Il brutto clima di Copenhagen

Tentiamo la decrittazione di un bizzarro “accordo/non accordo”, concluso, nonostante gli sforzi di Obama e il tentativo del “G2” Usa-Cina, senza nessun percorso né alcuna agenda per arrivare a quegli obiettivi, oltretutto insufficienti, di cui i partecipanti hanno solo “preso nota”

Quando ormai il sabato era cominciato da tempo, una manciata di paesi di quelli che non contano niente (inclusi Venezuela, Bolivia, Sudan e Nicaragua) proclamavano però che quel patto loro non lo firmavano. La minaccia cominciava a diventare corposa anche con altri annunci, pronunciati magari a mezza bocca ma in modo che li ascoltassero i membri di qualche decina di delegazioni.

Molti dei negoziatori presenti, stremati dal prolungarsi ad oltranza dei colloqui, in un vertice dove – al contrario di come avviene sempre – niente era stato davvero pre-trattato, pre-scritto e pre-concordato, cominciavano a implorare gli altri. In un gesto teatrale che sembrava quasi suggerito da quel grande attore del suo presidente, Chávez, una delegata venezuelana, per sottolineare la sua opposizione all’accordo, s’è tagliata – beh… s’è tagliuzzata – i polsi.

Alla fine non c’è stato niente da fare, i riottosi non sono stati convinti è stato possibile (c’è chi ci ha provato) comprarli. Così, la dichiarazione finale dell’Accordo di Copenhagen non è stata adottata. Se ne è “preso nota”, semplicemente: notazione del tutto anomala e, in realtà, senza precedenti per un vertice internazionale il cui scopo finale era addirittura un qualche Trattato se non proprio immediatamente applicabile giuridicamente almeno politicamente vincolante. Ma, così, che vuol dire, questo nebulosissimo “accordo”?

La prima delusione è stata questa: qualcuno ha cercato di valutare la faccenda come una questione di procedura, non di sostanza; ma il fatto è che il lungo e, al dunque, ristretto, ristrettissimo, conclave del Bella Center di Copenhagen – al dunque, il duo USA e Cina che ormai vedremo all’opera sempre più di frequente – non è riuscito neanche a produrre un patto non vincolante ma capace almeno di consentire a tutti, magari in modo imperfetto, di riconoscervisi anche solo come dichiarazione di intenti. Di qui, quell’anodino prender nota finale e niente di più.

L’accordo che Obama ha alla fine forgiato irrompendo in quello che era un incontro privato tra i leaders di Cina, India, Sudafrica e Brasile, ha tagliato di fatto fuori dal processo, che formalmente era un negoziato internazionale, gli altri 188 paesi rappresentati al Vertice. Di qui tutto il resto: la non firma dell’ONU, che lascerà alla Danimarca, presidente del Vertice come ospitante, il compito di raccogliere le firme che potrà trovare nelle prossime settimane, segnala – e sottolinea – il fatto che il testo non è stato adottato all’unanimità, non ha alcun peso legale o alcuna portata ufficiale e non ha, dunque, titolo a giocare alcun ruolo nelle future decisioni in materia delle Nazioni Unite.

E questo è un fiasco fino alla vigilia da nessuno pensabile che minaccia di far precedente e di mettere a rischio la governance internazionale nata al Vertice della Terra di Rio de Janeiro del 1992 e che nel 1997 aveva prodotto il Protocollo di Kyoto. Ha detto chiaro il segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC), Yvo de Boer, che bisogna capire “lucidamente che questo documento, come è stato ben detto, è solo una lettera di intenti e non precisa quel che chiede o obbliga a fare in termini legali. E la sfida, adesso, è di volgere quanto abbiamo concordato politicamente a Copenhagen in qualcosa di concreto, di misurabile e di verificabile” (1).

Già, ma cosa hanno davvero concordato, come dice de Boer, “politicamente”? Convertire quest'accordo in azioni sensate, in fatti efficaci sarà un problema. Con tutta la drammaticità, e perfino l’iperbole secondo alcuni, che provoca la lettura della documentazione scientifica che sta alla base delle cinque cartelle del documento, esso resta estremamente vago, lasciando irrisolte quasi tutte le specifiche chiave. Proclama chiaramente che ci vuole, al minimo, un target che impegni a mantenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2°c. Ma, poi, mancano tutti gli obiettivi intermedi sui tagli di emissioni capaci di farci arrivare allo scopo.

Perfino la parte del documento che elencava la lista degli impegni nazionali di ciascun paese al momento è stata lasciata in bianco (2): infatti i cosiddetti leaders hanno avuto dall’ONU (in modo esso stesso arbitrariamente deciso, del resto) l’assenso a riempire la lista degli impegni nell’Appendice entro il 1° febbraio prossimo. Solo che chi ci crede, ormai? Anche se quegli impegni venissero formalizzati e rispettati, in ogni caso, finirebbero col mettere il mondo su un percorso di aumento della temperatura globale intorno ai 3°c. Lo dichiarano le analisi ufficiali dell’UNFCCC stesso, rese note proprio a Copenhagen, che quella strada porterebbe, in pratica molto presto, già nel decennio prossimo forse, a mettere a rischio di sopravvivenza parecchie nazioni africane e quasi tutte le piccole isole in giro per il mondo.

Queste ultime asseriscono, e nessuno è in grado di smentirle o rassicurarle, che firmare un patto per un aumento di temperatura superiore a 1,5°c. già significherebbe per loro, alla luce delle ultime analisi dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change— Gruppo di studio intergovernativo sul cambiamento climatico), sottoscrivere un consenso al suicidio.

Dopo due settimane di negoziato del tutto impantanato, l’unico vero progresso raggiunto dal Vertice è stato sul finanziamento degli aiuti che dovranno servire ai paesi in via di sviluppo per far fronte alla sfida del cambiamento climatico. I paesi industrializzati hanno indicato che avrebbero sborsato 10 miliardi di $ all’anno per tre anni in cosiddetti fondi di avvio rapido del processo e 100 miliardi all’anno a partire dal 2020 in fondi di lungo termine. Ma, anche qui, sono stati lasciati in bianco tutti gli impegni cifrati di lungo periodo. Il documento neanche fa cenno alla possibile provenienza, o alla possibile distribuzione poi, di quei soldi.

E su un altro fronte chiave – convincere la Cina ad accettare un monitoraggio indipendente dell’effettivo livello delle emissioni nazionali di anidride carbonica (oltre la metà delle quali nel caso loro, del paese che cioè emette più gas serra in assoluto anche se solo un quarto pro-capite degli americani, è frutto della produzione di beni di consumo per l’occidente) – non c’è stato proprio nessun progresso.

Del resto impossibile se, a richiesta cinese precisa di pariteticità del valore giuridico degli impegni di tutti, il presidente Obama ha dovuto personalmente rispondere che non basta la sua parola perché, come per tutti i trattati internazionali, ogni decisione di rinuncia alla sovranità nazionale in America spetta al Senato. Notoriamente sempre riluttante, e specie in questi ultimi anni, a concederla… Così, ora, il linguaggio che spiega i meccanismi di verifica e di comunicazione somiglia a, ed è, più una contorsione semantica che un piano di azione (3).

L’ultima fase dei lavori si è tenuta, formalmente per decisione della presidenza danese, in una riunione fiume del gruppetto Obama + quattro allargato a un’altra ventina di capi di Stato o di governo. Tra cui, naturalmente, per l’Europa come tale, che Stato non è neanche per finta e che comunque era altrettanto naturalmente svincola e sparpagliata, non c’era nessuno. Si sono anche guardati bene dall’invitare l’Italia (se l’avessero fatto, ci sarebbe stata, del resto, la signora Prestigiacomo…: il cavaliere era indisposto, ma non aveva proprio previsto di andarci comunque). E’ stato chiesto, invece, di partecipare, oltre a Stati Uniti, Cina, Brasile, India, Sudafrica, a Gran Bretagna, Svezia, Spagna, Arabia saudita, Russia, Messico, Isole Maldive, Grenada, Etiopia, Lesotho, Algeria, Danimarca, Germania, Corea del Sud, Bangladesh, Francia, Gabon… e tre altri piccolissimi Stati.

Date le molteplici omissioni dell’Accordo, nessuno dei partecipanti alla fine era contento dell’esito finale della conferenza. Molti degli attori-chiave l’hanno sostenuta molto malvolentieri, solo per evitarne la dichiarazione di fallimento ufficiale (e, probabilmente, ha aiutato il fatto che l’accesso ai 10 miliardi di $ di contributi ai paesi in via di sviluppo fosse legato al passaggio, in qualche forma, dell’Accordo). Anche il primo ministro danese, Lars Løkke Rasmussen, che come ospitante era nei fatti obbligato a fare il tifo per il Vertice e a dirne il massimo bene possibile, alla fine ne ha dato una valutazione davvero tiepida: “Sì, io sono soddisfatto; alla fine, un risultato lo abbiamo ottenuto”.

L’UE, che come abbiamo visto si era di fatto lasciata tagliare fuori da tutta la sessione finale – quella presa in mano da Obama – e che aveva annunciato come avrebbe potuto anche allargare il suo impegno a far scendere le emissioni di sua produzione del 30% dai livelli del 1990 entro il 2020 se altri avessero fatto passi avanti anche loro; e che, se si fosse esplicitamente alleata a contestare la presidenza di fatto con altri, forse avrebbe potuto anche sfondare: ma uno, come insegnava l’immortale don Abbondio, se il coraggio non ce l’ha mica se lo può dare… – alla fine è rimasta dov’era, a un impegno – come per tutti, solo verbale – del 20%.

D’altra parte, proprio lo scavalcamento unilaterale, prepotente, del protocollo e delle procedure universaliste del Vertice, di ogni Vertice delle Nazioni Unite, ha irritato di brutto i paesi in via di sviluppo che considerano questo uno dei pochi Forum in cui hanno anche loro diritto a essere sentiti e che qui, quasi quattro su cinque, se lo sono visto negare. Vedendosi, poi, sottoporre a pressioni straordinarie per dire comunque sì a una bruttura, irrilevante, se non peggio dì soluzione finale.

Adesso la realtà è che toccherà al Senato degli Stati Uniti dettare ancora una volta le sue condizioni non solo al presidente americano ma, di fatto, al mondo. Ormai le prospettive di arrivare ad affrontare la problematica rovente (gioco di parole anche facile, è vero) del cambiamento climatico attraverso i meccanismi delle Nazioni Unite sembrano scarse. Obama, nella dichiarazione che ha rilasciato prima di partire, ha assicurato che lui e gli altri leaders restano impegnati per il futuro alla prospettiva di un trattato giuridicamente vincolante, ma nell’Accordo di cui è stata solo “presa nota” non c’è nessun percorso né c’è alcuna agenda per arrivarci, eccetto che per alcuni appuntamenti di massima che, probabilmente, poi scivoleranno in avanti.

Il documento scarta dichiaratamente anche la road map che era pure stata negoziata per arrivare a un testo successore del protocollo di Kyoto (4). Adesso, bisognerà provare a ricominciare da capo, dalla nuova sessione bisettimanale negoziale che è stata calendarizzata a partire dal 31 maggio a Bonn. Mentre il prossimo vertice ad alto livello è previsto a Città del Messico, a novembre dell’anno prossimo.

Nei giorni che hanno preceduto la conclusione-flop del vertice, Mikhail Gorbaciov aveva scritto (5) con quella che a noi, francamente, pare una voce di grande saggezza e responsabilità, che “non è solo di ambiente che si tratta… In pratica, questa questione è collegata direttamente a tutti i problemi coi quali oggi dobbiamo fare i conti, anche al bisogno di creare un modello economico globale fondato sul bene comune. Ed è direttamente associata anche alle grandi questioni di sicurezza e a conflitti pericolosamente montanti, etnici e internazionali, alle migrazioni e agli spostamenti di massa di popoli interi…, alla povertà crescente e all’ineguaglianza sociale, alla scarsità di acqua ed energia e alla fame…

“Per questo, su questa faccenda, siamo tutti cointeressati e abbiamo tutti un ruolo da spendere: ma governi ed istituzioni hanno il ruolo chiave. E’ compito loro fissare le norme e gli standard necessari a lottare contro il cambiamento climatico e solo gli Stati possono mobilitare risorse e incentivi in grado di mettere in moto le necessarie tecnologie d’avanguardia…E’ a loro che spetta oggi decidere, a Copenhagen, se l’inizio di risposta al problema sarà forte e convincente o se sarà debole”… Beh, adesso abbiamo visto quel che non hanno deciso, cioè hanno in effetti deciso, alla fine.

Oggi, la realtà dice come “la scienza più autorevole avverta che siamo di fronte a un’emergenza reale”: che dovremmo “limitare l’aumento della temperatura globale ad 1 o 2°c.”, obiettivo fatto proprio a luglio, ufficialmente, dal G-20 dell’Aquila che, in ogni caso, “comporterà già grandi e inevitabili distruzioni…” ma i compromessi cui stanno arrivando tra loro i negoziatori che preparano Copenhagen “garantiscono in pratica aumenti di temperatura intorno ai 4° c.— ben dentro l’escursione termica del rischio catastrofico”.

Perché? ma è chiaro, dice colui che fu l’ultimo presidente dell’Unione sovietica e che ebbe il coraggio di lasciar rimettere in questione un sistema bacato, uwestion un asistenma bacato, “a causa dell’inerzia del modello economico esistente, basato su superprofitti e consumi eccessivi; per l’incapacità di pensare a lungo termine di leaders politici ed economici; per la preoccupazione che il taglio delle emissioni carboniche taglierà la crescita… una preoccupazione sfruttata da quanti non vogliono alcun cambiamento”…

“Ciò di cui abbiamo bisogno è la ricerca di nuovi motori di crescita e nuovi incentivi di sviluppo economico… che creeranno nuove industrie verdi, nuove tecnologie, nuovo lavoro...  un’economia a basso tasso di emissioni, parte integrante di un nuovo modello di economia, di cui il mondo ha bisogno esattamente quanto ha bisogno dell’aria che respira.

“Ma la transizione al nuovo modello – che dovrà essere riorientato al bene comune: un’ecologia sostenibile, la protezione della salute, l’istruzione, la cultura, le uguali opportunità come diritti a tutti fruibili e la coesione sociale” al posto del profitto come stella cometa di tutto e per tutti “ha bisogno di tempo, anche perché richiede un mutamento di rotta valoriale. Questo, sia chiaro, è un bisogno, però. Non solo un imperativo morale”.

 

Note
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1) COP15 Daily Brief: the Copenhagen Accord, 20.12.2009, (http://www.copenhagenclimatecouncil.com/get-informed/ news/cop15-daily-brief-the-copenhagen-accord.html).

2) L’Appendice, che ora riproduce la griglia in bianco, svuotata di dichiarazioni d’impegno (http://twitpic.com/u5uf3), era ancora riempita appena un giorno prima dai targets proclamati come propri obiettivi nazionali, appunto, anche se in maniera ancora solo indicativa, dai vari paesi (ad esempio, Stati Uniti, Cina, Unione europea, ecc.) nel testo della famosa bozza “danese”, con cui alla fine della prima settimana, i paesi sviluppati avevano invano tentato di forzare la mano alla conferenza (www.guardian.co.uk/environment/2009/dec/08/copenhagen-climate-change).

3) Il linguaggio iniziale, sui cui insistevano americani e europei, “verifica internazionale”, di fronte a questa precisa obiezione, era diventato “esame e valutazione internazionale” e, in quella alla fine approvata per iniziativa personale di Obama, è diventato un insignificante “consultazioni ed analisi internazionali”… Che significa, hanno chiesto infatti, dopo che Obama era partito, all’ambasciatore brasiliano Sergio Serra che aveva partecipato a tutti i lavori? e la riposta è stata che quel che significa andrà definito “da appositi negoziati a livello internazionale”…

4) Era il percorso, ed il testo ancora in bozza ma già elaborato per l’approvazione finale qui a Copenhagen, passato all’unanimità nel 2007 al precedente vertice UNFCCC di Bali, in Indonesia (http://unfccc.int/meetings/cop13/items/40 49.php).

5) Editoriale per il Club di Madrid, pubblicato sul New York Times, 10.12.2009, M. Gorbachev, We have a real emergency— L’emergenza che abbiamo è un’emergenza reale (http://www.nytimes.com/2009/12/10/opinion/10iht-ed gorbachev.html html).

Martedì, 5. Gennaio 2010
 

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