I precari abbandonati

C'è una parte del mondo del lavoro senza tutele e anche senza rappresentanza: non c'è mai stato un grande scontro sindacale che avesse ad oggetto questi lavoratori. Le uniche proposte che sono state avanzate in materia non sono condivisibili: ma, oltre a rifiutarle, bisognerebbe elaborarne di alternative

L’attuale crisi metta in evidenza i limiti del nostro sistema di welfare. Siamo agli ultimi posti tra i paesi dell’Unione Europea, compresi quelle di recente ingresso, nella spesa per la famiglia, la disoccupazione e l’esclusione sociale. La spesa sociale italiana è, inoltre, particolarmente inefficiente se la valutiamo rispetto alla sua capacità di riduzione della povertà (la differenza tra la percentuale di famiglie in situazioni di povertà prima e dopo i trasferimenti sociali nel nostro paese è tra le più basse rispetto ai paesi dell’UE).

 

La spesa per l’assistenza è costituita, inoltre, quasi integralmente da prestazioni monetarie destinate a specifiche categorie di soggetti: pensionati da lavoro dipendente o autonomo (mediante i trasferimenti della Gias), invalidi civili e di guerra, anziani (pensioni sociali). Per coloro che non rientrano in queste categorie, non resta che una parte residuale della spesa assistenziale.

Non abbiamo prestazioni contro la povertà e si è accentuata la differenza di tutele nel mondo del lavoro. Gli ammortizzatori sociali non sono disponibili per una parte del mondo del lavoro regolare (per una parte solo con provvedimenti in deroga) e per tutto quello irregolare; anche altre prestazioni, come le indennità di maternità, di malattia e di disoccupazione, sono godute solo da una parte del mondo del lavoro.

 

Il sistema pensionistico introdotto con la riforma Dini è costruito per garantire una sufficiente copertura pensionistica a lavoratori dipendenti con carriera lavorativa regolare e continua. Per tutti gli altri si prospettano livelli insufficienti di protezione pensionistica (per chiarezza anche il sistema retributivo non avrebbe garantito livelli sufficienti di copertura per i lavoratori precari).

 

Si può affermare che il sistema sociale italiano non unifica il mercato del lavoro: vasti settori di lavoratori sono privi di tutela o ne godono in misura ridotta. A sua volta la diversità di contribuzione favorisce la segmentazione del mercato del lavoro costituendo un incentivo per i datori di lavoro a creare occupazione precaria. Il risultato è che ad una maggiore flessibilità si accompagna una minore tutela sociale e, solitamente, anche una minore retribuzione. La recessione che si annuncia sempre più grave, trova, quindi, senza adeguata tutela sociale una parte non piccola del mondo del lavoro, sia rispetto al reddito sia rispetto al futuro pensionistico e la mancanza di una prestazione di reddito minimo garantito, presente in molti paesi europei, espone poi questi lavoratori a un forte rischio di povertà.

 

I provvedimenti adottati dal governo per contrastare gli effetti della crisi sul piano sociale sono marginali nelle dimensioni rispetto al problema povertà e mostrano una visione “caritatevole” del problema, e sono insufficienti rispetto al problema ammortizzatori. In questo settore vi è non solo il problema di risorse aggiuntive per la cassa in deroga, ma anche quello di una riforma complessiva che affronti il problema dell’estensione degli ammortizzatori sociali a tutto il mondo del lavoro privato. E’ la via necessaria per riunificare il mercato del lavoro con un sistema di prestazioni sociali, e un livello di contribuzione, uguali per ogni tipologia di contratto e di lavoro.

 

Certo non appare questo il governo più adatto per affrontare e risolvere in questa direzione il problema del dualismo del nostro mercato del lavoro. Il punto è che anche le forze di sinistra, e il sindacato, sono molto indietro su questo tema. Il dualismo e la diversità di tutele nel mercato del lavoro sono di antica data, la necessità di una riforma degli ammortizzatori sociali è affermata fin dalla Commissione Onofri (1997). Alle parole non sono mai seguiti i fatti se non in forma marginale. Le affermazioni sulla necessità di evitare che la flessibilità si trasformi in precarietà appaiono rituali se confrontate con i comportamenti concreti delle forze sociali e con le battaglie fatte.

 

Gli scontri con i governi e anche le rotture sindacali sono sempre avvenuti su provvedimenti riguardanti i lavoratori regolari, raramente e solo marginalmente sui precari. Certo il Protocollo sul welfare ha visto uno scontro finale su alcuni punti della legge Biagi, ma il tema fondamentale di dibattito è stato lo scalone, risolto con un aggravio di spesa di 7,6 miliardi pagato per quasi la metà con un incremento di contribuzione a carico dei parasubordinati (3,6 miliardi). Ai giovani precari che andranno in pensione ad età molto più alte delle attuali, è stato imposto di finanziare una riduzione di età pensionabile dei lavoratori attuali. Certo ne avranno un vantaggio in un lontano futuro in termini pensionistici, ma intanto subiscono oggi senza alcun vantaggio il peso di quell’aumento di contribuzione. Su questo nessuno ha avuto nulla da ridire, eppure con quell’aumento di contribuzione si sarebbe potuto affrontare una riforma degli ammortizzatori. L’impressione è che il problema dei precari sia sempre affermato in via di principio, ma difficilmente affrontato; i lavoratori precari appaiono privi non solo di tutele sociali, ma anche di una vera rappresentanza politica e sociale. E’ deprimente osservare che gli unici a porsi il problema di superare l’attuale dualismo del mercato del lavoro siano Ichino e Boeri. Se non si è d’accordo, giustamente, con le loro proposte si ha però il dovere di farne altre. L’accettare di fatto come è avvenuto il perpetuarsi di questo dualismo condanna i lavoratori più giovani ad un futuro di precarietà.

 

Sul sistema pensionistico si assiste ad uno strano balletto con la Confindustria che chiede un intervento sul sistema (un innalzamento dell’età pensionabile) e il ministro Sacconi che afferma che il problema non è all’ordine del giorno. Confindustria dovrebbe almeno spiegare come si possa coniugare l’attuale crisi e la prevedibile ondata di licenziamenti con l’innalzamento dell’età pensionabile. Boeri e Cazzola propongono interventi e ne indicano anche i rilevanti risparmi che si otterrebbero (ma solo intaccando diritti quisiti, ponendosi quindi fuori dai principi fino ad oggi seguiti), affermando che potrebbero essere utilizzati per interventi sociali oggi dotati di risorse insufficienti. L’idea di spostare risorse dal sistema pensionistico ad altri interventi sociali è indicata da almeno un ventennio e portata spesso a sostegno delle riforme del sistema pensionistico, ma questo trasferimento non è mai avvenuto. Tutte i risparmi prodotti dalle riforme sono stati utilizzati per la riduzione dell’indebitamento e del debito pubblico. Se effettivamente si volesse realizzare questo trasferimento basterebbe proporre un provvedimento di istituzione di nuove prestazioni sociali indicandone i costi e i modi di finanziamento. Se non si fa così si propone per l’ennesima volta un intervento sulle pensioni volto a fare cassa.

Mercoledì, 11. Marzo 2009
 

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