I molti errori del 'contratto unico'

La proposta trasformata in un disegno di legge da Pietro Ichino è sbagliata fin dal titolo: resterebbero, infatti, varie altre forme contrattuali. Inoltre non solo si basa su presupposti teorici che si sono rivelati infondati, ma appare astratta rispetto alla realtà del mondo del lavoro

Le dimensioni della crisi in atto costringono non solo gli attori politici e sociali, ma anche i giuslavoristi appassionati di politiche del diritto a un esercizio di realismo. Tutti gli analisti più autorevoli descrivono la crisi in termini sistemici e persino epocali. Non è un fulmine a ciel sereno ma trova le sue radici nella logica dello sviluppo capitalistico degli ultimi venti anni. La teoria liberista dell’offerta, sostenuta dalla scuola di Chicago, a partire da Milton Freedman, e divenuta per decenni dominante, consisteva in questo: meno regole ci sono nel mercato meglio è, a partire dal mercato del lavoro, per il quale l’ideale sarebbe la libera negoziazione dei salari e delle condizioni di lavoro senza alcun vincolo esterno (di legge o di contrattazione collettiva). Diceva infatti Posner in un celebre saggio del 1966: “Se per l’esistenza di contratti collettivi, di leggi che impongono salari minimi… gli imprenditori non potessero fare subire ai dipendenti le conseguenze negative della protezione del lavoro abbassando i salari, la disoccupazione crescerebbe inevitabilmente per effetto dell’aumento dei costi del lavoro”.

 

Il liberismo, nelle sue varie forme, si è tradotto per alcuni decenni in scelte mirate ad accentuare solo e pressoché esclusivamente la flessibilità del lavoro. I meccanismi impiegati a tale fine sono stati diversi e articolati. In Italia si è passati da una flessibilità regolata e contrattata, a una flessibilità intesa come valore in sé, ideologicamente motivata nel senso di favorire le opportunità di impiego lungo la catena dei numerosi contratti atipici e temporanei. L’esito di tali politiche è evidentemente fallimentare. Tutto questo non è servito né ad alzare il livello complessivo di competitività del paese, né a favorire una dinamizzazione e unificazione del mercato del lavoro. La segmentazione del mercato si è accresciuta, è caduta la produttività complessiva del sistema. Le indagini più accreditate mostrano infatti che la curva della produttività in Italia cala progressivamente a partire dagli anni 2000 in parallelo all’accrescersi delle misure di flessibilizzazione del lavoro. Mentre, secondo i dati Ocse, l’Italia assieme agli Stati Uniti risulta essere il paese in cui nell’ultimo quindicennio più si è allargata la forbice della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi.

 

E’ in questo quadro che va letta criticamente  la proposta del cosiddetto “contratto unico” da tempo formulata da Pietro Ichino e ora tradotta in un disegno di legge. Il dissenso nei confronti di questa proposta nulla vuole togliere alla generosa intenzione del proponente. Pietro Ichino è animato da un attivismo propositivo meritevole. Anche chi scrive, se lo ritenesse utile, potrebbe esercitarsi in proposte e formule in ordine a nuovi modelli di regolazione, fingendo che l’intero contesto che ci circonda sia una sorta di tabula rasa. Tuttavia non è così che può funzionare oggi una elaborazione efficace delle  politiche del lavoro. La stagione dei giuslavoristi investiti di funzioni quasi-eroiche nella immaginazione di nuovi scenari è da tempo esaurita. Quella stagione si è esaurita, a ben vedere, quando Gino Giugni, come ministro del Lavoro, con il governo Ciampi riuscì a siglare il protocollo del luglio 1993. Da allora l’apporto per così dire provvidenziale dei giuslavoristi nelle politiche del lavoro si è inaridito. Così è stato anche per il migliore di noi, Massimo D’Antona. Di questo parleremo a Catania nel prossimo congresso nazionale della associazione ed è bene farsi, in quella occasione, un discorso di verità.

 

Il dissenso verso la proposta di Ichino si fonda in primo luogo sulle premesse sopra richiamate. Nell’attuale contesto appare anzitutto poco credibile in sé l’idea di mettere mano a una ennesima riforma della riforma, quando invece occorrerebbe concentrarsi sulle misure immediate  più efficaci rispetto alla crisi, nonché sul rafforzamento degli strumenti amministrativi (dagli ispettorati del lavoro ai centri dell’impiego) necessari a far sì che i provvedimenti anticrisi non si risolvano in interventi meramente assistenzialistici.

 

In secondo luogo la proposta continua a battere la strada, che fin qui si è rivelata fallace, di escogitare soluzioni legislative uniformi a scala nazionale a problemi del mercato del lavoro che invece sono strutturalmente differenziati per settori produttivi e aree territoriali. Si tratta, in questo senso, di una proposta per così dire di tipo fordista-centralista.

 

Infine, per restare ad una dimensione critica di tipo generale, l’errore di fondo della proposta sta nell’impianto analitico che ne costituisce il fondamento: l’idea, ormai divenuta una vulgata, del tutto astratta e priva di ogni rapporto effettivo con la realtà, che nel mercato del lavoro italiano vi sia una contrapposizione unilineare tra cosiddetti insiders e outsiders, come fossero blocchi omogenei contrapposti. Si tratta di una ricostruzione caricaturale e molto lontana dal vero. Chi sono gli insiders, i cosiddetti garantiti: i dipendenti della Fiat assunti a tempo indeterminato, rientranti nell’ambito di applicazione dello Statuto dei lavoratori? Certo, finchè la Fiat non dispone la cassa integrazione! E chi sono gli outsiders,  i non-garantiti? Certo, tutti coloro che sono assunti con contratti temporanei, nel settore privato e pubblico, nelle grandi e nelle piccole imprese, nell’industria, e soprattutto nel commercio e nel turismo. Sono soprattutto outsiders  i lavoratori migranti, quelli con regolare permesso di soggiorno, che costituiscono la larga maggioranza dei cosiddetti interinali, avviati in affitto dalle agenzie del lavoro, e che ora sono i primi a perdere occupazione, col rischio poi di perdere anche il permesso di soggiorno e quindi di diventare clandestini di fatto. E quale sarebbe, nelle condizioni date, la tutela più efficace nei confronti degli outsiders? Togliere la tutela nei confronti dei cosiddetti insiders? Riaprire la questione della riforma dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, dando vita a un ennesimo e sterile conflitto ideologico?

 

Da qui derivo l’ultima e conclusiva critica alla proposta in oggetto, in termini, se mi si passa l’espressione, teorici. La proposta è tributaria delle letterature della cosiddetta law and economics, vale a dire delle teorie che hanno importato nel campo delle politiche del lavoro la tesi, di matrice iperliberista, secondo cui se si sottraggono tutele ai lavoratori occupati si aumentano automaticamente le chances per i disoccupati, e per cui quindi ogni intervento di deregolazione, di riduzione della rigidità delle tutele è di per sé utile alla espansione occupazionale e produttiva. Ma il punto è che proprio queste teorie si sono rivelate fallaci. La crisi in atto nasce infatti dalla mancanza di regole, dagli eccessi della deregulation, dalle esagerate politiche di flessibilizzazione del lavoro, dall’aver predicato e praticato il messaggio secondo cui il lavoro è una variabile dipendente del mercato, e non  il suo deuteragonista. Chi negli scorsi decenni ha diffuso a piene mai tali erronee e  devastanti deduzioni meccaniciste dalle dottrine iperliberiste dovrebbe quindi svolgere una sana e aperta riflessione autocritica. Non si pretende che si coprano il capo di cenere, ma che almeno dismettano l’infondata pretesa di ammannirci ancora lezioni.

 

In termini più specifici alla proposta possono essere poi formulate una serie di critiche di dettaglio. Intanto lo stesso titolo è infondato, e di sapore  propagandistico. Non si tratta in realtà di un “contratto unico”, sostitutivo della attuale pletora di contratti atipici e precari, ma invece di “un contratto in più”, che si aggiunge agli altri: resterebbero infatti il contratto a termine, per i lavori stagionali, del commercio e del turismo, il lavoro interinale, il part-time elasticizzato, il lavoro a chiamata ecc.  In secondo luogo la proposta si fonda su un meccanismo che definire artificioso è poco. Per attivare il “contratto unico” le imprese dovrebbero stipulare un  “contratto di transizione” inclusivo della adesione obbligatoria a un ente bilaterale, il quale poi dovrebbe sostenere il reddito dei lavoratori assunti con il suddetto contratto ma poi licenziati per “ragioni organizzative” non verificate. Se si ha presente la concreta dinamica del mercato del lavoro italiano tale meccanismo non può non apparire privo di ogni funzionalità. Quale  piccola o micro-impresa, nel nord e soprattutto nel sud, si sottoporrà mai a tale complessa procedura?  E’ evidente quindi che la proposta può apparire appetibile solo alle medio-grandi imprese del nord, che in questo modo otterrebbero il vantaggio di poter assumere lavoratori giovani liberandosi dal vincolo della tutela reale contro i licenziamenti ingiustificati. Ma, nelle condizioni attuali, quale medio-grande impresa del nord avrebbe  interesse a mettere in moto il suddetto marchingegno, quando si tratta di sopravvivere, meglio che si può, alla ondata recessiva in atto? La proposta in oggetto è evidentemente frutto di uno studio a tavolino, costruito immaginando una logica di crescita lineare del sistema economico, e risulta quindi del tutto spiazzata rispetto ai processi reali in corso. Altre sono le emergenze. E altra è la necessità strutturale per ridare senso e funzionalità al diritto del lavoro: unificare e semplificare le normative, prosciugare il diritto del lavoro, riportarlo alla sua essenzialità e, per così dire, al suo significato di fondo.

 

 

(Una versione più ampia dell’articolo è in corso di pubblicazione sulla Rivista italiana di diritto del lavoro.)

Giovedì, 23. Aprile 2009
 

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