I patti sociali tra crescita e occupazione

Un dibattito tra economisti, poi tradotto in volume, affronta il problema di come l'Italia possa uscire da una situazione che la vede in coda all'Europa sia per produttività che per crescita che per livelli salariali. Riflessioni sulla via indicata da Ezio Tarantelli

Il volume a cura di N. Acocella e R. Leoni, “Social Pacts, Employment and Growth” raccoglie saggi di una platea differenziata di economisti, ampiamente rielaborati a partire dai contributi presentati  in occasione del Convegno in onore di Ezio Tarantelli, nel ventennale del tragico agguato. ( Roma “La Sapienza”, Facoltà di Economia, Aprile 2005).  

Il nome di Ezio Tarantelli, e l’impegno degli autori nel ripensare sotto diverse prospettive   obiettivi, prassi e risultati delle politiche di “Patto sociale” nei contesti di ieri ed oggi, stimolano certamente una riflessione in un momento in cui, in Italia e non solo in Italia, si percepiscono i limiti di una difesa della pura continuità delle norme, o di replica delle ritualità istituzionali e contrattuali. Il contributo ad una prospettiva di migliore performance della nostra economia richiede occasioni di riflessione composta, senza esibizionismi o proclami,  ed uno sforzo propositivo per progetti capaci di innescare una sommatoria positiva di benefici, pur senza imporre ulteriori sacrifici a coloro che piu’ hanno già sopportato.
 Ripercorriamo allora la “Proposta Tarantelli”, rinviando ai saggi contenuti nel volume per  dettagli, cronologie, il dibattito di allora e i ripensamenti di oggi.  La brevità dell’occasione non consente una rassegna delle posizioni, spesso ampiamente variegate, espresse dai diversi contributi.  Evitiamo pertanto la difficile scelta dei riferimenti,  citazioni ed esclusioni. 
 
A fronte di un conflitto distributivo che si era riflesso, certo insieme ad altri fattori, su una deriva inflazionistica incompatibile con una stabile integrazione nella comunità dei paesi piu’ avanzati del Continente, Ezio Tarantelli si era esposto, dall’inizio degli anni ottanta e nelle diverse sedi di dibattito politico, sindacale ed accademico, a favore di una soluzione radicalmente centralizzata della contrattazione salariale di base.  La predeterminazione della inflazione programmata, e il virtuale ancoraggio di una dinamica dei salari “minimi” a questa, pur con clausole di salvaguardia in caso di sua mancata corrispondenza ex-post con il tasso reale, veniva vigorosamente sostenuta come unica possibile alternativa al rischio di una soluzione “classica” di repressione monetarista : “doccia scozzese”,  recessione e disoccupazione di massa, inflazione alla fine doma, ma chissà in quale quadro sociale ed istituzionale per il paese.  Tarantelli pago’ con la vita un impegno, forse primariamente rivolto a suggerire una via d’uscita da un quadro di conflittualità a rischio immediato di degenerazione. 
Il suo monito, a mio avviso, è valso a chiarire al movimento sindacale che una scelta prima o poi sarebbe stata richiesta; del resto, la realtà europea suggeriva immediatamente le possibili alternative, fra un sindacalismo britannico annichilito dalla violenta repressione delle rivendicazioni, ma soprattutto dallo svuotamento delle sedi e strumenti di quello che era stato un “contropotere” di fatto, e la relativamente tranquilla situazione di paesi ove il Sindacato era stato cooptato, se non era il principale organo di gestione insieme ad una socialdemocrazia ad esso organica, all’interno di una prassi “neo-corporativa” di gestione macroeconomica .  I paesi della Scandinavia, ma anche Austria, Olanda, erano allora ( solo allora ?) visti come esemplari nella loro capacità di conciliare bassa inflazione, bassa disoccupazione e buona tenuta competitiva, pur nel loro contesto di piccoli paesi alla presa con un quadro competitivo in intensificazione.  La soluzione “corporativa” veniva allora suggerito come uno scambio, esplicito e consapevole, fra rinuncia ad ogni autonomia della dinamica salariale di base e la partecipazione cogestita della regolazione economica.  In questa, tuttavia, Tarantelli includeva anche elementi di uno “scambio sociale”, nei termini di una maggiore capacità di incidenza su obiettivi di “welfare” e  provvigione di beni pubblici.  
 
Saltiamo, per vincolo di spazio, la cronaca delle attuazioni parziali e conflittuali della “Proposta Tarantelli” ed arriviamo direttamente all’oggi, a quasi quindici anni dal “Protocollo” del luglio 1993 in cui questa veniva apparentemente ad inverarsi come strumento chiave di una stabilizzazione, finalmente perseguita con convinzione nell’obiettivo di non fallire il “traguardo Euro”. L’inflazione si è ridotta dal 21 % del 1980 all’epoca dei primi interventi pubblici di Tarantelli al 2,1 %; l’Euro troppo forte di oggi, in luogo della liretta vergognosamente esposta ad  esibizioni al ribasso alla minima crisi, ci protegge, bene o male, dal ricadere nel caos di allora. 
 
Ma alcuni conti dello “Scambio sociale” non tornano,  ad opinione di diversi autori dei testi.  Se la stabilizzazione doveva essere la precondizione per la crescita, questa non è stata; l’Italia è stata anzi l’ultima negli anni recenti nella graduatoria UE per crescita di prodotto e produttività.  Non si è evitato un costo occupazionale all’indomani della crisi del 1992, anche se siamo oggi quasi sorpresi a fronte di un minimo storico del tasso di disoccupazione a cui non sembra tuttavia corrispondere una qualità della nuova occupazione.    I redditi da lavoro hanno ristagnato, con perdite significative di quota nella distribuzione del reddito complessivo.  I salari reali, la produttività, gli investimenti sono, contemporaneamente, cresciuti di meno che nella media europea.  La disinflazione e la moderazione di una dinamica salariale di base non hanno avuto una contropartita adeguata: se potevano rappresentare un’occasione, in termini di stabilizzazione delle aspettative, tale occasione non è stata colta. 
 Nella situazione attuale, quando la tracimazione nella svalutazione e nel deficit pubblico di un sovrappiu’ di rivendicazioni di reddito rispetto alla crescita reale non è piu’ consentita, e dove la globalizzazione su scala mondiale ha allargato l’interazione competitiva a un livello ben piu’ ampio di quello della Comunità europea di allora, la reiterazione di “Patti Sociali” a livello centralizzato rischia di costringere il sindacato a compromessi al ribasso: es. flessibilità del lavoro nelle varie direzioni, sulla base di un teorema mai completamente dimostrato che queste paghino in termini di guadagni di reddito “nel tempo”.  Se di riforme si parla, per la provviggione dei beni colletivi, se ne parla in termini di razionalizzazioni e riduzioni della spesa.  Non si tratta di tendenza solo italiana; l’ipotesi della regolazione “corporativa” regge ancora in pochi paesi, dove sia pure in presenza di nuove aree di marginalità gli istituti e livelli fondamentali di garanzie di uno “Stato sociale” sembrano ancora preservati.

Alcuni dei saggi indicano esplicitamente il mancato aggancio di una dinamica dei redditi reali del lavoro alla produttività media, come un fattore di rallentamento, piuttosto che di stimolo, ad una crescita quantitativa e qualitativa di investimenti ed offerta.  Questo, per le implicazioni in termini di crescita stentata dei consumi, ma ancora perché la scarsa spinta di un “pungolo” salariale avrebbe potuto incoraggiare le imprese ad accomodarsi all’interno di standards tecnologico-organizzativi arretrati.  Se imprese e settori a bassa produttività non possono pagare piu’ della media, dovranno essere le imprese con dinamiche piu’ sostenute di una redditività attuale e potenziale a consentire margini di  crescita salariale al di là delle rigidità delle tabelle contrattuali.  Si tratta, insomma, di rilanciare la contrattazione integrativa basata sulla partecipazione ai guadagni di produttività, eventualmente anche con concessioni ex-ante ripagate da  premi ex-post.

Nulla di nuovo sotto il sole ?   Forse, ma c’è nella proposta una nuova consapevolezza dei limiti di un patto sociale inteso come cogestione centralizzata della stagnazione, e della soppravvivenza fisica dei lavoratori ( e politica del sindacato).  Affinchè in un’economia progressiva  gli “obiettivi di Lisbona” , di una società basata sulla valorizzazione della conoscenza ( “knowledge society”)  non rimangano solo buone intenzioni, occorre sviluppare forme di cooperazione mirata fra competenze imprenditoriali e valorizzazione ( con remunerazione adeguata) di un lavoro che si riqualifica nell’ambito di processi innovativi.  
 
Una parte quantitativamente maggioritaria del tessuto produttivo italiano è oggi lontano dalle stesse condizioni di partenza di una “learning organization”.  Ma è anche vero che modelli “cooperativi” a livello “micro” sono caratteristici di imprese ed organizzazioni alla frontiera dell’efficienza nei confronti settoriali ed internazionali. A questo si contrappone un modello “brutalmente” americano, di frantumazione del lavoro, esasperata individualizzazione degli incentivi, abolizione del sindacato.  Si tratta forse  di una dialettica interna fra capitalismi, ma non converrà infine, come ai tempi di Tarantelli, influire sulla eventuale opzione ?

Chi scrive è convinto che una parte ancora ampia della platea dei lavoratori italiani, relegati in vecchie marginalità e nuove precarietà, richieda ancora e per molto tempo una tutela a livello “macro”, di garanzia di livelli e continuità di una sussistenza dignitosa, e di una legislazione ancora posta alla tutela di una parte contrattualmente piu’ debole.  Non si puo’ prescindere dalla difesa di tali posizioni, anche se non necessariamente questa implica la continuità “ad libitum” di istituti contrattuali dati, come la fine della “scala mobile” ha dimostrato.  
Ma è inutile di per sé moltiplicare i tavoli centralizzati della concertazione: una piu’ insistente presenza nelle istituzioni non compensa un distacco crescente dalle nuove condizioni, siano progressive o regressive, del lavoro.  Altrimenti il sindacato rischia di sopravvivere, come in un contributo di un autore non italiano cinicamente si sottolinea, “nei limiti in cui alle organizzazioni imprenditoriali conviene che sopravviva”, in quanto contribuisce ad una gestione di routine delle buste paga.  
 
Nel volume si mescolano contributi piu’ idiosincratici e di approccio formale, adatti ad un pubblico specialistico, e riflessioni su fatti e tendenze del contesto italiano, di interesse per una platea ampia di lettori.  Credo, in conclusione, che il volume contribuisca ad innescare una rielaborazione del recente passato e un dibattito sul possibile futuro per tematiche, allora come oggi, decisive.

                                                                                

Venerdì, 16. Novembre 2007
 

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