Lo "strappo" della Margherita (o "strappino", come l'ha chiamato il professor Sartori)risponde a una logica molto zoppicante, anche per ragioni di tecnica elettorale. E comunque tutto il centrosinistra farebbe bene a ricordare ciò che accadde nel '700 fra Clemente XI e Vittorio Amedeo II
Se ho capito bene, lo "strappo della Margherita" avrebbe questa motivazione: le ultime elezioni avrebbero dimostrato che esiste un elettorato di centrodestra friabile e quindi potenzialmente catturabile. Si tratterebbe di un numero crescente di persone ormai persuase che il governo Berlusconi-Calderoli non è in grado di risolvere la crisi italiana. Per tante ragioni. Ma soprattutto perché, in larga misura, è lui stesso all'origine del problema. A questi elettori (disamorati di Berlusconi, ma "spaventati" da Bertinotti) Rutelli vuole offrire una sponda presentando nel proporzionale la lista della Margherita, anziché la lista unitaria dell'Ulivo.
Qual è il problema? Lascio da parte la disputa sulla maggiore o minore capacità di attrazione delle liste unitarie rispetto a quelle separate. E viceversa. Perché in questa discussione possono avere ragione tutti. La storia elettorale italiana offre infatti dati a conforto di ciascuna delle due tesi. Essi andrebbero però interpretati alla luce del contesto politico che li ha prodotti e della posta in gioco percepita dagli elettori in ciascuna elezione. Mi limito soltanto ad osservare che, di norma, la moltiplicazione delle liste (e, dunque, dei candidati) è più vantaggiosa nelle elezioni locali ed invece più svantaggiosa per quelle nazionali ed europee. Insomma, il risultato è tendenzialmente migliore quanto più il collegio elettorale è piccolo e tanto maggiore il numero di candidati che si possono mettere in pista a caccia di voti.
Per farla breve: Lombardo a Catania ha ottenuto il venti per cento dei voti ed un quarto degli eletti nel consiglio comunale, presentando quattro liste e tanti candidati da coprire tutta la città. Vicoli compresi. Ma se avesse deciso di usare la stessa tattica, ad esempio, per le elezioni al Parlamento Europeo (stante la dimensione dei collegi) con ogni probabilità non avrebbe portato a casa nemmeno un eletto.
A volte, dunque, gli accorgimenti elettorali possono avere un peso sui risultati. Altre no. Assai spesso, ad urne aperte, i dati non confermano le aspettative che erano state affidate a calcoli ed astuzie. Ma questo può far parte degli incerti del mestiere. Perché, se dobbiamo dare retta a De Gaulle, "solo gli imbecilli non si sbagliano mai". Avendo ben presente questi limiti, mi chiedo allora come mai tanto clamore e tante reazioni (nel centrosinistra e nella stessa Margherita) per una decisione certamente opinabile, ma tutto sommato non così sconvolgente? Quanto se si escluda la pretesa (questa sì assai singolare!) di Rutelli, Marini e De Mita di considerala "irrevocabile". Quasi si trattasse di una proposizione, o di un principio riconducibile ad una verità inconfutabile.
A mio avviso lo sconcerto generato dalla decisione della maggioranza della Margherita ha una duplice motivazione. La prima. Appaiono poco convincenti i ripetuti omaggi rituali della Margherita all'Ulivo considerato che, assai spesso, tendono a risolversi in rifiuti sostanziali. Parliamoci chiaro. Numerosi elettori di centrosinistra avvertono un moto di rigetto quando assistono alla replica di quella che non considerano altro che una recita. Cioè una rappresentazione nella quale l'Ulivo viene innaffiato con le parole e segato con i fatti. Si tratta di uno spettacolo che non sembra affatto in grado di attrarre nuovi elettori, in compenso rischia seriamente di far disamorare i vecchi. Compresa una parte di quelli della Margherita. Almeno se dobbiamo giudicare da un certo numero di reazioni pubbliche.
Intendiamoci bene: l'Ulivo non è un destino. E' una libera scelta politica. Che perciò può camminare solo sulle gambe degli uomini. Manifestare riserve sull'Ulivo non è quindi una condotta sacrilega. Del resto si può essere convintamente bipolari senza essere necessariamente bipartitici. Tuttavia anche i più critici non possono eludere un nodo che, in modo od in un altro, andrebbe sciolto. Nelle intenzioni di chi l'ha proposto l'Ulivo vuole essere la soluzione di un problema reale: l'eccessiva frammentazione della rappresentanza del centrosinistra. Frammentazione che rende complicata la formulazione di un programma unitario di governo. Tant'è vero che ancora non c'è. E oltre tutto, una volta formulato, possono sorgere fondati dubbi sulla effettiva capacità di realizzarlo.
Si dirà, la frammentazione del centrosinistra è il riflesso di una lunga e travagliata storia politica che, nel tempo, ha prodotto ad esperienze diverse, che ora si fatica a ricomporre. Tutto vero. Ma questo non cancella l'interrogativo. Voglio dire, se tra "moderati e radicali" è possibile convergere fino a riconoscersi in uno stesso programma di governo, non riesco a capire la ragione arcana che dovrebbe impedire di accompagnare il medesimo programma con un processo di semplificazione dello schieramento di centrosinistra. Per essere sincero, in proposito una opinione ce l'ho.
Senza stare a farla lunga, la convinzione che mi sono fatto è che il principale fattore di resistenza vada individuato nel "ceto politico". Anche per la buona ragione che è innanzi tutto il ceto politico che viene chiamato in causa da un processo di aggregazione. Dare vita ad una nuova formazione politica significa infatti cambiare gli equilibri preesistenti. Significa rimettere in discussione ruoli e consolidati rapporti di potere. Compresi quelli personali. Sicché, mentre ciascuno sa come sta nel partito di appartenenza, l'approdo ad una nuova formazione viene percepito e vissuto come una avventura. Piena di tante, a volte troppe, incognite. Da qui i dubbi, le perplessità, le resistenze.
Esistono ovviamente anche difficoltà oggettive. Ma il freno maggiore è esercitato soprattutto da quelle soggettive che, in certi momenti, finiscono con il costituire una sorta di barriera insuperabile. Del resto non mi sembra casuale che, almeno in questa fase, le maggiori resistenze si manifestino nella Margherita. La ragione è semplice. Infatti proprio la Margherita è già il prodotto di un recente e faticoso assemblaggio (probabilmente non ancora del tutto metabolizzato) di storie, sensibilità e culture politiche diverse. Non mi sembra quindi sorprendente che si possa manifestare meno disponibile di altri ad un immediato nuovo "giro di pista".
Se le cose stanno così mi pare evidente che la speranza di sbloccare la situazione e rimettere in moto un processo di aggregazione (comunque battezzato) sia legata al verificarsi di una condizione. Che cioè gli incitamenti e le spinte che scendono dall'alto si possano incontrare con diffuse e concrete iniziative che salgono dal basso. Tuttavia, per ora, i sintomi di questa auspicabile osmosi non sono particolarmente evidenti.
Resta comunque un dato di fatto con cui, in un modo o nell'altro, occorre fare i conti. Ed il fatto è che i nove o dieci partiti e partitini che costituiscono lo schieramento di centrosinistra sono decisamente troppi. Troppi per riuscire a formulare tempi brevi un credibile programma di governo. Troppi per riuscire a convincere gli elettori che, una volta fatto, potrà tempestivamente attuarlo. Troppi per garantire che l'azione di governo (tanto più in un situazione economica e sociale particolarmente difficile) non finisca per usurarsi in un estenuante lavorio di mediazione interna alla coalizione.
Nel progetto e nelle intenzioni di Prodi l'Ulivo dovrebbe costituire la forza largamente maggioritaria all'interno della coalizione. Un magnete in grado di tenere assieme il resto della coalizione, assicurando così la stabilità dello stesso esecutivo. Non trattandosi di un dogma di fede se ne può discutere liberamente. Si può quindi sottolineare che, nell'Italia della cosiddetta prima Repubblica il risultato che Prodi auspica non è mai stato conseguito. Per oltre quarant'anni la Dc ha raccolto tra il trentacinque ed il quaranta per cento dei voti complessivi. La sua consistenza ha contribuito ad assicurare un lungo periodo di stabilità politica, ma non una parallela stabilità dei governi. Che infatti hanno avuto una durata media inferiore ad un anno. Si può naturalmente pensare che le cose sono andate così per colpa del proporzionale. E' possibile. Mi sembra però una spiegazione a portata di mano, ma sostanzialmente elusiva. Perché anche in un sistema politico fondato sul maggioritario e l'alternanza, come quello inglese, la stabilità di governo a volte ha dovuto fare i conti con inciampi non previsti. La signora Thatcher, ad esempio, pur essendo capo del partito che disponeva della maggioranza assoluta in Parlamento, venne costretta da un cambiamento di orientamento del suo stesso partito a passare la mano. Sia chiaro, una forza con un peso quantitativamente condizionante semplifica le cose e quindi aiuta certamente. Ma di per sé non risolve tutti i problemi da cui può dipende la stabilità di un governo.
Ulivo sì o Ulivo no, credo che non ci possa essere alcun dubbio che la questione di riportare a livelli più fisiologici quella che oggi è una eccessiva frammentazione del centrosinistra rimane in tutta la sua consistenza. E se non fosse affrontato e risolto potrebbe rivelarsi un handicap molto serio. Anche sul piano elettorale. Rutelli può benissimo avere tutte le riserve che vuole sul progetto dell'Ulivo avanzato da Prodi. Può persino ritenere di avere delle valide ragioni soggettive per contrastarlo. Ma la questione non può essere semplicemente rimossa. Parlo anche di riserve soggettive perché non sottovaluto quanto ha scritto il professor Sartori. Secondo il quale Prodi avrebbe spesso "maltrattato il 'bel guaglione', privilegiando a suo danno il rapporto con Bertinotti e Fassino".
Ammesso e non concesso che questo sia vero, Rutelli sa, o dovrebbe sapere, che con i risentimenti in politica non si va da nessuna parte. Si può al massimo architettare qualche ritorsione. Ma non si costruisce niente. Se, com'è possibile, non è convinto della proposta di ristrutturazione del centrosinistra portata avanti da Prodi non può limitasi ad esprimere dubbi e perplessità. Perché al punto in cui siamo dubbi e perplessità rischiano di non essere altro che un alibi per sottrarsi alla proprie responsabilità. Se non era e non è d'accordo con la proposta Prodi avrebbe avuto (e penso abbia ancora) il dovere di indicare una alternativa. E non avendolo fatto (almeno finora) non dovrebbe stupirsi che si manifestino incertezze nel centrosinistra ed anche in importanti settori della Margherita e fioriscano congetture intorno alle sue "vere" intenzioni.
Vengo ora a quella che a mio avviso è la seconda ragione di sconcerto. Ritengo che essa tragga origine dalla motivazione con cui la maggioranza della Margherita ha pensato di spiegare la decisione di presentare proprie autonome liste per la quota proporzionale. Anche a questo proposito il professor Sartori, sia pure con il lodevole intento di declassare lo "strappo" a "strappino", credo abbia riassunto bene il senso della decisione presa dalla Margherita. "Quale sarebbe - ha scritto infatti - la tragedia se in una sola Camera e per soltanto un quarto dei voti si cerca di rassicurare l'elettore spaventato da Bertinotti offrendogli di poter preferire la Margherita?"
Debbo innanzi tutto confessare che mi sfugge completamente perché e per che cosa gli elettori dovrebbero essere spaventati da Bertinotti. Forse perché chiede che venga stabilito un rapporto meno squilibrato tra il prelievo fiscale sulle rendite e quello sui redditi? O perché pretende che gli evasori fiscali non abbiano un complice nello Stato? In realtà si tratta di obiettivi così poco "eversivi" che, a quel che sembra di capire, persino nel governo di centrodestra incominciano ad avere qualche devoto. Se non per ragioni di equità, perlomeno per cercare di contenere un disastro economico e sociale. Altrimenti irrimediabile. So bene che, alla fine, i turbamenti di questi ministri non porteranno a nulla. Ma questo non mi sembra decisivo.
Torniamo al punto. Supponiamo pure che la propaganda berlusconiana contro "il pericolo rosso" riesca ad avere qualche successo ed a spaventare un certo numero di elettori. Anche in tal caso debbo candidamente dire che non mi è chiaro quali possano essere i vantaggi per la lista della Margherita nel proporzionale. Stiamo ai fatti. Tutti i partiti del centrosinistra (dall'Udeur a Rifondazione compresa) sono obbligati ad avere un solo candidato nei collegi uninominali (che assorbono quasi il 90 per cento del voto relativo ad entrambe le Camere). Mi chiedo quindi, perché mai gli elettori che abbandonano la destra dovrebbero premiare le liste della Margherita, considerato che nel proporzionale viene eletto solo il 12,5 per cento dei Parlamentari e ben sapendo che è la stessa Margherita che è "culo e camicia" con Rifondazione nella spartizione delle candidature nel maggioritario? Cioè nel il restante 87,5 per cento dei seggi?
E' una domanda alla quale francamente non so rispondere. Dico soltanto che, forse, la decisione di andare da sola al proporzionale avrebbe potuto risultare, non necessariamente più condivisa, ma almeno più comprensibile, se fosse almeno stata legata alla richiesta di una modifica della legge elettorale. Ad esempio il doppio turno per i seggi attribuiti nel maggioritario. In modo tale che al primo turno tutti i partiti della coalizione avrebbero potuto presentare propri candidati, mentre al secondo sarebbe passato solamente quello che avrebbe ottenuto più voti. Posso capire l'obiezione. Il tempo che ci separa dalle prossime elezioni non consente di pensare realisticamente ad un cambiamento delle legge elettorale. Non dubito che sia vero. Ma la Margherita avrebbe potuto proporla lo stesso. Magari a "futura memoria". In ogni caso, per l'immediato, avrebbe dovuto chiedere le "primarie di collegio". In modo da allontanare lo sgradevole sospetto che essa non ha alcuna remora a "pastrocchiare" sottobanco con Rifondazione nella spartizione dei collegi maggioritari in cui viene eletto il novanta per cento dei Parlamentari, mentre sente il bisogno di "rifarsi una verginità" nel proporzionale, dove viene eletto solamente il residuo dieci per cento.
In definitiva, non credo proprio che debba essere considerato un "peccato mortale" avere dei ripensamenti. O chiedere, quando si ritiene che ci siano buone ragioni per farlo, che siano riconsiderate criticamente le decisioni assunte in precedenza. Anche quando sono state assunte con la propria diretta partecipazione ed il proprio contributo. Quello che mi sembra importante è che le nuove opinioni vengano proposte in forme e modi appropriati. Tenuto conto che le decisioni coinvolgono non solo chi le prende, ma anche altri. Soprattutto mi sembra opportuno che esse siano motivate in modo chiaro. Cioè con argomenti che possano essere auspicabilmente capiti da tutti. In caso contrario, anche senza volerlo, si finisce per lavorare per "il re di Prussia". O per animare (anche se in buona fede e magari con le migliori intenzioni) soltanto una rissa tra prime donne litigiose ed insopportabilmente esibizioniste. Che, se non sbaglio, è più o meno quello a cui stiamo assistendo.
Mi astengo dal dare suggerimenti su ciò potrebbe essere fatto. Anche perché so bene, per antica esperienza, che nulla è più inutile dei consigli non richiesti. Non voglio invece esimermi dal ricordare una lontana vicenda storica, dalla quale (volendo) potrebbe essere ancora tratto qualche opportuno elemento di riflessione. Mi riferisco alla "guerra dei ceci" tra il Papa ed il re di Sicilia.
Come è noto, nell'XI secolo la Sicilia viene invasa dai Normanni guidati da Roberto Guiscardo, che si da il titolo di conte di Sicilia. Ben presto però i suoi successori si rendono conto che la sola forza delle armi non è sufficiente per conservare il dominio siciliano. Ruggero II decide perciò di mettersi sotto la protezione del Papa, dal quale ottiene l'investitura del "regno di Sicilia". Investitura trasmissibile alla propria dinastia. Naturalmente la scelta di Ruggero non è motivata dalla devozione e, per dirla tutta, nemmeno da una particolare attitudine alla sottomissione. Infatti, nello stesso momento in cui si dichiara feudatario del papato, istituisce un tribunale laico. Cioè al di fuori della autorità canonica e per di più incaricato di giudicare anche le contese tra il potere temporale e quello spirituale. Malgrado i ripetuti tentativi ecclesiastici di sopprimerlo, questo tribunale funziona abbastanza bene per diversi secoli, finché si verifica un episodio che determina un conflitto grave ed apparentemente irrisolvibile tra Stato e Chiesa.
Nell'estate del 1715 i funzionari del re (che da un paio d'anni ed in base al trattato di Utrecht era Vittorio Amedeo II, duca di Savoia e del Piemonte) vengono a sapere che un fattore sta vendendo in piazza dei ceci senza avere pagato la prevista gabella. Vanno perciò a contestargli la violazione. Ma l'uomo, che a sua volta gabelliere è del vescovo di Agrigento, si ritiene esente da imposte. Perciò senza perdersi in tante spiegazioni reagisce duramente nei confronti degli agenti del re. Questi provvedono allora all'immediato sequestro della merce. Il fattore va quindi a lamentarsi dal vescovo, il quale decide di proferire immediatamente la scomunica nei confronti di coloro che, secondo lui, hanno violato le sue "immunità".
Solo quando ricevono il decreto di scomunica, i destinatari dell'anatema vengono a sapere di chi erano i ceci. Si presentano perciò al palazzo vescovile per scusarsi e spiegare che, se invece di reagire e sbraitare, il fattore avesse fatto le dichiarazioni opportune si sarebbe potuto chiarire tutto subito. Il vescovo pensa però di cogliere l'inaspettata occasione per cercare di infliggere una umiliazione al potere civile. Chiede quindi delle riparazioni sproporzionate. I funzionari del re riferiscono al loro diretto superiore, il quale decide che al prelato non si deve riconoscere niente di più che la merce sequestrata. La risposta del vescovo è un nuovo decreto di scomunica.
Ma il caso dei ceci sta facendo molto rumore ed il tribunale della monarchia decide di avviare una causa. Il vescovo di Agrigento reagisce con una ennesima nuova scomunica. Questa volta addirittura contro una delle massime magistrature. Subito dopo però, preoccupato delle possibili reazioni, si rifugia presso la corte papale di Roma, che lo accoglie a braccia aperte. Anche perché il tribunale siciliano del re è considerata una istituzione scomoda dal papato che pensa quindi di poter utilizzare l'inatteso pretesto per potersene sbarazzare. Pensando di dare un contributo a questo esito, tutti i vescovi dell'isola solidarizzarono con il loro collega agrigentino. Decidono perciò di estendere la scomunica a tutto il regno di Sicilia. Vengono di conseguenza sospese tutte le funzioni religiose, compresi i funerali. Ciò fatto, temendo però le possibili reazioni, fuggono tutti dall'altra parte dello Stretto. Seguiti da una gran quantità di sacerdoti e frati che non vogliono correre il rischio di essere sottomessi alle pene decretate dal tribunale re, che nel frattempo ha deciso di perseguire tutti coloro che hanno deciso di osservare l'interdetto.
Da parte sua il papa Clemente XI ha ormai fatto dei ceci una questione d'onore, nella quale si gioca il prestigio e l'influenza della Santa Sede. Decide quindi di appoggiare la condotta dei vescovi siciliani e di non mollare. Fino a quel momento i gesuiti (che costituiscono l'ordine più diffuso e potente) sono rimasti in Sicilia. Ma proprio perché fedeli al loro voto di obbedienza al papa, non solo rispettano l'interdetto, ma spingono i pochi sacerdoti rimasti sull'isola a fare altrettanto. Questa plateale ed aperta sfida all'autorità reale non può essere tollerata e Vittorio Amedeo da incarico al viceré, conte Maffei, di organizzare le contromisure. Questi, con un colpo di mano a sorpresa, decide di espellere dalla Sicilia tutti i membri della compagnia di Gesù. Li imbarca quindi su delle galee con l'ordine di portarli a Roma. Questo massiccio arrivo di ecclesiastici siciliani risulta troppo per le finanze apostoliche, che sono già costrette a mantenere un numero esorbitante di gente oziosa. Così, il papa Clemente XI comincia a chiedersi se, in fin dei conti, non si sia andati oltre in un casus belli scoppiato a causa di pochi ceci. Ma ormai si era messo in moto un meccanismo infernale che nessuno sembrava più in grado di fermare.
Così solo il tempo ed il caso si incaricarono di risolvere la capricciosa vicenda. Nel 1718 un capovolgimento degli avvenimenti provoca un nuovo aggiustamento nel precario equilibrio europeo. Vittorio Amedeo di Savoia è costretto a cedere la Sicilia all'imperatore Filippo V di Spagna, che era già re di Napoli. Per non fargli perdere anche la dignità regia, Vittorio Amedeo viene compensato con un'altra isola, la Sardegna. Cambiato il sovrano, il nuovo signore della Sicilia non vuole sapere niente della lunga guerra dei ceci. A sua volta Clemente XI considera un gran bene che l'affare venga ufficialmente dimenticato. La conseguenza naturalmente è che l'autorità del tribunale della monarchia rimane intatta. Insomma era stato fatto "molto rumore per nulla". Soprattutto se si considera che la disputa era scoppiata a causa di pochi legumi.
Il richiamo a questa lontana vicenda non vuole suggerire alcuna "morale". Semmai esso consente di formulare un auspicio. Vale a dire la speranza che il centrosinistra si dimostri almeno capace di scongiurare quella che rischia di essere simile ad una anacronistica "guerra dei ceci".
Mercoledì, 15. Giugno 2005