I rischi sociali di una contrattazione troppo decentrata

Lasciare gli aumenti reali alla sola e libera dinamica decentrata avrebbe l’effetto nel tempo di ampliare o modificare le retribuzioni intersettoriali e intrasettoriali secondo dinamiche che potrebbero non essere considerate accettabili. E' più ragionevole che ci si riferisca alla produttività nazionale come base per la contrattazione decentrata, con margini di scostamento per le diverse situazioni

La discussione aperta su E&L in merito alla riforma contrattuale e alle relazioni sindacali permette un ampio confronto delle idee anche tra i non addetti ai lavori. Confronto che, a mio avviso, dovrebbe vedere la più larga partecipazione, come pur avvenne in altri tempi, non meno difficili.

 

E’ ormai generale constatazione che l’attuale modello di relazioni sindacali non sia stato, alla prova dei fatti, soddisfacente. Per quanto riguarda la parte economica, all’abbandono di un sistema indicizzato, ha fatto seguito un sistema che ha conservato a stento il potere di acquisto del lavoro dipendente, mentre non è riuscito a ripartire equamente la produttività; così che si è accentuato il divario tra i redditi reali del lavoro dipendente e quello indipendente e soprattutto con i profitti, che non si sono trasformati in accresciuti investimenti.  Ma su questo è ormai inutile insistere. Andrebbero  però aggiunte  due qualificazioni spesso sottaciute. Quel mantenimento del reddito reale è desunto dai dati inflattivi Istat sui quali è più che lecito dubitare in quanto a reale rappresentatività. Lo dicono fonti diverse come l’Eurispes che forniscono dati quantitativamente molto diversi, (1) lo denunciano le associazioni dei consumatori, lo testimonia la concreta e comune esperienza della gente (soprattutto dopo l’avvento dell’euro), (2) ma lo dimostra anche la questione della famosa “quarta settimana”, causa di reciproci ed alternati addebiti tra le diverse forze politiche oltre che di denuncia sindacale. Insomma, se il potere di acquisto è stato sostanzialmente tutelato (con i rinnovi contrattuali basati sull’inflazione ufficiale), perché il fenomeno della “quarta settimana”? 

 

Penso sia necessario ed urgente che le forze sociali e politiche pongano ufficialmente  la questione e si metta in campo un commissione autorevole per esaminare e concordare una contabilità dell’inflazione credibile ed accettabile. Come indispensabile prerequisito per ogni credibile  discorso di politica dei redditi e di patti sociali.

 

L’altra qualificazione è che, pur in questa difficile situazione, ci sono state categorie meno danneggiate o più tutelate. Tanto è vero che si parla soprattutto dell’emergenza salariale.

Il problema dei rapporti tra le retribuzione intercategoriali e intracategoriali, che una volta veniva chiamata “giungla retributiva”, è un aspetto importante ai fini della coesione sociale. 

E’ necessario dunque poter disporre di strumenti che permettano di gestire una politica retributiva complessiva che corregga eventuali differenziali considerati socialmente inaccettabili. Una politica che non può che essere di livello confederale e condivisa dalle varie categorie.

L’articolo di Tronti argomenta molto bene la necessità di una politica dei redditi e di un patto sociale che non può che coinvolgere le parti sociali e il Governo, per il rilancio della produttività e dello sviluppo del paese, la tutela effettiva delle retribuzioni dall’erosione inflattiva e la ripartizione della ricchezza reale prodotta. (3)

Sono argomentazioni convincenti sul piano macroeconomico che si riferiscono al miglior pensiero riformista dei Caffè, Vicarelli, Tarantelli, Sylos Labini (per citarne solo alcuni) che, pur con le rispettive differenziazioni, hanno cercato di indicare strade condivise e credibili di cooperazione sociale, di individuarne le condizioni effettive, di suggerire interventi di intelligente discrezionalità da parte dei pubblici poteri. Argomentazioni effettuate nella consapevolezza del quadro internazionale e soprattutto (a differenza di tanta pubblicistica corrente) delle condizioni non concorrenziali dei mercati odierni. (4) A livello microeconomico si fa riferimento alle più aggiornate riflessioni in tema di gestione aziendale, di organizzazione e sicurezza del lavoro, di democrazia industriale. (5)  Riflessioni queste ultime che richiedono una riconquistata e democratica presenza sindacale sui posti di lavoro. 

 

In un dibattito radiofonico degli anni ottanta tra Tarantelli e Caffè sulla politica dei redditi e in particolare dei patti sociali, (6) il primo ricordava come ci fossero sostanzialmente due modelli di gestione sociale dell’economia. Il modello monetarista che controlla l’inflazione con strette monetarie e lascia la ripartizione del reddito e il livello della occupazione al “libero” operare del mercato. L’altro è quello “neocorporativo” o dei patti tra le forze sociali e il governo per la tutela dall’erosione monetaria e per la distribuzione condivisa dei redditi reali. Una moderazione negli aumenti salariali reali (ma pur sempre aumenti) in cambio di riforme e politiche non restrittive favorevoli alla maggiore occupazione. Lo strumento individuato era quello della politica di anticipo degli aumenti contrattuali nominali e dei prezzi, basati su tassi programmati di inflazione. E una ripartizione della produttività affidata alla contrattazione centralizzata o decentralizzata, ma nei limiti della produttività media del sistema.  

 

L’esperienza passata dimostra che una ripartizione tutta centralizzata e su valori medi alla lunga non è sostenibile, per la dinamica dell’economia a livello strutturale e aziendale. Ma anche quella affidata alla libera determinazione settoriale e aziendale, come di fatto oggi avviene, significa abbandonare la distribuzione del reddito all’esclusivo funzionamento del mercato, con tutti i limiti prima richiamati e tanto più evidenti in Italia, oltre che ai diversi rapporti di forza. Escludere aumenti e possibili modifiche relative dei minimi contrattuali nazionali (salvo una loro tutela dall’inflazione) significa considerarli “giusti” ed immutabili. Lasciare gli aumenti reali alla sola e libera dinamica decentrata, sulla base di vari parametri, avrebbe l’effetto nel tempo di ampliare o modificare le retribuzioni intersettoriali e intrasettoriali secondo dinamiche che potrebbero non essere considerate accettabili. (7) I limiti segnalati da Pizzuti, nel suo articolo su E&L, sia con riferimento ai parametri di produttività fisica che a quelli di valore, esplicherebbero tutti i loro effetti critici. (8) Non va dimenticato che in una società complessa, pur senza voler togliere meriti e demeriti individuali, nessuno ha successo o insuccesso esclusivamente da solo.

 

Mi sembra che la soluzione più ragionevole sia quella che, riprendendo la proposta effettuata da Tronti per la funzione pubblica, individui come cifra di riferimento la produttività nazionale certificata a livello interconfederale e questa sia la base per la contrattazione decentrata, magari con la individuazione di margini di scostamento in più e in meno a seconda delle effettive dinamiche decentrate. Il significato ai fini della coesione sociale e dell’impegno collettivo, senza disincentivare quello settoriale e aziendale, mi sembra evidente; come è importante seguire lo stesso criterio per il lavoro pubblico e per quello privato. Naturalmente, là dove non ci dovesse essere la contrattazione integrativa aziendale, quel riferimento andrà recepito automaticamente. Come ben argomentato da Tronti servirebbe da incentivo alla contrattazione integrativa aziendale,  e per le aziende marginali come spinta  a maggiori investimenti innovativi. Si può sempre prevedere l’eccezione in caso di aziende in reali e dimostrate difficoltà.

Diceva, a suo tempo, Leo Valiani che una politica dei redditi ha poco senso in mancanza di una  politica di programmazione. Contro l’epistemologia delle tendenziali e deterministiche previsioni pluriennali, con i passivi adeguamenti a queste che irrigidiscono la società, va opposta la libertà della programmazione democratica dei nostri obiettivi, come propone con appassionata razionalità Franco Archibugi. E questo deve valere non solo per i tassi di inflazione, ma anche per quelli dello sviluppo. Obiettivi programmatici da verificare annualmente e con adeguati aggiustamenti (e puntuali compensazioni, in caso ad esempio di divari tra inflazione programmata e realizzata). Le previsioni in un mondo come quello attuale sono sempre più incerte e  spesso smentite dai fatti  (Alfred Marshall ricordava le “limitate capacità telescopiche degli economisti”). Le previsioni più che per le frazioni di punto vanno valutate per le tendenze positive o negative, e soprattutto per mettere in campo azioni tempestive indirizzate al miglioramento ovvero alla correzione.

 

Federico Caffè, in quel dibattito con Tarantelli, non si affidava tanto a questa o a quella formula automatica,  ma richiedeva “lealtà” e coerenza di comportamenti, per rendere credibili politiche e patti che, per raggiungere concretamente il loro scopo, devono essere sostenuti dal consenso più largo e da diffuse azioni cooperative. Il forte contrasto all’evasione fiscale, un vulnus allo stesso patto costituzionale, rappresenta, ad esempio, uno di quei comportamenti. 

 

Scriveva un nostro autorevole economista: “Il dibattito sulle diverse concezioni di politica dei redditi è legato simultaneamente a questioni di teoria economica, ad aspetti relativi al grado di coesione sociale e all’assetto politico ed istituzionale”. (9)

 

Assumere posizioni consapevolmente unitarie e solidali al proprio interno, offrire coerenza di comportamenti per esigerne altrettanta negli altri, è la strategia più intelligente da parte sindacale per sperare di invertire quel circuito di frammentazione e di egoismi di parte; mentre la fluidità dell’attuale situazione politica ed istituzionale, in cui si ascoltano attacchi ai diritti dei lavoratori, suggeriscono di aspettare che si chiarisca quel quadro.      

  

Note

(1) I dati forniti dall’Eurispes cadono regolarmente nell’imbarazzato e generale silenzio. Mi ricordano un film di Nanni Loy degli anni settanta nel quale uno scienziato americano, con il suo computer gigante utilizzato per la velocizzazione dei risultati elettorali, annunciò la vittoria dei comunisti, allora inaccettabile. Con perfetto accordo nazionale ed internazionale, al di qua e al di là del Tevere, si decise che non era vero. Lo scienziato, che pur insisteva, fu ricoverato in manicomio.   

(2) Esperienza che si dice dovuta, con poco rispetto per gli sfortunati “sperimentatori”, ad una forma di “illusione”, nel senso che “avvertono” ciò che non c’è. Però recentemente e a contratti chiusi, l’Istat, che sembra non avere “avvertito”  le conseguenze del passaggio all’euro,  ha comunicato una revisione dei dati per i generi di acquisto ripetuto. Forse non è ingiustificato porre un problema di “etica statistica”. 

(3) I recenti processi economici, rispetto alla dialettica tra il Big Business, Big Government e Big Labour, hanno fortemente rafforzato il primo. Al suo interno grandi aziende contano ormai più degli stessi governi nazionali,  frammentazioni sociali e sperequazioni distributive, creano seri problemi di rappresentatività alle istituzioni politiche e alle stesse associazioni, non solo dei lavoratori, ma anche delle imprese. Un motivo di più per cercare forme ed assetti di intensificazione democratica, di norme sovranazionali, di conflitti regolati, di azioni cooperative e di coesione sociale.

(4) L’attuale aumento di molti prezzi, almeno in Italia,  dimostra chiaramente la causa speculativa, non potendola ricondurre né alla domanda globale eccessiva, né alla spinta dei costi, almeno quelli del lavoro.

(5) Per un nuovo patto sociale sulla produttività e la crescita , a firma di Accornero, Acocella et altri. Ora in “Rassegna sindacale”,  n.4, 2007.

(6) Si può ascoltare interamente nel DVD n. 1 allegato al volume Federico Caffè, un economista per gli uomini comuni, a cura di Giuseppe Amari e Nicoletta Rocchi, Ediesse, 2007. 

(7) A ben vedere, significherebbe assumere il paradigma paretiano che, come è noto, non entra nel merito della situazione distributiva iniziale ed affida la successiva ripartizione del reddito al libero funzionamento del mercato e alla sua teorica ottimalità. Andrebbe dunque sempre prevista la possibilità di rivedere quei minimi, anche alla luce delle semplificazioni contrattuali che le Confederazioni intendono perseguire. Con l’obiettivo di una tendenziale perequazione a parità di contenuti professionali e di incrementi correlati nel tempo alla crescente ricchezza del Paese e, non dimentichiamolo, delle dinamiche europee.

(8) Il riferimento ai criteri di produttività in valore, oltre ai limiti criticati da Pizzuti  (un fenomeno di circolarità dovuto al fatto che ad aumenti retributivi farebbe seguito un aumento di prezzi nei settori monopolistici e quindi un maggior valore, in un processo crescente) avrebbe anche quello di incoraggiare la rincorsa alla ricerca del profitto a brevissimo termine, caratteristica dell’attuale finanziarizzazione. Se si volesse far ricorso a tali parametri andrebbero espunti i ricavi meramente finanziari (per le aziende non finanziarie). Il riferimento ai criteri fisici di produttività, trova i suoi limiti dal fatto che questa derivi essenzialmente dalla introduzione di innovazioni ed ha carattere asimmetrico tra vari settori, essendo il suo aumento più  lento per le attività di servizio personale, fenomeno già sottolineato dal Baumol. Né l’uno, né l’altro premiano dunque i meriti e l’impegno individuale del lavoratore. E’ vero, ma questo già avviene in parte ed in pratica con l’attuale sistema di contrattazione. Il riconoscimento dell’impegno personale o di gruppo, da effettuare con il sistema degli incentivi (che a loro volta possono essere fortemente distorsivi: basti pensare quello che avviene nel settore finanziario); e la partecipazione alla redditività, da realizzare con le varie forme di partecipazione agli utili, si pongono, almeno a livello concettuale, su un piano diverso. Per contrastare le distorsioni delle logiche finanziarie andrebbe approfondito il tema della democrazia industriale insieme a quella della responsabilità sociale e della gestione multistakeholders. E’ interessante ricordare un suggerimento di Baumol a proposito delle stock options dei manager,  da commisurare non a valori di produttività assoluti, ma relativi al rispettivo settore economico e in  un tempo non breve.  Premiare cioè chi ha fatto meglio degli altri per un periodo di tempo medio.

(9) Le politiche dei redditi, introduzione a un dibattito, a cura di Alessandro Roncaglia, Banca Popolare dell’Etruria, 1982.

 

Giovedì, 27. Marzo 2008
 

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