I predatori dell’Eni

Sta circolando con sempre maggiore insistenza un progetto, sostenuto da un Fondo americano, che vorrebbe spezzettare la nostra più importante impresa industriale sostenendo che ciò creerebbe “valore per gli azionisti”. Questo fatto è dubbio, mentre altre due cose sono certe: frutterebbe un sacco di soldi a chi organizza l’operazione e distruggerebbe rapidamente un asset strategico per il nostro paese

Si sta in questi giorni intensificando, fra la colpevole distrazione dei politici, e con la complicità di molti fra la stampa e negli ambienti economici, un’azione di attacco all’ultima grande impresa italiana, l’Eni. Ultima sia nel senso che era l’ultima nata, sia nel senso che è oggi l’ultima impresa industriale rimasta, se si eccettuano quelle di servizi, come l’elettrica e la telefonica.

 

Ci sono molti a cui l’operazione fa gola. Rompere l’Eni in quattro o cinque pezzi (e cioè: la ricerca e produzione mineraria nel mondo; la distribuzione di prodotti petroliferi, in Italia e nel Sud Europa; la rete italiana e internazionale dei metanodotti; il sistema di stoccaggio gas, uno dei pezzi più ambiti; le raffinerie e la petrolchimica in Italia; l’ingegneria e i grandi lavori) offre a molti l’opportunità di fare un mucchio di soldi. In primo luogo a coloro che organizzano e portano a termine queste complesse operazioni di scorporo e di rilancio in Borsa dei vari pezzi, che incassano come consulenti e operatori di Borsa dei compensi di portata eccezionale. Sono coloro che in gergo vengono chiamati gli sfasciacarrozze, il cui passaggio su una grande impresa lascia di solito delle rovine, e delle imprese più piccole e molto più deboli.

 

Ci sono precedenti famosi, come quello della più grande impresa chimica mondiale, l’Imperial Chemical Industry, che cominciò con un “demerger”, cioè scorporando la parte farmaceutica, e finì con la definitiva scomparsa dell’azienda, di cui non è rimasto neppure il nome.

 

Questi pezzi potranno sopravvivere autonomamente? Ovviamente no, perchè la forza delle aziende moderne è proprio la loro integrazione in settori loro vicini, una cosa utile a determinare una ragionevole continuità dei profitti. Gli sfasciacarrozze dicono già adesso che le parti più attraenti dell’Eni sarebbero comunque destinate a cadere nell’orbita delle grandi compagnie internazionali. Il progetto significa, quindi, la resa dell’economia italiana al sistema finanziario internazionale, quello stesso le cui scriteriate attività hanno portato alla gravissima crisi economica ancora lontana dall’essere risolta.

 

Dividere l’Eni ha un significato preciso. Vuol dire indebolire l’intera economia italiana in un settore particolarmente delicato, quello dell’approvvigionamento di energia, e ridurre la nostra capacità di perseguite progetti rilevanti in un’area  da tutti definita strategica. Vuol dire azzerare la capacità del nostro paese di presidiare un settore in cui conta la potenza industriale, e perdere la possibilità di farsi sentire nei luoghi dove vengono definiti gli assetti della struttura economica e produttiva mondiale. Vuol dire, fra l’altro, mettere in grave difficoltà il grosso gruppo di imprese italiane che sono nate per soddisfare la domanda di servizi e di manufatti industriali da parte dell’Eni, che vedrebbero scomparire il loro principale cliente, e in pratica, il loro mercato. Vuol dire smobilitare importanti strutture di ricerca scientifica industriale che non potrebbero essere più sostenute dalle ridotte dimensioni dell’ impresa, e ridurre probabilmente a poco più di metà l’occupazione stabile delle varie imprese risultanti dallo scorporo rispetto a quella del gruppo Eni.

 

Mentre il governo americano butta un’ernome quantità di dollari  a sostegno delle sue banche e della sua  industria automobilistica, una struttura quest’ultima ancor oggi non competitiva sul mercato mondiale, l’Italia sembra accettare passivamente il progetto di distruggere la sua unica grande impresa che competitiva lo è, e che è per questo largamente invisa ai competitori, i quali fanno affidamento sul proverbiale autolesionismo degli italiani, e sullo scarso amore per le strutture industriali moderne. Tutto ciò andrebbe a vantaggio di gruppi internazionali, o, forse anche di gruppi italiani, che sarebbero comunque troppo deboli per farsi valere direttamente sullo scacchiere internazionale, e quindi dipenderebbero da coloro che lo possono fare.

 

Questa operazione è giustificata, almeno fin’ora, con il fatto che essa porterebbe maggiori dividendi agli azionisti, il che potrebbe essere vero nella prima fase, ma certamente non nelle fasi seguenti, quando la capacità di profitto industriale sarà necessariamente compromessa, ed i dividendi necessariamente ne subiranno il contraccolpo. Lo Stato italiano vorrà sacrificare alla prospettiva di qualche dividendo in più per un anno o due la sopravvivenza di una grande impresa? E come può pensare di compensare la perdita di occupazione qualificata, che si andrà ad aggiungere al già difficile mercato del lavoro italiano? Con una nuova massiccia emigrazione intellettuale, cioè con un’emorragia mai più recuperable? Lo Stato ha ancora il trenta per cento del capitale dell’Eni ed è quindi  di gran lunga il maggior azionista del gruppo. Da esso non è venuta parola, e il progetto va avanti e cresce e se nessuno lo ferma crescerà fino a che sarà diventato inevitabile.

 

È il caso di ricordare che i signori che propongono queste cose sono gli stessi che hanno prodotto la più grande crisi economica e finanziaria avvenuta sin‘ora nel mondo, quelli stessi che non hanno esitato a farsi salvare dal denaro pubblico, senza per altro abbandonare la loro proverbiale arroganza. La finanziarizzazione dell’economia moderna ha prodotto guasti enormi, più grandi negli Stati Uniti, ove essa è molto più avanzata che nell’ Europa continentale, dove i governi francese e tedesco hanno reagito in modo molto efficace, e dove la forza dell’industria non è ancora stata ridotta dal prevalere della finanza.

 

Invece di indebolire seriamente la propria capacità economica, l’Italia dovrebbe affrontare il tema della sopravvivenza della sua economia, e delle possibili iniziative di sviluppo che contrastino la stagnazione economica che si va consolidando. Per fare questo, e fermare l’attuale decadenza del sistema produttivo italiano, lo Stato dovrebbe chiamare a raccolta le imprese ancora capaci di prendere iniziative importanti, e immettere nel nostro sistema delle energie fresche. Fra queste imprese, la maggiore è certo l’Eni, e non sembra proprio il caso di rinunciare a questa capacità al fine di aumentare per poco più di un anno la retribuzione degli azionisti. È inutile fare ancora della retorica sull’operato di Enrico Mattei, quando gli italiani non riescono neanche a rendersi conto che si sta  seriamente pensando di smobilitare la sua creazione.
Sabato, 30. Gennaio 2010
 

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