta, ovviamente, il risultato largamente peggiore: per ogni punto di aumento della quota dei profitti il pil è infatti cresciuto soltanto di 1,5 decimi di punto.

 
 
In Italia, dunque, i 13 anni di moderazione salariale che hanno seguito l’introduzione e la parziale attuazione del Protocollo del ‘93, nonostante i grandi benefici apportati alla disinflazione e all’ampliamento della base occupazionale, e nonostante l’aumento di quasi 10 punti della quota dei profitti, non sono bastati ad assicurare che le imprese si  riorganizzassero e si rafforzassero rispetto agli shock delle nuove tecnologie, dell’aumento del prezzo del petrolio e dei nuovi concorrenti globali. Perché?

 

Tra le molte possibili cause, una merita particolare attenzione perché coinvolge direttamente la specificità del nostro sistema di relazioni industriali. La crescita economica è stata molto modesta perché il sistema produttivo non ha applicato l’intero disegno del Protocollo del ‘93, ma ne ha applicato soltanto un terzo: la parte relativa alla contrattazione nazionale. Dati il mancato decollo della contrattazione decentrata e la non applicazione della seconda parte del Protocollo (su questo punto si ricordi la posizione largamente premonitrice di Ciampi, del 1996), i salari hanno più o meno tenuto il passo con l’inflazione, ma non con la produttività del lavoro; e quest’ultima, a sua volta ha subito prima un rallentamento e poi un vero e proprio declino. Qual è il nesso tra moderazione salariale e rallentamento della produttività?

 

Se negli anni ’80 per ogni punto di aumento della produttività del lavoro le retribuzioni crescevano, in media, di più di 0,8 punti, nel periodo successivo al 1993 l’elasticità media è scesa a un quarto di punto: per i lavoratori e per il sindacato, impegnarsi a fare produttività non conveniva più. (Figura 4)

 
 

Un discorso solo un po’ più complesso va fatto per le imprese. In questo caso assistiamo al fenomeno opposto: la reattività dei profitti alla produttività nel nuovo contesto redistributivo è, paradossalmente, cresciuta troppo. Se prima del 1993 occorrevano più di 10 punti di aumento della produttività per consentire un solo punto di aumento del saggio di profitto, tra il 1993 e il 2006 è bastato, in media, poco più di un punto. Ma la ben maggiore profittabilità non si è tradotta in un proporzionale aumento degli investimenti; anzi, al calare della quota del lavoro è calata anche la proporzione degli investimenti rispetto ai profitti.

 

Nel regime salariale che ha caratterizzato la fortemente incompleta applicazione del Protocollo del ‘93, gli investimenti non sono stati soltanto inferiori a quanto i profitti avrebbero consentito (e, almeno in parte, sono migrati all’estero), ma sono stati soprattutto espansivi: hanno generato più occupazione e meno produttività che negli anni ’80. Per le imprese impegnarsi a fare produttività è stato meno necessario, dato che erano possibili ritorni interessanti anche con attività relativamente poco produttive. Un forte segnale in questo senso è dato dalla persistenza del cosiddetto “nanismo” delle imprese italiane.

 

Non c’è quindi da stupirsi che la spinta propulsiva dell’economia si sia progressivamente esaurita fino ad arrestarsi del tutto: gli aumenti di produttività sono sempre il risultato di costose e impegnative innovazioni tecnologiche e organizzative nei luoghi di lavoro che nessuno – né imprese, né sindacato, né lavoratori – aveva un vero interesse a realizzare. Ed è proprio questo perverso sistema di incentivi, venutosi a creare per l’applicazione minimale del Protocollo del ’93, che bisogna ribaltare per riequilibrare lo scambio politico e consentire alla produttività di tornare a crescere e all’economia di tornare a prosperare.

 

3. Protocollo welfare e nuovo patto sociale

 

Il sistema economico è assopito, anestetizzato dal periodo di straordinaria moderazione salariale e flessibilizzazione delle forme di lavoro che ancora, nonostante la “crescita zero”, consente un’occupazione in aumento e profitti diffusi, relativamente elevati. L’economia corre senza avvedersene un “rischio eutanasia”: la sua apparente salute è in realtà mortale perché il nuovo scambio politico asimmetrico, come ha abbattuto gli incentivi alla crescita, così ha occultato i tradizionali segnali della perdita di competitività, della perdita di futuro, della progressiva emarginazione dal cuore d’Europa.

 

In questa situazione, con il prof. Nicola Acocella dell’Università di Roma e il prof. Riccardo Leoni dell’Università di Bergamo, abbiamo ritenuto di dover lanciare alla cultura, alle parti sociali, all’opinione pubblica e alla politica, il manifesto “Per un nuovo patto sociale per la produttività e la crescita ” (si può visionare e sottoscrivere sul sito http://www.pattosociale.altervista.org/, hanno già aderito un centinaio fra economisti, sociologi delle relazioni industriali e sindacalisti). Il documento propone di riequilibrare i termini dello sterile (e anzi dannoso) scambio politico ‘a una dimensione’, consentito dall’applicazione parziale del Protocollo del ’93, con il varo di una nuova fase di contrattazione decentrata, dedicata allo sviluppo e all’incentivazione della produttività e della crescita attraverso la riorganizzazione dei luoghi di lavoro e l’introduzione di rapporti di lavoro ad alta performance, secondo linee concertate trilateralmente nel quadro di un patto sociale esplicito, ispirato alle misure di potenziamento del lavoro che caratterizzano le imprese innovative.

 

Vi è la necessità di tornare alle imprese, di dire addio all’idea palesemente errata che le condizioni dello sviluppo si creino solo nel mercato del lavoro esterno, fuori dei cancelli della fabbrica e delle porte dell’ufficio, e che l’impresa non sia che una scatola nera che dà il meglio quando viene lasciata a se stessa. Serve una manovra in tre punti per incentivare la contrattazione decentrata: a) sgravio del costo del lavoro per le imprese che erogano premi di risultato attraverso le procedure di contrattazione di secondo livello; b) sgravio dei contributi a carico dei lavoratori sui premi di risultato fino al cinque per cento della retribuzione annua e loro corresponsione in busta paga; c) pensionabilità di tutta la retribuzione di risultato così agevolata. Con questa manovra, governo e parti sociali segnalano di voler intraprendere una nuova fase negoziale, di estensione della contrattazione aziendale e territoriale, lungo le linee originariamente previste dal Protocollo del ’93 e ancora inapplicate.

 

Ma bisogna che la cultura e l’opinione pubblica si destino dal loro torpore mediatico e la politica e le parti sociali si rendano conto che bisogna fare di più: la questione produttività è talmente grave che non è possibile uscirne soltanto con misure di politica economica, di incentivazione fiscale/contributiva dei comportamenti virtuosi. C’è bisogno di un grande ed esplicito sforzo comune, di mobilitare energie collettive, che risveglino nel Paese lo spirito di comunità; e la mobilitazione, come è stato negli episodi cruciali della storia del nostro sviluppo economico e sociale – dalla Ricostruzione al rientro dell’inflazione a due cifre, sino all’aggancio all’euro –, può avvenire soltanto attraverso la sottoscrizione di un nuovo ed equo patto sociale, capace di traguardare un obiettivo comune e di varare un modo di stare insieme e di lavorare insieme che sia compreso e fatto proprio da tutti.

 

(Leonello Tronti è Dirigente di ricerca all’ Istat. L’articolo è presentato dall’autore a titolo personale e non è pertanto attribuibile all'Istituto di appartenenza).

 

Riferimenti bibliografici

                       

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Domenica, 28. Ottobre 2007
 

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