I paesi petroliferi da problema a opportunità

I record segnati in questi giorni dal prezzo del greggio dipendono da una complessa serie di variabili, e la domanda reale è solo una di queste. Rispetto agli anni 70 il quadro è però radicalmente mutato e anche per le nostre piccole imprese è possibile una strategia che ne favorirebbe anche la globalizzazione
Il  quadro generale dell'economia mondiale è  profondamente cambiato negli ultimi cinque anni . Esso è dominato da  due fenomeni collegati fra di loro: la globalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali, da un lato, lo sviluppo economico di paesi nuovi , dall'altro.
 
Il mercato dei capitali non ha oggi più limiti  geografici o politici, nella sua ricerca di più alti rendimenti.  L'International Finance Institute, un'organizzazione internazionale di banche private, prevede per 2005 un flusso di capitali privati ai cosiddetti "mercati emergenti " di 310 miliardi di dollari , con un leggero aumento rispetto all'anno precedente. Di questi , più del 40% sono  destinati all'area dell'Asia-Pacifico, che include la Cina,  e il 39% ai paesi cosiddetti emergenti dell'Europa. Il 14% è destinato all'America Latina , e solo circa il 4% all'Africa.
 
La globalizzazione finanziaria  è in pieno sviluppo. Il mercato dei beni  di ostacoli ne ha sempre di meno, e nuovi produttori sorgono ogni giorno per materie prime e prodotti manufatti. Le imprese si globalizzano, quelle grandi ma anche quelle piccole, seguendo le opportunità offerte dal mercato dei capitali e dai differenziali nel costo di produzione. In Oriente, paesi che furono in passato sedi di grandi civiltà, hanno  adottato se non la struttura  civile e politica dell'Occidente , ma almeno  una crescente separazione fra economia e politica,  e stanno oggi realizzando un processo di  rapido sviluppo economico.
 
Alcuni fra questi paesi rappresentano  già oggi un elemento portante dell'economia del pianeta non soltanto per la  popolazione che ne fa dei grandi centri di domanda di materie prime e manufatti,  ma anche perché  un'accorta  strategia  finanziaria internazionale ha permesso almeno ad uno di loro, la Cina, di finanziare largamente , attraverso l'acquisto di  titoli del Tesoro USA, l'economia americana,  permettendo così agli USA di  vivere normalmente con il più grande deficit  del Governo Federale  mai registrato, e con una bilancia commerciale in deficit.
 
Allo sviluppo di questi paesi corrisponde oggi un vero e proprio boom economico dei paesi del Golfo, portato dall'alto prezzo del petrolio, ma anche  da una crescente separazione dell'economia dalla politica, e dal rientro di capitali investiti all'estero, dati i bassi tassi d'interesse prevalenti oggi nel mondo. Si tratta di fenomeni sicuramente positivi. Lo sviluppo economico di grandi paesi poi caduti in povertà, e dei paesi nuovi,  è stato per anni il sogno di tutti i giovani economisti della mia generazione . Esso fa progredire l'economia mondiale e riduce la povertà, ma  ovviamente  crea importanti dislocazioni  nei mercati e nelle correnti di traffico.
 
L'entrata massiccia di nuovi paesi sul mercato internazionale  ha aumentato  la concorrenza, non solo sui mercati dei prodotti, ma anche su quello delle materie prime e dei semilavorati . Le ripercussioni di questo duplice fenomeno si sono già fatte sentire in Europa. L'accento viene ovviamente posto sulla competitività dell'industria italiana ed europea, che non è un fenomeno semplice da analizzare. La chiave della capacità di competere sul mercato internazionale non sta nel costo del lavoro, ma nella tecnologia e nell'efficienza dei servizi alla produzione, come quelli finanziari e logistici.
 
La tecnologia s'incorpora in varie componenti di base dell'attività produttiva. Nell'industria di processo essa s'incorpora nei processi ; nella manifattura, nelle macchine e nei semilavorati che l'industria trasforma in prodotti. Sia detto fra parentesi, sono proprio le macchine che esportano gli italiani, sempre meno costose e più efficienti, che producono l'enorme volume di beni a buon mercato  che escono dalle manifatture cinesi.
 
Tecnologia vuol dire investimenti in ricerca, nei prototipi, nel miglioramento continuo dei prodotti, specie delle macchine. Lo sviluppo non si può fermare nemmeno per un attimo. Le tecnologie devono migliorare continuamente ed il loro ritmo di cambiamento   dev'essere sempre più rapido. Per questo c'è bisogno di investimenti, ma  è ormai da molti anni che gli investimenti non esercitano  più una funzione propulsiva  nell'economia italiana. Una parte della tecnologia è incorporata nei semilavorati, e cioè nei nuovi materiali, come le materie plastiche,  che sono prodotti da industrie di grandi dimensioni e di grandi volumi come quelle petrolchimiche.
 
Perché questi materiali siano fattore di competitività sul mercato è necessario sviluppare i know how applicativi che permettono di innovare i prodotti finiti e di ridurne i costi. Ciò richiede una collaborazione stretta e continua, una vera e propria simbiosi, fra le grandi imprese, e quelle, più piccole e vicine al mercato, che i semilavorati li  trasformano in prodotti finiti. Tutto ciò non è facile, soprattutto in Italia, un paese che vede un progressivo decadere della grande industria, il che implica già di per sé un rallentamento del ritmo di progresso tecnologico del paese e determina un  graduale assestarsi delle imprese transformatrici  ad un ritmo lento  di cambiamento tecnologico.  Il mercato internazionale ha una dinamica incessante,  nuovi produttori vi entrano ogni giorno e non basta seguire il mercato, bisogna precederlo. Ci sono aspetti dei prodotti che possono essere facilmente copiati come il design, e aspetti, come i materiali usati e la strutturazione elettronica della produzione e del prodotto stesso, che sono molto più difficili da imitare, e  che si possono copiare  soltanto in tempi molto più lunghi.
 
Il mercato delle materie prime e dell'energia sta subendo anch'esso sviluppi molto rapidi, e contrastanti. Quello del petrolio è ormai un mercato di certificati finanziari, che vengono emessi a milioni ogni giorno e di cui solo una minima parte  finisce per determinare un movimento fisico di petrolio o di gas. Ciò vuol dire che il prezzo del petrolio è fatto dal rapporto fra domanda e offerta non solo di petrolio, ma anche di capitale di rischio. Se, ad esempio, il mercato delle obbligazioni non promette guadagni importanti a breve termine, mezzi finanziari importanti usciranno da quel mercato per andare a giocare in quello del petrolio, e viceversa. Il prezzo del petrolio dipende perciò solo in parte dalle condizioni della domanda e dell'offerta di petrolio, sia pure percepite in una certa prospettiva temporale; esso  dipende  anche  da fenomeni come l'andamento della Borsa,  i movimenti del tasso d'interesse,  il rapporto fra l'euro e il dollaro,  eccetera. Di fatto, esso è influenzato ogni giorno dalla differenza di rendimento di breve termine  dei vari strumenti finanziari che si possono acquistare sul mercato  - azioni, obbligazioni, valute, materia prime, derrate alimentari,  eccetera. 
 
Ciò non vuole ovviamente dire che non vi sia un fenomeno di fondo, l'aumento dei consumi petroliferi negli Stati Uniti e nei paesi cosiddetti emergenti , che  avviene in un momento in cui le attrezzature di produzione e soprattutto quelle logistiche e quelle di raffinazione,  faticano a tenervi testa , data  anche il mancato sviluppo della produzione irachena. 
  
Un fenomeno simile si verifica anche per le altre materie prime e semilavorati, anche se le più modeste dimensioni delle transazioni rendono il mercato meno " liquido" e il fenomeno meno visibile.
 
Nel mercato petrolifero, opera oggi tuttavia  un'altra tendenza, che sembra  l'esatto opposto della prima. I grandi paesi che si vanno sviluppando a ritmo accelerato - come India e Cina -  sono ben consci che un prezzo alto e crescente del petrolio potrebbe creare delle forti difficoltà alle loro bilance dei pagamenti, e per questa via rallentare o addirittura arrestare il loro sviluppo. Essi cercano perciò di definire delle alleanze con i paesi produttori nella speranza di definire diritti di prelievo a lungo termine, ed anche  d'isolare il prezzo delle loro transazioni  dalla volatilità del mercato. A questo fine, essi  offrono i contratti più diversi, ma tutti di lungo periodo. Offrono di lavorare nei paesi produttori nell'esplorazione e produzione d'idrocarburi, o per la costruzione di raffinerie o di grandi impianti logistici  per la liquefazione del gas naturale o per trasporto di olio e gas;  invitano i paesi produttori ad entrare nel loro mercato con joint ventures per costruire raffinerie  o con contratti di fornitura a lungo periodo per quelle esistenti; offrono infine contratti di acquisto a lungo termine legati a scambi di altre materia prime o con prodotti manuifatti .
 
E' molto  probabile che contratti  così complessi e a lungo termine  finiscano per definire propri meccanismi di prezzo  e non seguano ad ogni  momento il prezzo che il mercato dei futures fissa nella sua volatilità. Si va così formando un'area separata del mercato. Chi rimane fuori rischia di dover pagare prezzi più alti di chi vi sta dentro,  o addirittura di  avere incertezza degli approvvigionamenti.

Quale ruolo giocano in questo quadro le grandi compagnie petrolifere internazionali?  E' molto improbabile che esse possano o vogliano incidere seriamente su questa situazione. Le loro riserve di petrolio greggio superano di poco il 7% delle riserve totali, che  sono  per il 92 per cento dei paesi produttori. Le grandi compagnie, un tempo integrate verticalmente,  si sono per così dire dis-integrate, hanno cioè abbandonato i settori che ritengono meno redditizi come le raffinerie, che negli Stati Uniti  sono ormai quasi completamente in mano a imprese piccole e non integrate con la produzione di greggio. Ne è derivata una scarsità di investimenti  in nuova capacità  anche perché risorse  non indifferenti  sono state destinate ad adeguare la produzione  alle nuove regole ambientali.  E anche oggi, nonostante la scarsità di capacità di raffinazione abbia premuto sui prezzi, con effetti che sono sotto gli occhi di tutti, quei possibili nuovi investimenti che si potranno fare si faranno  ampliando gli impianti esistenti e non  creandone dei nuovi.
 
Premute come sono dalle loro richieste di sempre maggiori dividendi, e dalla minaccia di scalate se esse non vengono esaudite, le grandi compagnie  accettano solo la responsabilità verso  i propri azionisti,  e non la responsabilità per un approvvigionamento sufficiente ai  mercati  di consumo. Esse sono inoltre limitate nel loro accesso ai paesi petroliferi in parte dal nazionalismo economico di questi paesi, in parte dalle loro richieste circa i profitti attesi da attività  in quelle aree,  e in parte dall'immagine che esse, a torto o ragione,  hanno  di operatori poco riguardosi  dell'ambiente circostante  politico o naturale.
 
In conclusione sembra che le condizioni attuali del mercato petrolifero dovrebbero spingere i paesi consumatori e le loro imprese ad una riflessione sulle loro condizioni di approvvigionamento e sull'opportunità di esperire  ciò di cui si parlò a lungo negli anni '70-80 , ma con pochi effetti pratici,  cioè una politica di stretta cooperazione con i paesi produttori. Molte cose, da allora, sono cambiate.  Le difficoltà politiche che esistevano negli anni '70, quando alcuni paesi consumatori s'erano posti in una posizione di  antagonismo rispetto a quelli  produttori di petrolio, non ci sono più. Il dialogo fra i due gruppi è iniziato, si è sviluppato, ed è oggi estremamente cordiale.
 
Nel frattempo, è cambiata la situazione economica e finanziaria dei paesi produttori. Alcuni di essi, ed in particolare quelli del Golfo, sono diventati dei centri economici e finanziari di tutto rispetto. Negli anni '70, quando l'infrastruttura economica e produttiva di quei paesi era ancora poco sviluppata, non tutta la  rendita petrolifera poteva essere investita all'interno, e parte di essa fu investita all'estero in beni reali, come nell'edilizia delle grandi città, o in strumenti finanziari. Ciò accade ancor oggi, ma in misura molto minore. Negli anni di prezzi bassi del petrolio, una parte di questi mezzi ritorna poi  nel paese a finanziare iniziative, principalmente di imprese private. Oggi, l'infrastruttura di questi paesi è sensibilmente più sviluppata, le Borse stanno allargando il  parco titoli, e cominciano ad operare come strumenti di finanziamento di iniziative nell'industria e nei servizi.
 
La posizione di questi paesi è cambiata anche  verso il loro mercato. Gli Stati Uniti e l'Europa non sono più i soli grandi centri di importazione di petrolio e di gas. Allora, i produttori non avevano altra scelta che riferirsi a loro. Oggi, i grandi paesi nuovi consumatori vanno esercitando una domanda  in forte aumento, mentre quella dell'Europa è praticamente stagnante. La partnership non è più inevitabile, è materia di scelta. 
 
Inoltre, i paesi del Golfo sono perfettamente consci di essere già oggi gli arbitri della produzione petrolifera mondiale, e che questa loro situazione diventerà sempre più visibile man mano che passa il tempo e che le riserve di altri paesi si andranno riducendo. Poiché le economie dei paesi produttori sono molto più diversificate di un tempo, le oscillazioni del prezzo del petrolio hanno effetti più visibili sul complesso delle loro economie.  Essi sono ben consci delle ragioni dei paesi sviluppati  di ridurre i consumi di energia; hanno visto nascere e svilupparsi le politiche derivanti dall'accordo di Kyoto, e si preoccupano di identificare le reali dimensioni del loro mercato di lungo periodo. Come i consumatori si preoccupano della sicurezza degli approvvigionamenti, così i produttori  si preoccupano della durata nel futuro della domanda  per il loro principale prodotto.

In questo quadro, una politica di  collaborazione non può non risultare molto diversa  da quella che s'ipotizzò, e rimase largamente inattuata,  negli anni '70-80. Allora, i paesi consumatori erano paesi ricchi che comperavano il petrolio loro necessario da paesi la cui economia era in fase nascente, per quanto ricca di mezzi finanziari. In quegli anni, la politica verso i paesi produttori  fu  perciò vista come una possibile politica virtuosa  a livello macro economico. 
 
L'accento va posto chiaramente sulla loro capacità di sviluppare  una strategia di collaborazione  e di lavoro comune. Nei paesi petroliferi arabi si è ormai creato  un mercato di beni e servizi che non è enorme per numero di persone , ma  è molto alto come potere di acquisto. E alcuni di quei paesi hanno attrezzature per l'esportazione, ad esempio verso gli Stati Uniti, efficienti e molto ampie. In molti paesi  arabi produttori di petrolio, lo sviluppo del sistema finanziario è andato di pari passo con quello economico e produttivo, e vi sono oggi in questi paesi  imprese private grandi e piccole, ed imprese pubbliche,  che si muovono con strategie manageriali , alcune delle quali si vanno globalizzando al di fuori del loro paese, con  presenze importanti nei grandi mercati dell'Europa e degli Stati Uniti  e non solo nel settore petrolifero, ma anche in quello petrolchimico. La lista delle 3500 maggiori compagnie mondiali  include otto imprese saudite  e qualcuna anche di altri paesi arabi produttori di petrolio. La politica di cooperazione è  perciò aperta a singole imprese europee, grandi e piccole, che possono concepire e mettere in atto  accordi produttivi , combinazioni finanziarie,  operazioni commerciali a due vie , eccetera.
 
Molti paesi produttori esprimono oggi  una rilevante offerta di capitali da investire:  investimenti comuni fra imprese italiane ed imprese di quei paesi  possono essere  realizzati in altri paesi arabi  avvantaggiandosi  anche della compatibilità culturale. Di converso, accordi di produzione comune in Europa e nei paesi Arabi possono attrarre capitali in Italia da investire in produzioni per il mercato europeo.  In molti paesi arabi i semilavorati ad alto contenuto di energia possono essere acquistati ai cancelli delle fabbriche  ad ottimi prezzi, e  l'esportazione da quei paesi verso, ad esempio, gli Stati Uniti, sono meno costose che dall'Europa. 
 
Le piccole  e medie imprese italiane si  possono globalizzare  con accordi con i loro distributori, o creando strutture produttive e finanziarie nei paesi nei quali esportano, o utilizzando accordi di cooperazione con i loro concorrenti per l'esportazione in mercati terzi. Ricche di tecnologia e di esperienza di mercato, ma non di finanza, queste imprese possono trovare in quei mercati capitali di rischio sulla base di accordi reciproci di scambio e di integrazione. I settori manifatturieri che si sono sviluppati in quelle aree, ad esempio nella lavorazione delle materie plastiche, possono offrire opportunità  per rapporti reciproci con le loro concorrenti. Sempre tenendo conto che il livello di sofisticazione è molto alto,  e che le offerte devono avere una base reale  nelle tecnologie e nelle capacità manageriali.
 
In conclusione, le imprese italiane  possono trovare  una spazio  rilevante nella loro capacità tecnologica  e di mercato. Ci vorrebbe però una politica decisa di tutto il paese, e una leadership delle maggiori imprese ancora esistenti che per il momento non  sembra essere disponibile.
 
Martedì, 28. Giugno 2005
 

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