Il principio dellautonomia del sindacato fa parte, ormai da tempo, di quellinsieme di formule ideologiche sulle quali sembra esserci un consenso generale. Lautonomia non ha più avversari dichiarati, e quindi lopinione corrente è che si tratta di un problema definitivamente risolto.
Mi sembra una conclusione del tutto affrettata e superficiale. Le rappresentazioni ideologiche hanno un rapporto complesso, e spesso contraddittorio, con la realtà, e non è mai un buon metodo quello di giudicare una determinata realtà sociale sulla base delle sue strutture di auto-rappresentazione.
Lindagine scientifica è tale solo quando sa penetrare oltre il velo delle ideologie.
Vale ancora oggi la tesi di Marx: è lessere che determina la coscienza, e non viceversa. Se invece ci arrestiamo al livello delle rappresentazioni, finiamo rapidamente fuori strada, fuori cioè da una capacità di osservazione oggettiva dei fenomeni storico-sociali.
Dovremmo ad esempio concludere che la democrazia politica è ormai pienamente realizzata, perché essa ha vinto sul terreno ideologico, presupponendo una coincidenza di ideologia e realtà che solo raramente è dato di verificare.
Il consenso unanime non è mai un segno di forza, ma di ambiguità. Quando tutti dicono la stessa cosa, tutti sono autorizzati ad interpretarla nei modi più diversi.
La parola che entra nel linguaggio del senso comune paga il prezzo di perdere il suo valore conoscitivo, la sua capacità di segnare un confine, in opposizione ad altre parole e altri concetti. La parola è ritualizzata, e con ciò è resa inoffensiva.
Lindipendenza è solo il primo passo
Ho limpressione che anche lautonomia stia entrando nel regno delle parole che hanno perduto il loro significato. In un recente Congresso della Fiom, avvertendo forse questa usura della parola autonomia , Claudio Sabattini aveva lanciato lo slogan dellaindipendenza del sindacato. Questa proposta suscitò una fortissima polemica, e alla fine fu lasciata morire. E una vicenda rivelatrice, perché dimostra come un semplice slittamento terminologico, tutto sommato innocuo, possa essere motivo di scandalo e faccia riemergere tutto un fondo oscuro di ostilità e di resistenza che sembrava essere stato rimosso.
E la prova dellesistenza di un problema tuttaltro che risolto. In realtà, quella proposta era criticabile non per il suo supposto radicalismo, ma allopposto per il significato più restrittivo che appartiene alla parola indipendenza.
Lindipendenza del sindacato è sostanzialmente conseguita, perché non cè più un centro decisionale esterno che possa imporre le sue condizioni.
Ma il concetto di autonomia rappresenta qualcosa di più pregnante, non significa solo essere al riparo dalle interferenze, ma saper predisporre, nel proprio ambito esclusivo, le ragioni costitutive della propria regolazione.
Come sanno bene i paesi ex-coloniali lindipendenza è solo il primo passo, che modifica solo gli aspetti formali e non quelli sostanziali, e il cammino verso lautonomia richiede un processo assai più faticoso, per costruire un proprio originale modello di organizzazione sociale. Allindipendenza basta lassenza di coercizione esterna, allautonomia serve una forza interna di auto-organizzazione.
A me sembra che il sindacato si trovi esattamente in questo passaggio non realizzato dallindipendenza allautonomia.
Ma non è solo un problema del sindacato, è lintera società nazionale che si trova in una condizione instabile, in una transizione incerta, non essendo tracciato in modo chiaro il rapporto della politica con la società civile. Le autonomie sociali restano tuttora confinate in ambiti residuali, corporativi, periferici, mentre il sistema politico tende ad occupare tutti gli spazi disponibili, secondo una logica invasiva, e tende ad imporre a tutto il corpo sociale una sorta di bipolarizzazione forzata: il rapporto della società con la politica diviene un rapporto di vassallaggio.
Sotto questo profilo, il passaggio alla cosiddetta seconda repubblica ha rappresentato un deciso arretramento, un restringimento ulteriore degli spazi di autonomia.
Secondo lideologia del maggioritario, nella sua versione fondamentalista che quasi nessuno ha saputo o voluto contrastare, tutta la vita democratica si riassume, senza residui, nel meccanismo della competizione bipolare, perché la democrazia altro non è che la legittimazione popolare dellautorità di governo.
Una società civile colonizzata
Sono chiaramente visibili tutti gli effetti perversi che derivano da questa concezione, nel campo della giustizia, dellinformazione, nella vita delle istituzioni, in quanto non cè più nessuna possibile funzione di regolazione imparziale e tutto è piegato alle necessità contingenti della lotta politica. Il quadro che ne esce è quello di una competizione onnipervasiva, rompendo così lequilibrio costituzionale basato sulla divisione e sul bilanciamento dei poteri. Ci si era illusi, con lintroduzione del sistema maggioritario, di alleggerire linvadenza dei partiti e di valorizzare lautonomia della società civile, e su questo motivo era fiorita tutta una vasta letteratura retorica.
E accaduto il contrario: la società civile è interamente colonizzata. Ai partiti politici, che avevano almeno una funzione di promozione della partecipazione democratica, sono subentrate oligarchie sempre più ristrette e irresponsabili.
E in questo quadro che tutte le parole tradizionali del nostro vocabolario politico democrazia, autonomia, partecipazione, pluralismo subiscono una violenta torsione e rischiano di perdere del tutto il loro originario significato.
Siamo entrati in uno scenario del tutto nuovo, che ha sovvertito le forme della politica, le regole, gli attori, le strutture organizzative. Il vecchio apparato ideologico, di stampo liberal-democratico, sopravvive ormai stancamente, come fatto residuale, in un contesto che lo deforma e lo stravolge; si usano le stesse parole, ma le relazioni oggettive sono ormai di tuttaltra natura.
Anche il sindacato è stretto in questa morsa. La sua autonomia è formalmente riconosciuta, ma nella realtà è fortissima la pressione politica per costringere il sindacato a schierarsi nella competizione bipolare: il sindacato diviene uno dei tanti campi di battaglia dove si giocano i rapporti di forza politici.
E le divisioni attuali sono leffetto di questa pressione, sono il segno di una difficoltà oggettiva a tenere saldo il campo dellautonomia sociale.
Da un lato lautonomia viene declinata in termini corporativi, cercando di gestire i pochi spazi residuali di una concertazione ormai asfittica, e dallaltro lato cè unazione sindacale che assume sempre più le forme dellopposizione politica, dello scontro frontale, della mobilitazione per unalternativa di governo.
In entrambi i casi, è lautonomia del sindacato come soggetto sociale che viene messa a rischio. Le divisioni sindacali sono dunque il riflesso del nuovo clima politico. Non si tratta, per ora, di una rottura irreversibile, ma occorre aver chiaro che senza lo sforzo deciso per una inversione di rotta tutta la situazione può rapidamente precipitare.
Il rischio di un bipolarismo sindacale
La tendenza in atto, se non viene rovesciata, può condurre ad una crisi definitiva dellesperienza unitaria del sindacalismo confederale, può cioè accadere che la logica della bipolarizzazione politica prevalga e che anche il sindacato sia trascinato su questo terreno. Questo può accadere anche in modo del tutto indipendente dalle intenzione soggettive, per una catena consequenziale di processi che non si sanno controllare e di cui sfugge la portata.
Ancora una volta, contano i processi reali e non i loro riflessi ideologici. Lautonomia, quindi, non è affatto un risultato acquisito, consolidato, ma è al contrario un aspetto del tutto problematico.
Non si è ancora valutata, in tutta la sua portata, la radicale mutazione di cultura politica che si è consumata con il collasso della Democrazia Cristiana come perno centrale del sistema politico. La cultura democristiana era una cultura di mediazione, che si fondava sul riconoscimento del pluralismo politico e delle autonomie sociali, affidando alla politica il compito di una sintesi, come esito non di un atto di imperio, ma di una complessa capacità di relazione con la società italiana e con le sue reali articolazioni.
Il principio dellautonomia dei soggetti sociali entrava quindi organicamente nella strategia democristiana, non solo per ragioni di duttilità tattica, ma per un orientamento di fondo dellelaborazione politica del cattolicesimo democratico, che ha sempre concepito la società nelle sue concrete articolazioni, come un insieme di corpi sociali intermedi, come una rete di relazioni interpersonali che lo Stato deve saper riconoscere e tutelare, senza imporre un proprio ordine esclusivo.
Il principio della sussidiarietà, che è un importante aspetto della dottrina sociale della Chiesa, significa appunto che cè un primato della società e che lo Stato è solo un regolatore a posteriori, per risolvere quei problemi e quegli squilibri che travalicano lambito dellautonomia sociale.
Lesito di questa impostazione si può criticare, perché ciò che ne esce è tutto sommato un equilibrio conservatore. Ma è un equilibrio aperto, che lascia spazio alliniziativa sociale. Naturalmente, non cè stata una totale corrispondenza tra limpostazione teorica e la concreta azione di governo, e anche la DC ha spesso agito nella logica delloccupazione del potere. Ma comunque ci si muoveva in un quadro teorico che lasciava aperti molti spazi, e in questi spazi lesperienza del movimento sindacale unitario ha potuto svilupparsi positivamente.
Con lattuale maggioranza di centro-destra questa impostazione viene totalmente rovesciata: Berlusconi non è lerede della DC, ma il suo becchino.
Il modello che si sta affermando è quello di una totale verticalizzazione del sistema politico, per cui tutto il potere decisionale viene concentrato in un solo punto.
Una volta avvenuta la legittimazione popolare, tutto si deve disporre secondo un ordine gerarchico, e ciò che non si adatta a questo ordine deve essere messo a tacere, perché confligge con la sovranità democratica, la quale si trova tutta condensata nel vertice dello Stato e nel capo carismatico scelto dai cittadini.
In questo schema teorico, il concetto di autonomia è del tutto privo di senso. E tutta la strategia del centro-destra ha come suo chiaro filo conduttore lobiettivo dichiarato di ricondurre le autonomie sotto il dominio della sovranità politica, si tratti della magistratura o degli organi di informazione, delle istituzioni di garanzia o delle rappresentanze sociali.
Il potere non è più disposto a mediare, a concertare, a costruire la decisione attraverso le vie del confronto e del consenso.
Alla concertazione si sostituisce il decisionismo politico. Il processo non è più dalla società allo Stato come regolatore di ultima istanza, ma è la trasmissione gerarchica del potere, dallalto verso il basso.
Non cè più dunque nessuna dialettica tra potere e rappresentanza, tra funzione di governo e autonomie sociali, perché la democrazia si esaurisce nellatto fondativo che consegna al governo piena legittimità e poteri assoluti.
La democrazia cessa di essere un processo plurale al quale concorrono le diverse rappresentanze in cui si articola la società nazionale, cessa di essere un processo di coinvolgimento e di partecipazione e si riduce allesercizio del potere legittimamente costituito.
Opacità della sinistra
Potremmo trovare qui, in questa opposizione di due modelli democratici alternativi, verticalizzazione o sviluppo delle autonomie, concentrazione del potere o pluralismo delle rappresentanze, il senso più profondo della dialettica politica tra destra e sinistra, nella fase attuale.
Ma ciò non è affatto scontato: è solo una possibilità, un percorso che può essere imboccato, ma non è, allo stato delle cose, unalternativa evidente e immediatamente percepibile.
La destra ha messo in chiaro le sue carte, ma la sinistra è ancora oscillante e non ha elaborato una sua precisa strategia.
Non si tratta solo della resistenza e della forza di inerzia di una vecchia cultura statalista; se fosse così, la situazione non sarebbe allarmante, perché le resistenze prima o poi finiscono, e ciò che è avviato al declino può solo rallentare ma non impedire la sua fine.
Le difficoltà della sinistra, lopacità del suo discorso che le impedisce di costituirsi come unalternativa democratica convincente, non stanno essenzialmente nel suo passato, nella sua tradizione, ma piuttosto nei percorsi che si sono imboccati per superare quella tradizione. La sinistra ha corretto i suoi schemi ideologici tradizionali, e talora li ha anche troppo brutalmente e sommariamente liquidati.
Ma in quale direzione? Se il punto critico di quella tradizione era rappresentato, come io credo, dalla sopravvalutazione della politica e della sua funzione regolatrice, dallidea di un primato della politica che portava in sè tendenze dirigistiche e anche autoritarie, se linnovazione necessaria consiste nel declinare in termini del tutto nuovi il rapporto tra politica e società, se questo è il tema, è francamente difficile rintracciare in questa direzione una seria linea di ricerca.
La sinistra non ha lavorato sullautonomia sociale, ma ha seguito londa, e ha pensato che innovazione significa democrazia personalizzata, mediatica, passaggio dalla struttura collettiva del partito alla funzione carismatica del leader. Basta guardare a tutte le discussioni di questi anni, nelle quali non cè mai la società italiana, non cè il divenire di una nuova rappresentanza sociale, ma cè solo la disputa teologica intorno alla consustanzialità dellUlivo e della sinistra, e la disputa più terrena sulle gerarchie da realizzare allinterno di questa nuova unione mistica.
Nel passaggio alla seconda repubblica come passaggio dalla democrazia delle rappresentanze alla democrazia dellinvestitura diretta anche la sinistra è stata pienamente e coscientemente coinvolta. Se i tradizionalisti, legati al vecchio apparato ideologico, non dispongono più degli strumenti per capire levoluzione della società moderna, gli innovatori risultano essere ancora più improduttivi, perché lunica idea che hanno in testa è quella del bipolarismo politico, e a questa idea tutto deve essere sacrificato.
In questo loro schema di totale semplificazione non cè spazio per lanalisi dei soggetti sociali, della loro dinamica e della loro autonomia, più semplicemente non cè la percezione dei movimenti della società civile. Lunico problema è la costruzione del soggetto politico che può reggere la competizione bipolare: con quale base sociale, con quale programma, con quale relazione con il sistema economico, è del tutto secondario. Il soggetto politico è un soggetto mistico, che nasce dal nulla.
Se i tradizionalisti pensano ad una società che è tramontata, a una dialettica di classe che non corrisponde più allattuale morfologia sociale, gli innovatori hanno semplicemente risolto il problema rimuovendo dal loro universo mentale qualsiasi analisi della società e della sua interna dinamica.
Ecco perché il tema dellautonomia sociale, se viene preso sul serio e viene assunto come base di una nuova prospettiva strategica, è un tema dirompente e scompagina tutte le analisi politiche correnti.
Agire nello spazio sociale tra Stato e mercato
Per la sinistra, può essere un nuovo punto di partenza per la costruzione di una strategia politica che assuma un chiaro carattere alternativo rispetto al modello plebiscitario della destra, il che fin qui non è avvenuto. Non basta attaccare Berlusconi per essere alternativi. E la sinistra cosiddetta radicale è solo più aggressiva in questo attacco, restando però allinterno del medesimo modello della personalizzazione della politica.
Se il problema è solo Berlusconi, si tratta solo di trovare un nuovo leader vincente, e tutto il resto seguirà. Non si capisce che dietro Berlusconi cè un blocco sociale, cè un processo che investe la società italiana, e che dunque è a questo livello che occorre agire politicamente. Ma questo richiede pensiero politico, il che appare sospetto a chi riduce tutto alla propaganda e allinvettiva.
Esplorare il tema dellautonomia sociale significa esplorare tutto il vasto spazio intermedio tra le due polarità dello Stato e del mercato. E una volta superate le antiche antinomie, gli opposti ideologismi, appare sempre più chiaro che una società complessa non può essere governata né con limposizione dallalto di un dominio politico, né con ladattamento passivo alla logica del mercato.
Cè tutta una rete complessa di mediazioni sociali che deve essere costruita. Cè insomma, tra questi due estremi dello Stato e del mercato, il medium della società che deve sapersi organizzare secondo una propria autonoma linea di azione, secondo il proprio ritmo, in vista degli obiettivi comuni di coesione sociale, di integrazione, di qualità dello sviluppo, i quali possono essere raggiunti solo con una pratica sistematica di concertazione tra i diversi soggetti, sociali e istituzionali.
E in questo spazio sociale intermedio che il sindacato può svolgere appieno la sua funzione, e se questo spazio viene compresso, sia sul versante dello Stato sia su quello del mercato, esso viene colpito nelle sue potenzialità e viene atrofizzata la sua forza espansiva.
Per il sindacato, quindi, non è affatto indifferente la qualità del sistema democratico, perché ne dipende la sua funzione, la sua capacità di interagire efficacemente con le istituzioni politiche e di far valere nel processo decisionale linsieme degli interessi che si propone di rappresentare. Il sindacato chiede alla politica di garantire queste condizioni, di costruire un quadro democratico entro il quale esso possa agire nella sua autonomia.
Ciò non configura nessun rapporto privilegiato con una determinata parte politica, nessuna forma di collateralismo, ma solo la definizione di unarchitettura politico-istituzionale che riconosca il ruolo autonomo delle organizzazioni sindacali e il loro diritto a concorrere, attraverso precise procedure di confronto e di concertazione, alla determinazione delle scelte politiche e del loro impatto sociale. Come si vede da questi accenni, il principio dellautonomia ha complesse implicazioni politiche e istituzionali, che vanno pienamente esplicitate.
Non è solo la fine della cinghia di trasmissione, non è solo la rottura di un rapporto di dipendenza dal partito politico: sotto questo profilo già molto prima dello scioglimento della corrente comunista deciso da Bruno Trentin, i rapporti col partito politico si erano sostanzialmente modificati e si presentavano come rapporti di confronto alla pari e non di sudditanza.
Se guardiamo poi alla situazione attuale, è chiaro che il potere di condizionamento dei partiti politici è quasi nullo, e anzi sembra esserci un processo opposto, una capacità di pressione politica da parte dei dirigenti sindacali, come dimostra in tutta evidenza la vicenda sindacal-politica di Sergio Cofferati. Ma questa oscillazione del pendolo nei rapporti partito-sindacato resta pur sempre allinterno di un orizzonte teorico che pensa le due funzioni, quella politica e quella sindacale, come due lati di un unico sistema, come le due facce, solo funzionalmente distinte, di un comune processo. Il punto superiore di congiunzione è il concetto di movimento operaio, nel quale si riassumono e si articolano i diversi piani di azione, diversi nella loro strumentazione tecnica, ma finalizzati ad una comune prospettiva.
Tutta la nostra storia ha questa base teorica, è la storia di un unico processo, articolato ma compatto, per cui cè una linea di continuità che collega la dimensione sociale a quella politica e a quella ideologica. Dobbiamo domandarci se questo schema teorico possa ancora essere utilmente praticato, se ha ancora una corrispondenza nella realtà.
Autonomia del sociale e autonomia del politico
Credo che oggi questa compattezza si sia sfaldata, e che sia ormai solo una rappresentazione ideologica senza un rapporto con i processi reali. Proprio per questo, quellidea di ununità organica del politico e del sociale non è più un elemento di forza, perché non si regge su basi reali, ma diviene un impaccio, perché tiene forzosamente insieme due piani che sono sempre più nettamente distinti, e che hanno bisogno entrambi di sviluppare pienamente le ragioni della propria autonomia.
Il discorso sullautonomia non procede in una sola direzione: lautonomia sociale ha come suo necessario corrispettivo lautonomia del politico. Sono due dinamiche distinte, e non è utile una loro sovrapposizione: il sindacato non può essere il braccio operativo al servizio di un progetto politico, né il partito può essere una struttura para-sindacale che si limita a veicolare sul terreno istituzionale le richieste del sindacato.
Naturalmente, per un partito di sinistra, che voglia ancora essere tale, la rottura del modello teorico del movimento operaio non può significare in nessun modo un allentamento dellimpegno sociale, dellessere una forza che sta piantata nella realtà del lavoro e dei suoi conflitti. Lautonomia della politica non consiste nel restare confinati nella sola dimensione giuridico-istituzionale o nel discorso astrattamente ideologico sui valori: significa interpretare politicamente la società e intervenire nelle sue linee di conflitto, nei suoi equilibri di forza.
La dimensione politica riguarda infatti i rapporti di potere nella società e la qualità sociale delle politiche pubbliche: è in questo campo che agisce un partito di sinistra, senza delegare al sindacato questa sua funzione, ma esercitandola in prima persona.
Lautonomia non è la delimitazione di diverse aree di competenza (a ciascuno il suo mestiere), ma è la dialettica che si svolge tra soggetti diversi, con funzioni diverse, sul medesimo terreno, sul terreno della società e della sua organizzazione. I due piani restano distinti, concettualmente e pragmaticamente, perché da un lato cè una funzione di progettazione e dallaltro una funzione di rappresentanza: funzioni che si incrociano, ma non sono riducibili luna allaltra. Nella rappresentanza sono le radici profonde dellautonomia del sindacato. Che cosa significa rappresentare? Ci può essere una rappresentanza astratta, ideologica, presunta, la quale nasce dallesterno del soggetto sociale, come schema teorico interpretativo che si sovrappone ai processi reali. E lo schema leninista della coscienza di classe che può essere solo elaborata da un soggetto politico esterno.
La rappresentanza sindacale, al contrario, è il processo reale di auto-organizzazione del lavoro, un processo tutto immanente, che segue il ritmo della concreta esperienza quotidiana dei soggetti sociali.
Il movimento sindacale non muove dalla teoria come fonte regolatrice della prassi, ma allinverso accompagna la pratica sociale, ne segue le oscillazioni e le sperimentazioni, e concepisce la teoria solo come il risultato, sempre provvisorio, di questa prassi. La rappresentanza, in questo senso, è solo il risultato di una pratica sociale, e viene meno se questa pratica non viene attivata. Cè sindacato, cè rappresentanza, solo se cè un processo sociale che porta allemersione delle soggettività del lavoro, al loro riconoscimento e allorganizzazione pratica delle loro domande.
Il sindacato non può mai vivere di rendita, ma è sempre esposto alla verifica, e deve incessantemente rinnovare il suo rapporto fiduciario con un mondo del lavoro in continua trasformazione. Sotto questo profilo, la situazione attuale delle Confederazioni sindacali presenta non pochi problemi, di cui non mi sembra esserci una consapevolezza adeguata. Il problema sta nel fatto che lattuale forza rappresentativa del sindacato è il risultato di una determinata stagione storica, caratterizzata da un modello di organizzazione sociale ormai al tramonto, mentre tutti i nuovi processi di scomposizione del lavoro e il nuovo arcipelago sociale che ne risulta non hanno ancora trovato una risposta sindacale, e anzi la struttura sindacale sembra funzionare più come elemento di stabilizzazione che non di innovazione.
Nuova rappresentanza e modello organizzativo
Alla lunga questo divario tra la forza consolidata e la scopertura dei nuovi territori sociali può determinare una situazione di crisi, in quanto si inceppa la funzione di rappresentanza. Se rappresentare è un processo sempre aperto, questo carattere di apertura diventa assolutamente decisivo nel momento in cui cambia strutturalmente la configurazione del mondo del lavoro.
Si tratta infatti di rappresentare il lavoro che cambia, in una fase di vorticose trasformazioni, per limpatto delle nuove tecnologie, delle nuove strategie organizzative dellimpresa, della crescente globalizzazione dei mercati, e questi mutamenti strutturali determinano nuove forme di coscienza soggettiva, nuove rappresentazioni culturali:non cambia solo la condizione materiale del lavoro, ma la soggettività del lavoratore.
Per superare questo spiazzamento del sindacato di fronte al cambiamento sociale, occorre ripensare tutta la sua struttura organizzativa, in modo che essa sia proiettata non alla conservazione, non alla riproduzione di una identità statica, ma alla sindacalizzazione dei nuovi territori oggi non presidiati dallazione sindacale.
Il modello organizzativo oggi prevalente, in tutte le grandi confederazioni, non è in grado di svolgere questo compito, non è predisposto in funzione di un vasto programma di sperimentazione e di nuova sindacalizzazione. Esso ricalca la forma del partito politico di massa: centralizzazione, gruppo dirigente professionalizzato che concentra in se stesso tutte le scelte strategiche, definizione di una linea politica a cui si debbono uniformare tutte le strutture periferiche, e in questo schema sono sacrificate proprio quelle risorse che sono decisive per avviare un processo innovativo, le risorse della sperimentazione, dellautonomia, della libera circolazione delle esperienze e della promozione di nuovi quadri dirigenti. In una parola, siamo in una classica situazione di burocratizzazione, la quale assicura stabilità e permanenza, ma non è in grado di produrre innovazione.
Qui ritorna il problema dellautonomia. Se cogliamo il valore più profondo dellautonomia, essa deve guidare non solo le relazioni esterne, ma anche il processo interno di ricambio organizzativo e di rielaborazione del progetto politico, e per questo occorre un modello non centralizzato e gerarchico, ma aperto ad accogliere in sé tutti gli stimoli di una società in movimento, e a rappresentare quindi le nuove domande, senza costringerle in uno schema precostituito.
La rappresentanza è un movimento in due direzioni: unazione dallalto che fissa i parametri politici su cui costruire la coordinazione solidale degli interessi, e unazione dal basso, che fornisce il flusso creativo e che mette in causa tutte le sintesi politiche provvisorie, imponendo un processo continuo di verifica democratica e di rielaborazione programmatica.
La burocratizzazione si determina quando funziona solo la linea di trasmissione delle decisioni dallalto verso il basso, ed è ostruito il processo inverso, con la conseguenza che il sindacato finisce per assumere una forma politica e non funziona più quellinterscambio sociale attraverso il quale si realizza la rappresentanza.
Partendo da questa concezione del sindacato come autonomo soggetto rappresentativo, prendono senso due temi cruciali, quello dellunità e quello della democrazia, i quali si presentano come temi connessi, che si debbono afferrare insieme, nel loro reciproco rapporto di implicazione.
La rappresentanza sociale ha in sé una naturale disposizione unitaria, proprio perché è lespressione immediata di una condizione collettiva e di una prassi sociale, e infatti verifichiamo nella storia del movimento sindacale come i momenti di forte mobilitazione dal basso sono anche i momenti di massima unità. Le divisioni sono interferenze esterne, incursioni della politica, o dellideologia, o sono il portato dellautodifesa delle grandi strutture burocratiche.
Già Di Vittorio aveva ben chiaro questo punto. Egli parla di una unità di carattere sociale che sovrasta le stesse differenze di opinione, di una base essenziale di principio che sostiene lunità dei lavoratori di ogni categoria, i quali possono essere divisi da ideologie, da questioni di opinione politica, e di appartenenza a differenti partiti politici, ma al di là di ciò si trovano uniti nellidentità della condizione sociale.
Siamo nel 1947, e da lì a poco quellunità si spezza, ma è appunto la forza della politica che travolge lautonomia del soggetto sociale, e questa dialettica si ripresenterà più volte nella storia del sindacalismo italiano.
Anche lattuale crisi dei rapporti unitari può essere letta in questa chiave, come leffetto di una politicizzazione, di una pressione del sistema politico che esporta nel movimento sindacale le sue tensioni e le sue turbolenze. E la politicizzazione innesca una competizione egemonica tra le maggiori confederazioni, e anche allinterno di ciascuna di esse.
Come recuperare lautonomia dello spazio sindacale
Per sbloccare questa situazione occorre riguadagnare lautonomia dello spazio sindacale. Come ha coraggiosamente riconosciuto Guglielmo Epifani in una recente intervista, è necessario un lavoro di risindacalizzazione. E qui il passo decisivo lo deve fare proprio la CGIL, perché essa è assai più esposta, per la sua storia, per il suo più forte intreccio con la vicenda politica, per la stessa biografia dei suoi gruppi dirigenti, al rischio di usare la rappresentanza come unarma politica.
E indicativo il fatto che le articolazioni interne della CGIL sono sempre state, essenzialmente, articolazioni di partito, e continuano ad esserlo tuttora, nonostante lo scioglimento ufficiale delle correnti. La CGIL è quindi fortemente condizionata dal dibattito che è aperto nella sinistra, dallo scontro interno al partito dei DS, e subisce, da varie parti, una forte pressione verso una sua connotazione come forza di opposizione e di mobilitazione politica, che supplisce alla debolezza dei partiti. Sarà interessante verificare nel prossimo futuro su quale linea si attesterà la direzione di Epifani e se riuscirà davvero a prendere corpo un progetto di risindacalizzazione.
Daltra parte, la CGIL ha perfettamente ragione quando sostiene che lunità sindacale è possibile solo sulla base di un insieme condiviso di regole democratiche. Autonomia significa letteralmente lasciarsi guidare solo dalle proprie regole interne: essa si oppone sia alla dipendenza dallesterno, sia al governo dellarbitrio e della forza.
La gracilità e levanescenza delle regole di democrazia sindacale sono un serissimo ostacolo allesercizio della rappresentanza, perché si introduce così una strozzatura nel rapporto tra rappresentati e rappresentanti, consegnando ai gruppi dirigenti un potere del tutto discrezionale. Lunità sociale, di cui parlava Di Vittorio, può essere solo lesito di un processo consapevole di confronto e di mediazione, nel quale sia data voce e legittimità a tutte le diverse posizioni, e quindi solo una procedura autenticamente democratica può realizzare una sintesi condivisa e può dirimere le questioni controverse. La democrazia è quindi la forma in cui lunità si può realizzare.
E su questo punto è la CISL che deve fare il passo decisivo, aprendosi finalmente ad un confronto per la definizione di comuni regole democratiche: regole intersindacali, anzitutto, autonomamente decise, sulle quali potrà successivamente intervenire una legislazione di sostegno, per renderle effettivamente cogenti e impegnat