I veleni dell'accordo separato

Il nuovo sistema contrattuale non è stato firmato dalla Cgil, quindi non la vincola: a parte il rischio di anarchia conflittuale, gli iscritti a questo sindacato potrebbero ottenere, in linea di diritto, l'applicazione delle norme precedenti. Inoltre l'intesa riguarda anche materie che esulano dalla competenza delle parti sociali

Siamo nel pieno di una crisi economica globale, universalmente definita strutturale e di lungo corso, che testimonia il crollo delle teorie iperliberiste. In questa situazione tutto ci si poteva aspettare tranne che il governo, invece che  rispondere della insufficienza delle cosiddette misure anti-crisi fin qui adottate, promuovesse un accordo separato sul sistema contrattuale. Viene in mente ciò che si racconta della regina: “se non c’è pane, date loro brioches”. Invece è andata così: su proposta del governo si è sottoscritto da parte di un largo numero di associazioni sindacali ed imprenditoriali un accordo sulle regole, senza l’adesione della CGIL. Come si può interpretare questa vicenda?

 

La prima impressione, a una lettura superficiale, è che si tratta di un insieme di scatole vuote, di proposizioni prive di sostanza, secondo l’intepretazione che ne ha dato Eugenio Scalfari. Questa è anche l’osservazione che viene in mente guardando il testo da un punto di vista giuridico. Si prenda la questione, in apparenza, più semplice: quella degli effetti cosiddetti normativi, riferiti ai rapporti individuali di lavoro. L’accordo in esame reintroduce la scadenza triennale dei contratti nazionali di categoria, e abolisce la cosiddetta indennità di vacanza contrattuale. Si faccia l’ipotesi che da qui a qualche mese scada, secondo le precedenti cadenze, il biennio economico di un contratto nazionale e che, non essendo rinnovato l’accordo, un lavoratore aderente alla CGIL chieda che gli sia corrisposta l’indennità di vacanza contrattuale. Quid iuris? Immaginiamo poi che sulla base dei vari rinvii previsti dall’accordo si stipulino successivi contratti nazionali di lavoro, senza l’adesione della CGIL. Che ne sarà dell’efficacia di quegli accordi verso gli iscritti alla CGIL, su materie quali la ridefinizione dell’orario di lavoro, gli inquadramenti professionali, la struttura salariale? Pare evidente che  per gli aderenti alla CGIL la pretesa di applicare il nuovo accordo, in sostituzione di quello del 1993, sia giuridicamente inopponibile. A maggior ragione ciò vale per la stessa organizzazione: la CGIL è del tutto libera di presentare rivendicazioni a livello nazionale e aziendale al di fuori delle regole stabilite dall’accordo da lei non sottoscritto. Si prefigura perciò uno scenario, per così dire, di anarchia conflittuale proprio nel momento in cui sarebbe stata invece necessaria la massima coesione tra gli attori sociali per affrontare il difficile passaggio della crisi in atto.

 

L’ingenuo osservatore si chiede quindi: “ma perché allora è stato firmato quell’accordo se esso non può essere dotato di alcun tasso significativo di effettività?”.

 

Qui occorre mettere in gioco un punto di vista  più disincantato. L’interesse del governo è evidente: l’inadeguatezza delle misure anti-crisi adottate dallo stesso governo, su cui tutte le organizzazioni sociali convergevano, è stato messo in ombra dalla adesione della grande parte di quelle organizzazioni, tranne la CGIL, all’accordo. L’interesse della Confindustria e delle associazioni imprenditoriali  è altrettanto evidente: le imprese chiedono corposi aiuti di Stato, con buona pace del liberismo invocato quando fa comodo, e soprattutto per  liberarsi dei vincoli sull’uso della forza lavoro. Qual è invece il motivo della adesione delle altre organizzazioni sindacali?

 

La risposta è complessa. Andrebbe svolta una analisi sul nuovo modello contrattuale e sulle sue implicazioni economiche, che qui non può essere sviluppata, salvo anticipare una valutazione: dal punto di vista dell’invocato sviluppo della negoziazione decentrata l’accordo sembra più una gabbia che un incentivo.

 

Le questioni più rilevanti da un punto di vista istituzionale sono comunque altre. Mi riferisco ad alcuni dei temi su cui l’accordo in oggetto rinvia, non a caso, a future negoziazioni, e che richiamano profili di ordine costituzionale. Cito nell’ordine: “la contrattazione collettiva nazionale o confederale può definire ulteriori forme di bilateralità per il funzionamento di servizi integrativi del welfare” (punto 4); “i successivi accordi dovranno definire, entro 3 mesi, nuove regole in materia di rappresentanza delle parti nella contrattazione collettiva valutando le diverse ipotesi che possono essere adottate con accordo, ivi compresa la certificazione all’Inps dei dati di iscrizione sindacale” (punto 17); “le nuove regole possono determinare, limitatamente alla  contrattazione di secondo livello nelle aziende dei servizi pubblici locali, l’insieme dei sindacati rappresentativi della maggioranza dei lavoratori, che possono proclamare gli scioperi” (punto18).

 

Le clausole appena citate dell’accordo del 22 gennaio 2009 non riguardano materie di esclusiva competenza delle parti sociali, quali quelle riferite alle regole (pure discutibili) del sistema contrattuale, fatto salvo il riferimento alle misure rivendicate di detrazione fiscale per i cosiddetti premi di produttività, che invece chiamano in gioco l’interesse dei contribuenti e quindi pongono problemi di costituzionalità sotto il profilo fiscale. Riguardano invece materie di interesse pubblico e perciò di natura squisitamente politica. In primo luogo la disciplina del welfare relativa al se e al come gli interventi pubblici debbano integrarsi con gli interventi privati: questioni che pongono domande di fondo, ad esempio relative al fatto se siano legittime quelle norme del recente decreto anti-crisi che subordinano gli interventi a sostegno del reddito (in specifico: il diritto a percepire l’indennità di disoccupazione) all’intervento pro-quota degli stessi enti bilaterali. La regola della libertà sindacale: se sia lecito che i sindacati diventino soggetti diretti e/o consociati di erogazione dei sussidi pubblici, a discapito della loro funzione di rappresentanza autonoma del mondo del lavoro. La disciplina costituzionale della rappresentanza sindacale di cui all’art. 39 della Costituzione e quella sul diritto di sciopero di cui all’art.40. Tali questioni fuoriescono dalla dimensione di accordi negoziali, per giunta separati, e investono invece  problemi cruciali dell’assetto dello Stato di diritto, sulla cui implicazione è bene riflettere a fondo.
Domenica, 15. Febbraio 2009
 

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