E’ stata spesso evocata l’analogia fra impatto di questa pandemia e quello di una guerra mondiale, l’ultima, o la precedente. Si tratta certo di accostamento improprio di eventi non comparabili, utili forse più ad alimentare una retorica esortativa, verso la disciplina collettiva nella sofferenza, e l’attesa fiduciosa in una successiva fase di ‘ricostruzione’.
Riprendo, tuttavia, la metafora ‘bellica’ come espediente narrativo, per evocare quelli che sono, a mio avviso, due similitudini, e una divergenza invece, dei quadri economici e sociali conseguenti. Shock ‘pandemico’ e shock bellico condividono, in primo luogo, l’immediato impatto per il fabbisogno di una finanza ‘eccezionale’ a cui lo Stato deve fare fronte. Nella pandemia, si tratta in primis dei costi diretti di contrasto sanitario; ma pesano subito, e ancora di più sui fabbisogni correnti, i costi per il supporto di una liquidità sussidiaria, che consenta di alimentare, in situazioni di “lock-down” , il circuito di reddito-spesa delle famiglie, anche, al limite, ad un minimo vitale. La guerra, d’altra parte, impone allo Stato ingenti spese, per armamenti e vettovagliamenti di una forza lavoro sottratta alla produzione e inviata ai fronti.
Una seconda similitudine si propone fra pandemia e guerra: entrambe si proiettano nel tempo, in contesti di grande incertezza, per direzioni di sviluppo, durata ed intensità degli eventi. Cadono le iniziali illusioni di “blitzkrieg” dai rapidi esiti favorevoli, e si deve fronteggiare una resistenza ‘nemica’ che potrà rivelarsi ostinata , con fasi di ripiegamento a cui possono seguire ritorni aggressivi. Le gestione degli eventi richiederà, in tali circostanze, ulteriori e continui flussi di liquidità, a meno di subire il sopravvento del nemico….
E’ stata la durata, inizialmente sottovalutata, dello sforzo bellico, che ha portato, nei conflitti mondiali del passato a rendere vana rapidamente ogni norma, o buona pratica, di gestione ordinaria di finanza pubblica, sia quella più conservatrice, di bilancio in pareggio, sia quadri più progressivi di applicazione di una qualche ‘golden rule”, con accumulo di un debito pubblico giustificato dalla contropartita di investimenti in ‘capitale sociale’ promossi in deficit. Con ‘Finanza di guerra’ si allude, ancor oggi, a situazioni in cui le fonti correnti di alimento delle entrate, fiscalità e titoli di debito assorbiti da un risparmio privato sul ‘mercato’, diventano totalmente inadeguate rispetto alla urgenza delle spese. L’interruzione dei circuiti ordinari di produzione-consumo prosciuga redditi e scambi, fonti di incasso di tributi diretti ed indiretti. Il risparmio corrente è probabilmente negativo; quello ‘accumulato’ e parcheggiato nelle diverse forme della ricchezza finanziaria liquida tenderà a rifuggire acquisti di titoli di debito pubblico, per anticipazioni di prossima insostenibilità. Estrazioni dal risparmio per lo sforzo bellico, o post-bellico, richiederanno allora forme di ‘coazione’ politica ( ‘oro alla patria’, ‘prestito della ricostruzione’, “consol” irredimibile, ecc.), o infine una qualche forma di imposizione patrimoniale , anche ‘implicita’ ( es. una iperinflazione post-bellica). In conclusione, una emergenza che si prolunghi nel tempo comporta, alla fine, che una quota ampiamente maggioritaria di spesa corrente sia ‘finanziata’ da emissione monetaria. Tale quota si avvicinò 90% negli anni finali delle due guerre mondiali nei paesi più coinvolti.
Il finanziamento ‘monetario’ , nelle concrete circostanze, può passare attraverso diverse modalità: monetazione diretta, acquisti di titoli di debito diretto (mercato ‘primario’) o indiretto (secondario’) da parte dell’ Istituto di “central banking”. Giacenze e scadenze di titoli di debito formalmente emessi, rappresenteranno tuttavia, in ogni caso, un vincolo pesantissimo per le capacità di spesa in una successiva fase di ‘ricostruzione’. Si aggiunga che il mercato finanziario computa il parametro ‘lordo’ del rapporto Debito/PIL , e non quello al ‘netto’ di giacenze negli attivi della Banca centrale, per le sue valutazioni di un rischio sovrano. Non affrontiamo tuttavia ulteriormente la considerazione circa il limite di una sostenibilità del debito in questa occasione.
Riprendendo la metafora bellica, rimane ancora da sottolineare il punto di diversità per implicazione macroeconomica di ‘pandemia’ e ‘guerra’. Si ascolta spesso nel dibattito corrente che la crisi è allo stesso tempo crisi ‘dal lato dell’offerta’ e ‘dal lato della domanda’. Solo commentatori più attenti inquadrano tuttavia il punto di diversità: in una crisi pandemica, le interruzioni dei circuiti di produzione-reddito descrivono uno shock negativo di offerta, a cui segue lo shock , anche questo negativo, di domanda, su un circuito reddito-spesa. Il “lock-down” sottrae lavoro, e rende inoperoso il capitale, riducendo l’offerta aggregata; ma le perdite di remunerazioni dei lavoratori, del “cash-flow” d’impresa, ecc., innescano immediatamente impatti (e moltiplicatori) ‘keynesiani’, per la caduta della capacità di spesa. Gli shock cumulativi si trasmettono al mercato del lavoro; un’ampia quota di attività e di occupazioni associate alle funzioni di consumo, in particolare nell’area dei servizi alla persona, viene posta in fermo totale. Le aspettative sono a loro volta negativamente colpite dalla incertezza circa tempi e limiti di una ripresa della domanda finale. E il pessimismo frena ulteriormente la propensione alla spesa, innescando il “loop” negativo. Accenniamo solo brevemente alla diversa valenza di un’economia in guerra, nel senso proprio: lo sforzo bellico si associa invece ad una fattispecie di spesa pubblica corrente estremamente ‘carica’ di assorbimento diretto ed indiretto di risorse umane. ( “Warfare Economy” !)….Allo shock di offerta negativo, per lavoro sottratto ad impieghi produttivi e mandato al massacro, si contrappone qui uno ‘shock di domanda’ positivo. Le guerre hanno portato ad una straordinaria mobilitazione (ahimè, seguita dalla smobilitazione nei dopoguerra…) di un potenziale di lavoro femminile, chiamato a sostituire le leve maschili con impegni in lavori ‘pesanti’, considerati altrimenti di appannaggio maschile. Anche le implicazioni inflazionistiche quindi divergono : eccessi di domanda ed inflazione repressa in guerra, lacune di domanda e rischio deflattivo (eccetto per i comparti di un consumo essenziale, cibo, ecc.) in seguito a “lock-down”.
Queste considerazioni, limitate allo scenario macroeconomico, sono in parte scontate e certo carenti, quando si omette per le ripercussioni, anche queste devastanti , a livello di una ‘psicologia sociale’ , individuale e collettiva, degli eventi. Si rinvia, per queste, a contributi esperti.
L’incertezza rimane lo sfondo angosciante, entro cui si deve muovere il decisore politico nella missione ‘quasi impossibile’ di ricerca del percorso di minor danno, nel “trade-off” fra rischi di risorgenza epidemica e recessione cumulativa. Quando cade l’illusione di “blitzkrieg”, inizia la difficile esistenza in vita in stato di guerra, o di ‘convivenza con il virus’. Il mancato superamento, di fatto, dell’emergenza, può fare apparire velleitari, o declamatori, i propositi per le politiche nella ‘ripresa’. Tuttavia se non si pongono, sin da ora, visioni per il ‘dopo’ e strategie per la ‘ricostruzione’, l’ansia che incombe sul presente potrebbe diventare ancor più opprimente, alimentando magari fantasie di sortite avventurose.
Su questo terreno non bastano, a mio avviso, gli appelli che invocano la funzione prioritaria degli investimenti pubblici, con richiami spesso scontati: “green economy”, networking”, infrastrutture materiali e immateriali, ecc. Si attenderebbero invece elenchi e selezioni per progetti concreti, con specificazione per ordine di priorità, tempi di realizzazione, costi e fonti di finanziamento. E questo da adesso, ancora nell’immanenza delle urgenze sanitarie e sociali che richiedono continua attenzione e tempestività nel contrasto. La difesa di una ‘trincea’, che protegga la fragile e graduale ripresa delle attività e delle socialità, imporrà un’attenzione continua ad evitare ‘falle’, che porterebbero a rinnovate invasioni del campo da parte del nemico.
Nelle circostanze già ricordate, il ‘buco nero’, che può inghiottire fabbisogni cumulativi di liquidità con crescenti oneri e criticità per il bilancio, è rappresentato dalle necessità di supporto assistenziale, al limite, a livello di un ‘minimo vitale’, per quelle fasce di popolazione a cui lo shock pandemico ha portato alla completa interruzione di produzione di reddito e di capacità di spesa. Casse ‘in deroga’, sussidi d’emergenza per il lavoro autonomo, ecc. dovranno essere assicurati, e con migliore tempestività, anche nelle circostanze malaugurate di una criticità che persiste. Alcuni comparti di un terziario commerciale e di servizi al consumo, in episodi ciclici del passato, avevano rappresentato aree di assorbimento di lavoro e, pur spesso con basse remunerazioni e precarietà , fonti di reddito principale od addizionale, essenziali per la sussistenza economica e la tenuta sociale di contesti territoriali spesso difficili. E’ questa ampia area di servizi ad ‘elevata intensità di contatto umano’ che è oggi in caduta. Al dramma immediato si aggiungono aspettative negative per le fragilità di un recupero di domanda, anche nel progressivo allentamento dei vincoli alle attività e alle mobilità. Un caso esemplare: chi, e fra quanto tempo, prenoterà una crociera su un ingombrante palazzo galleggiante, luogo privilegiato di circolazione del virus ? Ma le prospettive sono sconfortanti anche per le aree più meritevoli , di consumo di cultura, arte, spettacoli, ecc.
Il declino, forse inevitabile, di una vocazione e di assorbimento di lavoro della manifattura, e le dotazioni naturali ed artistiche del ‘bel paese’ hanno fatto del turismo il settore forse più rilevante per attivazione di impiego e reddito negli ultimi anni, con intensità anche eccessiva in molti contesti. Se una propensione ai consumi di “leisure” non può venir meno nel lungo periodo in società di consumo ‘mature’, i tempi per il recupero dallo shock pandemico non si annunciano brevi. Nel frattempo, si dovrebbe cercare di contenere la perdita, in parte inevitabile, di strutture e risorse umane, dal lato dell’offerta.
Più in generale, appare colpito un modello di (scarso) sviluppo di un’economia, in cui l’ampliamento di comparti di servizi “labour and contact intensive” ha compensato sul piano di un assorbimento occupazionale carenze di imprenditorialità e risorse in segmenti a più elevata produttività. Certo, i servizi a ‘intensità di contatto umano’ non sono limitati al “leisure”, e vi rientrano consumi collettivi essenziali, istruzione e sanità. Per questi, gli eventi hanno messo a nudo le sofferenze, per cadute di investimento, mancato reintegro del “turnover”, ecc., in istituti pubblici defedati dalle sequenze di restrizione di bilancio.
Il quadro d’insieme diviene drammatico, quando esigenze diverse, egualmente urgenti, sembrano entrare in conflitto per le allocazioni di risorse liquide, per le quali incombono nello sfondo limiti, o al peggio, blocchi, per evoluzione non favorevole dei contesti istituzionali o per ‘reazioni’ dei mercati. Si assiste allora a faticose mediazioni politiche per le ripartizioni di “budget” emergenziali, fra una domanda d’impresa (“fiscal relief” , sussidi e garanzie di credito) e le necessità per un “welfare” minimale in contesti di povertà emergente. Mentre scrivo queste note, è sopravvenuta l’ineffabile sentenza della Corte costituzionale di Germania che, in sintesi, sanziona i programmi di acquisto di titoli del debito pubblico della BCE come pratica di ‘monetizzazione’ surrettizia della spesa pubblica, sommo “vulnus” per i ‘fondamentali’ dei Trattati europei e della “Grundgesetz” della Repubblica federale.
Nell’accostamento iniziale di ‘pandemia ‘ e ‘guerra’, avevamo sostenuto che la ‘monetizzazione’ diviene opzione obbligata in scenari di prosecuzione di eventi straordinari. La liquidità che fluisce, in un modo o altro, dalla funzione attiva di “central banking”, per lo Stato ( ma anche per altre istituzioni, banche, ecc.) può allora essere metaforicamente assimilata all’ossigeno per un paziente in debito respiratorio. Un “sudden stop” significherebbe la dipartita del paziente; per gli Stati, dopo un “default”, la storia in qualche modo continuerà. Con quali costi ?
Rimane l’auspicio che le ‘micce’ di potenziale innesco di situazioni estreme vengano disinnescate in tempo, e che per quanto gravi, gli eventi correnti non saranno alla fine comparabili, per sofferenze finanziarie e umane, alle devastazioni di una grande guerra. Nel frattempo l’affanno appare evidente nel tamponare le necessità correnti delle emergenze sanitarie e sociali, in situazioni ove i ritardi nelle implementazioni e disponibilità effettiva di misure e sussidi possono alimentare disagio sociale e sfiducia istituzionale.
E in questo stato delle cose che le declamazioni per il ‘dopo, l’appello agli investimenti, ecc., possono apparire ‘mantra’ evocativi, espressioni di “wishful thinking”. Occorrerebbe che i progetti fossero sollecitamente dettagliati per priorità e tempi di avvio. I programmi vanno specificati per funzioni di servizio o aree di intervento: infrastrutture sanitarie sul territorio, adeguamento delle risorse umane, messa in sicurezza di strutture ed edifici per rischi naturali , sismici, frane, ecc, forse anche prima delle opere pubbliche comunemente intese come infrastrutture materiali , ecc. Per queste ultime andranno specificati i “ranking “ di priorità: eventualmente più tardi, ad es. la galleria dove passano pochi treni, o l’ampliamento di un aeroporto con scarsa prospettiva di traffico. La caduta dei costi dei combustibili fossili, il ritorno alla propensione per la mobilità privata, ristrettezze di bilancio che ritardano il ciclo di sostituzione di beni durevoli strumentali e di consumo, ecc. , possono rallentare una transizione verso un’economia più ecologicamente sostenibile; andranno allora rimodulati incentivi e disincentivi. Molte spese per cui urgono adeguamenti di spesa non sono peraltro statisticamente classificati come ‘investimenti, essendo contabilizzate come acquisti di consumo pubblico: beni intermedi per cura e ricerca medica ( es. ‘reagenti chimici), sussidi informatici per l’istruzione a distanza, ecc. “Last but not least”, il ‘capitale umano’, per reclutamento, qualificazione e riorganizzazione territoriale di un’amministrazione pubblica in senso lato, che deve affrontare una vera transizione generazionale.
Gli investimenti pubblici restano certo il supporto e fonte di moltiplicazione della domanda effettiva nel breve, e veicoli di un indispensabile adeguamento delle dotazioni materiali ed immateriali del paese nella più lunga fase della ‘ricostruzione’. Rimane la difficoltà di un loro finanziamento adeguato, nell’immanenza di un’emergenza che prosciuga le risorse correnti. La ricerca per le fonti di finanziamento rimanda necessariamente, a questo punto, sugli strumenti, attivi o attivabili, di linee di credito ( o sovvenzioni) a livello di comunità europea.
Ricorderei, su un piano più generale, che per ogni forma di debito vi saranno condizionalità ‘ex-post’, che potranno essere eventualmente richiamate da parte di organi di competenza, o dei governi dei partners; una prima condizionalità investe un giudizio di corrispondenza fra motivi del credito ed usi ( ed eventualmente, mancati usi) effettivi delle somme. Il dirottamento per usi diversi da quelli indicati non sarebbe ammissibile, o richiederebbe faticose rinegoziazioni.
La ulteriore condizionalità, a livello ‘macro’, investe il giudizio complessivo di ‘solvibilità’, e di comportamenti adeguati a tale scopo, del debitore sovrano. Nei Trattati europei, è prevista in generale l’attenzione verso le condizioni macro di solvibilità, e quindi una ‘condizionalità’ in senso lato, per ogni linea di credito, anche se non si prefigurano poteri d’intervento diretto delle Istituzioni sovranazionali per correzioni dei bilanci nazionali, con la nota eccezione delle sgradevoli clausole del “MES” in origine. Ma anche senza coercizione diretta sulla sovranità nazionale, il peso dei ‘fondamentali’ incombe. Quando il rapporto fra debito e prodotto interno raggiunge 160/170 punti, e i fabbisogni di intervento per rotazioni e ulteriori emissioni di un singolo Stato raggiungono il 40% od oltre del totale degli acquisti di titoli sovrani della Banca Centrale, ci si pone sotto un vincolo di fatto per la valutazione del rischio-paese, quantificato peraltro dai valori continuamente aggiornati dello spread. Sentieri concordati per contenimenti del deficit e debito hanno subordinato almeno per un decennio la redazione annuale dei bilanci e i programmi di ‘riforme strutturali’, anche senza Troika. Quando, ‘dopo’ il passaggio del virus, l’incidenza del debito sarà salita di 30/40 punti, è difficile attendere sentimenti più compassionevoli di mercati e di sedi istituzionali internazionali.
Eppure, una speranza residua per la resilienza e recupero del nostro paese dal punto in cui siamo precipitati, risiede forse nell’eventualità che la straordinarietà di questa crisi e le sofferenze che hanno investito, sia pure in diversa misura, tutto l’insieme dei partners comunitari (e globali), possa alla fine agevolare un percorso di revisione, di diritto o di fatto, di un quadro complessivo di “acquis communautaire”, redatto in tempi diversi e più tranquilli. I parametri del Patto di stabilità e (sic) Crescita, totem fondante dell’Unione, sono saltati nel giro di un paio di settimane a fronte dei “lock-down” imposti, paese dopo paese, dall’avanzata del virus. Si assiste, come mai prima, ad una esplicita espressione di dissenso fra sedi della politica e del potere all’interno dell’Unione. Le risposte, almeno a prima impressione ferme, della BCE e della Corte di Lussemburgo al ‘colpo basso’ dei giudici di Karlsruhe segnalano forse la consapevolezza del dover privilegiare lo ‘Essere’ delle pratiche non convenzionali al ‘Dover Essere’ dell’Ideologia tedesca. Potrà quest’ultima tornare ad imporsi, come sembrano alludere ancora le clausole meno esibite del MES , quando ‘tutto sarà finito’ ?
Ma quando tutto sarà finito? Non si dovrebbe parlare di recupero di condizioni di normalità, almeno fino a quando l’intera ampiezza della caduta del prodotto e dei volumi occupazionali seguita allo shock, non sarà stato colmato. Si tratta, anche nella beneaugurata ipotesi che siano evitati altri “knock-downs” per i colpi di un virus non domato, di un recupero di una caduta recessiva di valore doppio, o oltre, rispetto ai numeri segnati nella recessione precedente. A sette anni circa dal fondo ciclico del “double dip” recessivo del 2009 e 2012-13, il nostro paese, come noto, non aveva ancora recuperato i livelli del ‘picco’ precedente. Ometto, per carità di patria, il calcolo di quanti anni sarebbero necessari per il prossimo recupero, se si dovessero cumulativamente applicare i tassi medi di crescita sperimentati nell’ultimo ventennio.
Nel frattempo, come si evolveranno il quadro istituzionale, i rapporti di forza fra i paesi, gli equilibri di governo? La domanda è chiaramente retorica in incertezza fondamentale. Le rigidità delle norme costitutive e di attuazione dell’Unione europea, con la regola dell’unanimità che blocca velleità di riforma, sembrano costituire il vincolo di fondo. Ma margini di riformabilità possono scaturire proprio dalla drammaticità di sviluppi, e dalla consapevolezza dei rischi di rottura storica.
Fra le flessibilità auspicate, fondamentale rimane la conferma di un ‘pieno-potenziale’ di impiego dei poteri di un central banking a livello dell’Unione. L’obiettivo ‘unico’ della stabilità dei prezzi, iscritto negli atti costitutivi, costringe oggi a patetiche giustificazioni per il ‘contrasto alla deflazione’ per le pratiche, di fatto, di iniezioni monetarie. Dovrebbe essere acquisito , di fatto se non di statuto, che la Banca centrale è chiamata in pieno al contrasto delle crisi (e poi, a supporto di una crescita ‘oltre la crisi’). Nella misura in cui è necessario, finché è necessario. La liquidità che fluisce dalle operazioni di central banking resta, in situazioni dove gli esborsi correnti sono prevalentemente chiamati a ‘non affamare le famiglie, non far morire le imprese’, la sola garanzia di una continuità in vita, come l’ossigeno per il paziente critico. Il ritorno ad una capacità di recupero autonomo della respirazione rimane certo un obiettivo per il paziente, come per la finanza pubblica. Ma esiti e tempi non sono né immediati né scontati.
Solo nella continuità del ‘salva-vita’ gli altri strumenti, linee di credito, o meglio ancora, contributi che non implichino crescita del debito, attivati attraverso ‘veicoli’, già in essere, o da mettere in esistenza, possono rappresentare la seconda linea di risorse essenziali, per la finanza , questa volta, di uno sforzo straordinario di spesa in investimento pubblico, per il supporto e la moltiplicazione di una domanda aggregata nell’immediato, e come veicolo di adeguamento di infrastrutture materiali ed immateriali del paese nella ‘ricostruzione’. La mia propensione scettica porterebbe ad insinuare un margine di dubbio, per la misura e le condizioni di una effettiva solidarietà europea, incorporate nei diversi strumenti. Ma prevalga qui la considerazione che ‘abbiamo bisogno dei soldi’. Suggerirei tuttavia comportamenti, lungo il percorso che dovremo seguire, e che si svolge ad una ‘alta quota’ del debito e richiede la continua attenzione ad evitare crepacci e precipizi. Fabbisogni di emergenza sanitaria e di ‘welfare’ nell’immediato dovrebbero essere separati dai piani di investimento su un orizzonte più ampio. Le linee di credito o contributi provenienti da fonti comunitarie dovranno essere “accoppiati” a piani di spesa con le priorità per aree di intervento: sanità, territorio, istruzione, infrastrutture, ecc. La sola ‘condizionalità’ che possiamo accettare è allora quella della corrispondenza fra gli scopi ed usi dei fondi che originano in qualche modo da una mutualità comunitaria. Permangono tuttora incertezze su entità, tempi di disponibilità e condizionalità finali per le erogazioni; andranno in ogni caso evitate pratiche di gestione approssimativa dei fondi, ‘dirottamenti’ o allargamenti avventurosi degli scopi. Esempi negativi possono compromettere altri finanziamenti, o far scattare condizioni peggiorative. Non bisognerebbe chiedere più soldi, su qualche strumento, di quanto credibilmente si creda spendibile per area di progetto e per l’intervallo di programma delimitato, con una facoltà eventuale di intercedere per le ulteriori disponibilità; questo, soprattutto nel caso in cui le clausole di finanziamento prevedano penalità o condizionalità ‘ex-post’.
Ritornando, alla fine, alla metafora ‘bellica’, ricordiamo innanzitutto che l’epidemia non è finita, e il contrasto a ritorni aggressivi del nemico rimane la priorità. I fabbisogni di welfare sanitario e assistenziale, anche nelle ipotesi più favorevoli di contenimento del virus, non si allenterebbero completamente e rapidamente, nelle situazioni di crisi strutturali e carenze occupazionali. Incombe, più pesante che mai, un ‘problema economico’ di allocazione di fondi che sono scarsi rispetto ai bisogni. Si richiederà un consenso per le priorità, e una capacità per l’esecuzione, delle spese. La decomposizione litigiosa di un quadro politico interno, e cadute ulteriori di una solidarietà a livello comunitario, possono innescare scenari peggiorativi. Evitiamo di evocarli.