I Fondi vanno bene per redditi medio-alti

I lavoratori che guadagnano meno non dovrebbero essere esposti ai rischi finanziari, ma un risultato del genere si ottiene solo a scapito dei rendimenti. Per chi ha salari bassi sarebbe opportuna un'alternativa del genere proposto da Clericetti e Lettieri. Anche Modigliani, del resto, aveva ipotizzato qualcosa di simile
L'idea della previdenza integrativa "conquista" il sindacato, tutto il sindacato, dopo la riforma Amato del 1992. E' questa riforma, infatti, che taglia per i più giovani le prestazioni pensionistiche con l'estensione a tutta la vita lavorativa del calcolo della retribuzione pensionabile; la legge 335 non fa che confermare questa modifica in basso dei tassi di sostituzione aggiungendovi il riferimento alla speranza di vita. Nasce così il decreto legislativo 124/93 che, con le modifiche operate dalla 335 consente la nascita dei Fondi pensione.

Il primo articolo del 124, mai modificato, nemmeno nel nuovo decreto Maroni, attribuisce alla previdenza integrativa un ruolo complementare a quello pubblico, necessario data la diminuita copertura della previdenza pubblica. Sotto questo aspetto nulla è cambiato in termini di contribuzione e quindi di peso nel rapporto pubblico/privato. La legge Maroni non prevede un incremento di contribuzione rispetto a quanto previsto dal 124: non si può quindi dire che la nuova norma aumenta individualmente il peso della previdenza integrativa. La vera novità è quella del silenzio-assenso, ossia del tentativo di "forzare" la volontà dei lavoratori rispetto ad una maggiore libertà di scelta.

Ma allora il punto è il silenzio-assenso da un lato e dall'altro il fatto che la previdenza pubblica così come uscita dal processo di riforma non assicura più ai lavoratori regolari una pensione sufficiente.

Il silenzio-assenso è certamente una forma di coercizione, ma non è certo la prima operante in campo sindacale e ricordo che in anni passati nella Cgil si è pensato ad una obbligatorietà legislativa di conferimento del Tfr (ultima parte della legislatura 1996/2001), mentre in Cisl si è spesso ipotizzata una obbligatorietà di natura contrattuale. Se la si immagina come una tutela "necessaria" non è l'obbligatorietà in sé ad essere negativa, altrimenti lo sarebbe anche l'obbligatorietà di iscrizione alla previdenza pubblica. Il punto di contrasto credo che sia nel rischio implicito nella previdenza integrativa.

Gli estensori dell'appello, così come Clericetti e Lettieri, fanno un passo avanti rispetto ad una contrarietà totale alla previdenza complementare, richiedono una più ampia libertà di scelta per i lavoratori sul modo di assicurarsi una copertura aggiuntiva.
Ho accennato in un mio precedente intervento ai problemi di natura fiscale che, a legislazione corrente, favoriscono i Fondi integrativi rispetto all'ipotesi sostenuta nell'appello. Non condivido inoltre questa proposta, a prescindere dagli aspetti fiscali, perché portare la contribuzione pubblica prossima al 40% non reggerebbe nel tempo e produrrebbe un continuo tentativo di riduzione.
 
So perfettamente, mi aspetto l'obiezione, che analoga contribuzione complessiva vi è sommando previdenza pubblica e privata, ma dal punto di vista politico-sindacale non è così e le pressioni per una sua riduzione sarebbero molto più pressanti. Negli ultimi anni poi i termini di riferimento in campo europeo sono il rapporto spesa pensionistica (pubblica)/pil e il suo contenimento, non l'equilibrio finanziario delle gestioni. Anche qui so benissimo che sia nei sistemi a ripartizione che in quelli a capitalizzazione si ha comunque un trasferimento di reddito dagli attivi ai pensionati, ma, purtroppo, in quelli a ripartizione è molto più evidente e spiegabile anche ai non addetti ai lavori. L'incremento del rapporto spesa/pil derivante dall'applicazione della proposta contenuta nell'appello sarebbe facilmente attaccabile.

Mi pare più difendibile, non classificandola come forma previdenziale, ma come diversa utilizzazione del Tfr, la proposta Clericetti/Lettieri. Una discussione di merito la riterrei utile e necessaria.

In merito al dibattito sviluppatosi sull'articolo di Pammolli e Salerno vorrei ricordare le motivazioni che Modigliani portava alla sua proposta di trasformare il sistema pubblico in un sistema a capitalizzazione.

Modigliani criticava un sistema basato sui Fondi pensione perché trasferiva il rischio dallo Stato al singolo lavoratore e perché dava coperture diverse a seconda dell'appartenenza ad un Fondo o all'altro. Proponeva quindi un unico Fondo con garanzia di rendimento pubblico pari al 5% annuo (tra le obiezioni poste a Modigliani vi era quella che, contrariamente a quanto lui pensava, una garanzia di rendimento del 5% di lungo periodo avrebbe richiesto un massiccio intervento dello Stato, del resto basta osservare le difficoltà per avere comparti con garanzie sensibilmente inferiori al 5% e i relativi costi).

A prescindere dalla proposta finale le obiezioni iniziali di Modigliani hanno fondamento. Il rischio nella previdenza complementare è individuale e i rendimenti possono essere molto diversi tra Fondo e Fondo e, possiamo aggiungere, a seconda del momento di pensionamento.

La situazione è accettabile nella misura in cui la previdenza privata è solo integrativa, se assume un ruolo maggiore non lo è più. Nel sistema retributivo il ruolo integrativo è evidente, in quello contributivo resta tale in termini percentuali rispetto alla previdenza pubblica ma può non esserlo più in termini assoluti data la diminuzione complessiva di copertura.

L'affidamento al mercato di una parziale copertura pensionistica ha senso per livelli di reddito (e quindi di pensione) medio-alti, lo ha meno, dato il rischio implicito, per i redditi bassi. E' vero che i Fondi possono limitare fortemente il rischio, a meno di catastrofi di lungo periodo che inciderebbero comunque anche sulla previdenza pubblica per gli effetti negativi sul sistema economico, ma questo avviene con una scelta di asset allocation prudente che consente solo rendimenti poco elevati. E' questo il vero punto da analizzare: i rendimenti compatibili con un rischio accettabile sono in grado di assicurare prestazioni finali al netto dei costi (compresi quelli della trasformazione del montante in rendita e senza l'aiuto del fisco) capaci di battere un rendimento pari al Pil  assicurato ad esempio da un utilizzo del Tfr come quello proposto da Clericetti-Lettieri ?

A mio avviso lo potrebbero fare solo Fondi con asset allocation di tipo maggiormente azionario con componenti di rischio non sempre accettabili per lavoratori con livelli retributivi bassi la cui unica o predominante fonte di reddito è costituita dalla pensione. Asset allocation più prudenti non sono in gradi di offrire rendimenti tali da giustificare per il singolo lavoratore l'adesione a previdenza integrativa in presenza di altre possibilità.

Deve essere chiaro che il mantenere il Tfr in azienda non è un'alternativa. Aderendo ai Fondi il lavoratore ha un beneficio fiscale e può godere del contributo dell'impresa e con buone probabilità otterrebbe una prestazione superiore a quella del Tfr. E' possibile e conveniente offrire anche altre alternative in primo luogo ai lavoratori a più basso reddito (credo rinuncerebbero volentieri a partecipare a possibili guadagni di Borsa in cambio di maggior sicurezza e comunque si potrebbe lasciare a loro la scelta) ?

In assenza di alternative credo sia doveroso indicare ai lavoratori la strada dei Fondi pensione come strumento necessario per aumentare la propria copertura pensionistica.
Escludiamo comunque dalla discussione come esempio di pericolosità quanto avvenuto nei Fondi americani e inglesi. Le normative sono profondamente diverse, in Italia vi è una completa separazione tra Fondi pensione e aziende e le prestazioni sono assicurate in primo luogo dai contributi effettivamente versati e non esclusivamente dai rendimenti di mercato.
 
Tutta questa discussione riguarda peraltro i soli lavoratori dipendenti regolari che usufruiscono del Tfr come principale fonte di finanziamento della previdenza complementare. Per tutti coloro che non ne usufruiscono o che ne godono solo per brevi periodi il problema riguarda non un'integrazione pensionistica, ma il livello della pensione pubblica e credo che questo sia il punto dal quale si dovrebbe partire nella prossima trattativa.
Martedì, 30. Gennaio 2007
 

SOCIAL

 

CONTATTI