Il “voto inutile” è solo quello non dato

I sondaggisti affermano che, a pochi giorni dal voto, ci sarebbe un alto numero di potenziali atensionisti. Una delle motivazioni sarebbe nell'eccessiva somiglianza dei programmi dei due partiti maggiori: ma, al di là di quanto viene ritenuto necessario per contendere all'avversario l'area degli indecisi non schierati, ci sono almeno due discriminanti di fondo che li diversificano nettamente

Secondo gli esperti, a pochi giorni dal voto tre elementi sembrerebbero destinati ad influenzarne l’esito. Il numero degli indecisi sarebbe ancora molto alto; gran parte degli indecisi finirà per astenersi; tra gli astensionisti una larga maggioranza potrebbe provenire dalle fila del centrosinistra. Sappiamo bene che la funzione degli esperti non è di avere più ragione della gente comune, ma di sbagliare con motivazioni più sofisticate. Nel caso concreto, tuttavia, la loro previsione non sembra così immotivata.


Provo ad indicarne le ragioni. La prima è espressa dalla delusione che le piattaforme programmatiche delle due principali forze politiche in competizione non sarebbero così radicalmente alternative, come alcuni avrebbero invece desiderato. Questa valutazione è abbastanza ricorrente nel dibattito pubblico. Ma, personalmente, non la considero particolarmente fondata. In effetti, malgrado la disputa tra comari del vicinato circa “chi avrebbe effettivamente copiato chi”, credo che le assonanze (o persino le analogie, se si preferisce) siano soltanto indicative dell’esistenza di una quota di elettorato mobile più o meno sensibile agli stessi temi, per i quali è ragionevole immaginare soluzioni non troppo dissimili. Si tratta ovviamente di una quota di elettorato che tanto il PD che il PdL ambirebbero conquistare e verso il quale cercano dunque di essere corrivi. Quanto meno nella misura del possibile. In ogni caso, se si esclude qualche piccola sovrapposizione, si deve riconoscere che, nel loro insieme, i programmi sono tutt’altro che uguali. In questo ambito capita, in sostanza, quello che normalmente avviene in cucina. Dove si cucinano piatti assolutamente diversi anche quando viene utilizzato un certo numero di ingredienti comuni.  

Per di più non si può ignorare che esistono due discriminanti di peso tra il programma del PD e quello del PdL. Si tratta della tensione all’equità, in una situazione economica che produce crescenti diseguaglianze ed il rilievo che viene attribuito alla tradizione, in un contesto che esigerebbe invece soprattutto innovazione. Sul primo punto i termini del problema sono presto riassunti. Chi sta in alto nella scala sociale tende sostanzialmente a conservare l’ordine di cose esistente e chi sta in basso tende invece di modificarlo. Con la speranza di renderlo più equo e sopportabile. Sul piano concreto il PdL si colloca idealmente e praticamente dalla parte dei primi, mentre il PD cerca di farsi interprete delle ragioni dei secondi.

Veniamo al secondo aspetto. Il PD punta le sue carte soprattutto su modernizzazione ed innovazione, mentre nel PdL è più avvertito il richiamo della tradizione. Che è sempre il punto di appoggio di tutti i discorsi sull’identità. Il richiamo alla tradizione è tipico di tutta la destra. E non solo in Italia. Nello schieramento della destra italiana  sono però soprattutto le componenti di Alleanza Nazionale e della Lega ad impegnarsi particolarmente su questo fronte. Con qualche significativa variante di forma. Mi riferisco al fatto che mentre Alleanza Nazionale non risparmia gli inchini retorici a Dio, Patria e Famiglia, la Lega ama di più i travestimenti con costumi medioevali. Al punto che lo stesso Bossi è ancora incerto sul da farsi. Se sia cioè preferibile “imbracciare il fucile” contro “Roma ladrona”; oppure, in caso di vittoria del PdL, presentarsi al Consiglio dei ministri indossando l’elmo con le corna dei celti. Naturalmente, si può anche soprassedere sul folclore. Non andrebbe  invece sottovalutato il fatto che il richiamo alla tradizione esprime, di norma, la difesa ed il rimpianto per gli antichi privilegi. Tradizione significa infatti dare una importanza spropositata alla più oscura di tutte le classi: i propri antenati. “E’ la democrazia della morte”, sosteneva giustamente Chesterton. Perché spinge a “guardare con fiducia” al passato. E quando questi atteggiamenti si trasformano in politica, la politica viene fatta guardando fondamentalmente nello “specchietto retrovisore”.

Considerati questi elementi ritengo che, più che la somiglianza tra le scelte programmatiche, a determinare le ragioni di inquietudine, in una parte di vecchi elettori di centro sinistra, siano piuttosto le preoccupazioni circa le possibili (o supposte) evoluzioni del sistema politico. Cosa intendo dire? Innanzi tutto che è bene non dimenticarsi come è cominciata 14 anni fa. Berlusconi raggiunse il successo con una accelerata americanizzazione dell’iniziativa politica; con la mediatizzazione delle relazioni con l’elettorato; con l’uso in politica di tutte le tecniche proprie del marketing commerciale. Non potendo ancora contare su una formazione politica già insediata sul territorio utilizzò soprattutto le sue ingenti risorse economiche ed il monopolio che deteneva (e detiene) sulle televisioni private. Da molti, questa impresa venne inizialmente vista come una anomalia destinata a sfociare in un “partito virtuale”, di “plastica”. Dunque senza la possibilità di svolgere un ruolo duraturo. Le vicende successive si incaricarono però di smentire questi giudizi e le previsioni che li accompagnavano. Tanto è vero che, man  mano che le reti politiche ed organizzative delle forze più strutturate si andavano sbriciolando, il partito “americano” di Berlusconi ha finito per trovare un numero crescente di imitatori. Persino tra i suoi più feroci critici. Non è un caso che i partiti vecchi e nuovi siano diventati sempre “più leggeri” e sempre più identificati con la persona di un leader capace soprattutto di condurre campagne mediatiche.

Questo è un punto che meriterebbe maggiore riflessione. Tenuto conto che nel corso  della campagna elettorale, ormai arrivata agli sgoccioli, le trasformazioni impresse da Veltroni al PD hanno coraggiosamente risposto alle domande di novità presenti nell’opinione pubblica. Ma senza ignorare che, nello stesso tempo, hanno riproposto la tendenza all’americanizzazione dell’iniziativa politica. Questo sviluppo si è manifestato in molteplici forme. Innanzi tutto, la figura del leader si è sovrapposta a quella del partito, fino a sovrastarlo. E poi gli eventi della campagna elettorale, compresa la catena di annunci della candidature “inattese”, sono stati costruiti sapientemente in funzione della comunicazione mediatica. E si potrebbe continuare. Ecco perché ritengo che la vera ragione di inquietudine, più che nella (irrilevante) somiglianza tra i programmi delle due maggiori forze politiche, andrebbe ricercata nel fatto che le “forme” della politica tendono invece a diventare uguali.  Fino al punto che si sta affermando una concezione della politica fondata su un rapporto diretto leaders ed elettori. Senza nulla in mezzo. Di fatto, si passerebbe così dalla politica intesa come “partecipazione” alla politica intesa come “rappresentazione”. Perché vi si può soltanto assistere. Da qui il timore, soprattutto a sinistra dove certamente più diffuso è stato il costume partecipativo, che si sia avviato un processo che sta portando dal “bipolarismo”, al “bipartitismo”, per arrivare alla fine al “bileadersimo”.

In questo contesto, anche i ripetuti appelli al “voto utile” sono giustamente interpretati in modo non proprio rassicurante. Intanto perché lo spauracchio del “voto inutile” può incoraggiare l’astensione. Con il rischio di escludere dalla rappresentanza democratica culture ed identità politiche tutt’altro che marginali. Rischio sicuramente alimentato dalla costrizione (psicologica) a scegliere tra due partiti. Sostenendo ingannevolmente che i voti dati ad altri non servono a nulla. Sarebbero appunto “inutili”. Quasi fossimo già, di fatto, in un regime bipartitico. Il risultato di un simile approccio finisce per essere quello di togliere passione e motivazione ad elettori che non si riconoscono in nessuna delle due forze. Incoraggiandoli, in buona sostanza, a restarsene a casa.

Vorrei osservare tuttavia che proprio quanti sono  critici verso una evoluzione bipartitica del nostro sistema politico avrebbero, per così dire, una ragione in più per recarsi alle urne. Sappiamo tutti infatti che una legge elettorale demenziale priva gli elettori italiani della possibilità di decidere sulla formazione della rappresentanza parlamentare. Con il nostro voto non siamo assolutamente in grado di stabilire chi dovrà andare in Parlamento e chi no. Al contrario, il nostro voto può essere invece decisivo per prefigurare gli approdi più adatti al sistema politico. A incominciare da  una politica che include, rispetto ad una che invece esclude.

Un punto va messo perciò assolutamente in chiaro. Chi pensa che questo sia un problema dovrebbe almeno prendere coscienza che c’è un solo “voto inutile”. Ed è quello che non viene dato. D’altra parte, è fin troppo ovvio che abbia poco senso esprimere critiche sul viaggio e la destinazione, lasciando poi solo agli altri il diritto a decidere l’itinerario e la meta.

 

Mercoledì, 9. Aprile 2008
 

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