
Dice Niccolò Machiavelli (Il principe, capitolo XVIII) che “e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare”. Verità immortale. Basti pensare al peso delle campagne social, capaci di influenzare in modo inquietante le scelte politiche e di imporre parole d’ordine a dir poco stravaganti anche nei paesi dove la scolarizzazione è più ampia. Ma non bisogna esagerare, perché il principe può esser “volpe” quanto vuole, ma se supera il limite c’è sempre il rischio che la realtà presenti il conto e che la disillusione degli ingannati sia troppo pesante per non avere effetti controproducenti.
È quello che potrebbe accadere nel 2025 rispetto al governo di Giorgia Meloni, oggi al top dei consensi: la presidente del Consiglio ama ripetere come un mantra che mai l’Italia è stata così in forma, sugli scudi, con risultati magnifici, ma per farlo ha nascosto talmente tanta polvere sotto al tappeto che difficilmente resterà invisibile. Per rendersene conto basta approfondire quattro temi, con riflessi che si incrociano.
Il primo tema riguarda l’occupazione. Giorgia Meloni giustamente va orgogliosa del numero crescente di occupati rilevati dalle statistiche Istat. Nonostante alcuni segnali di rallentamento, gli ultimi dati tendenziali (novembre 2024 su novembre 2023) mostrano ancora una crescita degli occupati: +1,4 per cento (+328mila unità); - 23,9 per cento (459 mila unità) le persone in cerca di lavoro; +2,6 per cento (323 mila unità) la crescita degli inattivi, cioè di coloro che non cercano nemmeno lavoro tra i 15 e i 64 anni. Siamo in effetti molto al di sopra dei 24 milioni di occupati, mentre i disoccupati sono scesi sotto la soglia del milione e mezzo, una differenza gigantesca rispetto agli oltre 3 milioni del periodo 2013-2015.
Bene dunque. Ma qui comincia la polvere sotto al tappeto, perché non bastano questi dati generali per festeggiare e sostenere che la situazione è brillante. Nello stesso periodo sono aumentate le ore lavorate e la crescita del prodotto interno lordo si è fermata allo 0,5 per cento. Ragione per la quale l’Istat ci dice (più occupati, più ore lavorate ma ancora scarsi risultati) che la produttività, un dato che già vedeva l’Italia ben in fondo nel confronto con diversi concorrenti, è diminuita del 2 per cento nell’ultimo anno: meno 2,5 per cento la produttività del lavoro, meno 0,9 la produttività del capitale, meno 2,5 per cento la produttività totale dei fattori. Un colpo duro. L’Italia non è mai stata una lepre, ma nel periodo che va dal 2014 al 2023 la produttività del lavoro aveva fatto registrare un incremento medio dello 0,5 per cento e quella del capitale era stata dello 0,4 per cento in media nel periodo che va dal 1995 al 2023.
Non basta. L’aumento dell’occupazione è stato accompagnato in questi anni anche dalla crescita in Italia della povertà assoluta (2,2 milioni di famiglie) e della povertà relativa (2,8 milioni di famiglie), un paradosso solo se lo si guarda in superficie. In realtà i due dati si spiegano con la povertà salariale dovuta da un lato dallo spostamento del lavoro dall’industria al terziario, segnatamente turismo, settori dove le retribuzioni sono largamente più povere e l’occupazione intermittente, dall’altro all’inflazione: già prima dell’ultima fiammata, l’Ocse segnalava che l’Italia era l’unico paese avanzato in cui i salari reali fossero diminuiti rispetto a quelli del 1990. Nel 2022, poi, la crescita media dei prezzi al consumo per l’intera comunità nazionale fu pari all’8,1 per cento. Nel 2023, alla precedente spinta si aggiunse un altro 5,7 per cento di rincari. In soli due anni dunque le retribuzioni persero un altro 15 per cento del loro valore in termini di potere di acquisto. I rinnovi contrattuali e gli altri strumenti di crescita delle retribuzioni hanno solo in parte attenuato il colpo. Tanto per dire (dati Istat), l’indice mensile delle retribuzioni contrattuali a dicembre 2022 risultò in crescita dell’1,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021. Nel 2023 l’indice mensile delle retribuzioni contrattuali orarie a dicembre risultò più alto del 7,9 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. A settembre 2024, l’incremento tendenziale è risultato pari al 3,7 per cento. Senza contare che al netto delle imposte in molti casi il risultato degli aumenti contrattuali è stato molto meno impattante del lordo, perché è scattato pesantemente il fenomeno del fiscal drag. Tanto per fare un esempio, se hai un aumento di stipendio e stai già a 28 mila euro lordi l’anno (intorno ai 1400 euro netti), su quel che arriva in più scatta l’aliquota del 35 per cento e non più del 23 per cento, anche se il potere di acquisto di quegli euro è inferiore a prima. Una tagliola che secondo i calcoli di tre economisti della Voce.info si aggira, complessivamente, intorno ai 17 miliardi di euro di valore.
Secondo tema: il made in Italy.La crescita del terziario, segnatamente turismo, ristorazione, le produzioni alimentari e farmaceutiche, bevande, tabacco, hanno sostenuto il Pil. Ma da 22 mesi consecutivi la produzione industriale complessiva del paese risulta in calo per il tracollo, tra l’altro, dell’automotive (meno 13,8 per cento) e del settore macchinari e attrezzature (meno 6,2) per cento, cioè due punti di forza di quella che è considerata la seconda manifattura d’Europa dopo la Germania. Il che spiega anche la bassa produttività, i bassi salari e, ovviamente, anche la bassa crescita. La Disneyland delle città d’arte e dei bei paesaggi può portare anche bei soldi, ma non uno sviluppo come quello che potrebbe essere prodotto con l’industria manifatturiera e, soprattutto, con l’innovazione tecnologica, rispetto alla quale siamo terribilmente in ritardo, come tutta l’Europa. L’Intelligenza artificiale è appannaggio soprattutto di Usa e Cina. Quanto alle comunicazioni, basti pensare al dilemma che oggi riguarda il ricorso alla tecnologia satellitare offerta da Elon Musk, dato che noi (come tutti gli altri europei) non abbiamo ancora sviluppato un sistema satellitare così efficiente.
Da questo punto vista vale la pena di aggiungere che avremmo bisogno (Draghi dixit e tutti concordarono) di nuovi e più forti campioni europei (o anche solo italiani, se proprio si vuole) per reggere la concorrenza. Ma il governo, che tanto predilige e mette sul piedistallo il made in Italy, non presenta un progetto di politica industriale nazionale degno di questo nome. Inoltre, fatto di non poco conto, dal punto di vista fiscale l’esecutivo continua a privilegiare i micro affari, le partite Iva, gli autonomi, le piccole e medie imprese (tra flat tax e benevolo laissez faire sull’evasione), come se da bar, ristoranti, artigiani, notai e taxi dipendesse lo sviluppo del futuro.
Il terzo tema riguarda, appunto, il fisco. Dire, come fanno Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani, che bisogna ridurre le tasse in assoluto, non significa alcunché. Le tasse non sono buone o cattive in sé, ma relative a che cosa si vuol fare e all’efficienza e produttività del sistema.
Che cosa vuol fare il governo? E, soprattutto, che effetti hanno prodotto i tagli già decisi? Certo non quello di favorire la crescita. Ma era prevedibile. Non basta affatto tagliare le tasse per avere più crescita. Può dare un aiutino, ma non è il punto fondamentale. Basti pensare che la fase di sviluppo più formidabile del dopoguerra è stata caratterizzata da aliquote marginali sui redditi superiori al 90 per cento in Usa e Gran Bretagna, 70 per cento in Francia e poi, negli anni Settanta, in Italia. E non è che allora non nacquero imperi finanziari e industriali o che nessuno divenne miliardario. Al contrario. Poi è arrivato Milton Friedman (che rinverdì i fasti liberisti della scuola austriaca di Hayek), il quale negli anni Settanta riteneva che il sistema migliore fosse quello di Hong Kong, allora protettorato britannico, dove si produceva a costi ridottissimi e le tasse servivano solo a pagare polizia e il minimo di uffici amministrativi. Sono derivati da quella impostazione, dalla vittoria di Margaret Thatcher in Uk e Ronald Reagan in Usa, e dalla fascinazione di quel modello (vedi per l’Italia Silvio Berlusconi) tutti i tagli di spesa fatti nei decenni passati pur di ridurre le tasse, producendo sostanzialmente, basta guardarsi intorno, un sistema per il quale i più ricchi pagano meno degli altri. Non solo. Qui, in Italia e in Europa, sussiste ancora un modello diverso: abbiamo costruito sanità, scuola, assistenza pubblica, impresa pubblica. Solo che a furia di tagli (e di spesa poco efficiente) siamo arrivati al punto di rottura, con un ulteriore appesantimento della qualità della vita per i meno abbienti (vedi i 4,5 milioni di italiani che non possono curarsi perché non hanno i denari per rivolgersi ai privati).
In questo contesto, continuare a dire taglio le tasse come se fosse la panacea di tutti i mali, tacendo che, se va bene, questo limita le possibilità di intervento per migliorare la sanità, la scuola o altri servizi o addirittura che questo comporterà ulteriori riduzioni delle risorse destinate al Welfare State è un’operazione da un lato cieca (i risultati si vedono, eccome se si vedono nella realtà, li subiscono anche gli elettori delle destre) e dall’altro ipocrita. Tanto più che i risultati dei tagli sono modesti, a meno che non riguardino, come si è detto, partite Iva a forfait, quindi piccole realtà (alle quali peraltro conviene restare piccole per motivi fiscali) e redditieri.
Con il governo Meloni la progressività delle imposte, prevista dall’articolo 53 della Costituzione e già ampiamente minata negli anni passati, è sostanzialmente rimasta in vigore solo per dipendenti, pensionati, partite Iva che non hanno scelto il forfait o che hanno un fatturato superiore a 85 mila euro lordi l’anno e i proprietari di immobili locati a ufficio o a società. Tutto il resto è fuori.
È sempre un po’ noioso fare elenchi, ma in questo caso ne vale la pena, perché spiega anche la ragione per la quale l’aumento della pressione fiscale verificatosi nel 2024 (40,5 per cento nel terzo trimestre del 2024, lo 0,8 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) sia stato caricato soprattutto sui dipendenti, che insieme ai pensionati già garantivano oltre l’85 per cento del gettito Irpef.
Pronti? Via: le nuove partite Iva dei giovani pagano il 5 per cento su una parte del fatturato; sull’ammontare degli affitti concordati si paga solo il 10 per cento dell’incasso, non importa se il contribuente affitti così una casa o gli appartamenti di dieci palazzi. Sugli interessi di Bot, Cct e Btp si paga solo il 12 per cento, sia che tu abbia investito 5 mila euro di risparmi, sia che ne abbia investiti 500 mila. Gli autonomi e le piccole imprese con partita Iva a forfait pagano solo il 15 per cento sul 75 per cento del fatturato fino ad 85 mila euro l’anno e non versano un euro per sovrimposta regionale e comunale (uno dei primi provvedimenti del governo delle destre); sugli affitti non concordati si paga il 21 per cento; sui redditi di impresa si paga un secco 24 per cento (più il 4 per cento di Irap); sui capital gains si paga il 26 per cento secco (il 27 sugli interessi pagati dalle banche ai correntisti). Senza contare la carica delle flat tax contenuta anche nell’ultima manovra (5 per cento sugli straordinari degli infermieri e sulle mance nel turismo; 10, 12 e 15 per cento sui redditi di autonomi e piccole imprese che hanno accettato il concordato preventivo biennale; il 15 per cento sui redditi autonomi fino a 35 mila euro se prodotti da lavoratori che hanno già un reddito da dipendenti).
Come se non bastasse, poi, l’assenza di progressività si perpetua anche nelle successioni. Basti pensare che sull’ammontare dell’eredità i figli del defunto pagano il 4 per cento secco sulla parte di patrimonio che supera per ciascun erede il milione di euro di valore catastale. Quattro per cento sia che lo si debba pagare su mille euro sia che lo si debba pagare su un patrimonio di un miliardo di euro. Se poi il patrimonio che passa di mano è sotto forma di quote di maggioranza di imprese, gli eredi diretti, cioè i figli del defunto, non pagano nulla, se si impegnano a governare l’impresa per almeno 5 anni. Progressività zero, con buona pace di ogni discorso sul merito tanto in voga quando il governo voleva tagliare, come poi ha fatto, il sostegno ai più poveri conosciuto come reddito di cittadinanza: evidentemente il merito va richiesto ai figli dei poveri ma non ai figli dei più ricchi.
Si dirà sì, ma il governo ha tagliato il cuneo fiscale! Intanto va ricordato che il taglio del cuneo fiscale l’ha fatto il governo Draghi, per sostenere temporaneamente i dipendenti nella fase di difficoltà seguita al Covid. Il governo Meloni l’ha ampliato e poi confermato. Con l’ultima manovra l’ha reso strutturale per cinque anni (poi si vedrà o meglio lo vedranno i governi del dopo Meloni), ma ne ha cambiato la natura: al posto del taglio dei contributi ha fatto un’operazione mista tra bonus fiscali e detrazioni, allungando i benefici fino a 40 mila euro di reddito annuo. Questo passaggio non sarà indolore sulle buste paga di non pochi dipendenti (almeno 800 mila calcola l’Upb), perché si ritroveranno nella somma in fondo a sinistra un po’ di soldi in meno di prima. In ogni caso, in termini di intervento complessivo, il governo ha impegnato circa 17 miliardi per confermare il taglio del cuneo e la struttura dell’Irpef su sole tre aliquote. Sono somme di natura diversa e che non possono essere tecnicamente confrontate, ma dal punto di vista del valore del potere di acquisto sì, il taglio del cuneo equivale grosso modo all’effetto del fiscal drag.
In un paese in cui cala la produttività complessiva del sistema, a parte tutte le agevolazioni, i condoni, gli allungamenti delle rateizzazioni, il taglio delle sanzioni per i contribuenti infedeli (e mancano all’appello ancora 85 miliardi di euro l’anno secondo i calcoli del ministro Giancarlo Giorgetti), la struttura del sistema fiscale è dunque sensibilmente più leggera sui redditi prodotti con il patrimonio, cioè sulla rendita (il ricavo da affitti, titoli di Stato, per esempio) che sul lavoro e sulla produzione. È più leggera sulle piccole realtà che sui colossi industriali che pure sono in crisi. Tanto per fare un esempio: quanto è costato l’innalzamento del fatturato delle partite Iva che può dare la possibilità di scegliere di pagare solo il 15 per cento (sul 75 per cento del fatturato e senza sovrimposta regionale e comunale)? E quanto avrebbe favorito la concorrenzialità delle merci italiane se quei fondi fossero stati impiegati per abbattere il costo dell’energia, che è uno dei più importanti handicap dell’industria italiana?
Quarto tema, i conti pubblici. Il ritorno al patto di stabilità, sia pure riformato, ha imposto al governo Meloni di rientrare, sia pure con flessibilità e nel tempo, in parametri meno squilibrati. Per calcolare l’ammontare delle entrate e di conseguenza anche l’ammontare delle spese disponibili nel 2025, il governo ha previsto una crescita del pil ben superiore all’uno per cento reale. Lo ha fatto magnificando i tassi di crescita degli anni 2022 e 2023, anni in cui non vi erano più tetti per la spesa pubblica e i famigerati bonus edilizi che creavano sì buchi di bilancio ma spingevano anche l’attività edilizia e dunque l’occupazione e pure il conseguente incremento del Pil.
Già il 2024 si è chiuso con un modesto risultato. Nel 2025, se andrà di lusso, con la produttività in calo e l’industria in crisi, le previsioni più attendibili indicano un più 0,8 per cento (se non 0,7 o perfino 0,5). Mancheranno soldi, dunque. Lo stesso governo ha previsto, in base all’andamento dei tassi di interesse visto fin qui, che nei prossimi due anni vi sarà una riduzione di spesa per interessi su Bot, Cct e Btp di circa 10 miliardi. Ma le tensioni sui prezzi Usa (l’ultimo dato dell’inflazione indica il 2,9 per cento) e la previsione che una politica di dazi Usa troppo estesa possa portare di riflesso anche una nuova fiammata ha di fatto prodotto un innalzamento dei tassi sui bond Usa che potrebbero riverberarsi anche sui nostri titoli di Stato. Senza contare, poi, tutte le partite rinviate, come quella dei prestiti concessi dalle banche allo Stato (le famose tasse sui superprofitti), miliardi di euro che nei prossimi anni dovranno essere restituiti, o ancora le partite che il governo non vorrebbe giocare: molto rumore ha fatto l’immissione nel calcolatore dell’Inps dell’allungamento di tre mesi dell’età pensionabile, collegato all’innalzamento delle aspettative di vita. Il governo l’ha subito stoppato. Ma quei tre mesi in più o in meno significano anche più o meno spesa pubblica per la previdenza. La spesa per la difesa, inoltre (stiamo sotto al due per cento del Pil richiesto dagli accordi Nato, ma già Trump vorrebbe che arrivasse a più del doppio) dovrà sicuramente essere aumentata. Possiamo sperare solo che si trovi un accordo europeo per finanziarla con bond comunitari targati Ue. Altrimenti, come si dice con una battuta, rischiamo di passare dal welfare al warfare.
In conclusione, la realtà bussa alla porta del governo e questo 2025 sarà probabilmente l’anno in cui Giorgia Meloni dovrà farci i conti. Vedremo allora se la narrazione riuscirà ancora o meno a battere il morso dei fatti.