Chissà se è stata veramente detta lultima parola. Per ora, si sa che le cose hanno preso la piega che il governo voleva sin dallinizio. Il suo obiettivo era quello di restituire allimpresa la libertà di gestire la manodopera che le aveva tolto la prima legge in materia di licenziamento entrata in vigore nel luglio del 1966 malgrado laperto dissenso della Cisl e dei suoi parlamentari. Un obiettivo temerario, visto che nel frattempo persino la Costituzione europea stabilisce che il licenziamento è ammesso soltanto se è giustificato e quindi deve pur esserci un giudice, togato o privato che sia, legittimato ad accertare lattendibilità della motivazione ed a punire il trasgressore.
Anche per questo lobiettivo è tecnicamente irrealizzabile e difatti il governo si accontenta di andarci vicino. In proposito, stante lenorme confusione dei messaggi trasmessi allopinione pubblica, vale la pena sunteggiare le regole operanti in casa nostra.
1) Se il licenziamento è intimato per ragioni inerenti al comportamento del lavoratore, il recedente deve convincere il giudice che il lavoratore ha commesso un notevole inadempimento contrattuale (legge del 1966) e, se non ci riesce, è condannato a reintegrare il lavoratore ed a risarcire il danno cagionato (art. 18).
2) Se il licenziamento è intimato per motivi inerenti allattività produttiva e allorganizzazione del lavoro (legge del 1966), in caso di insussistenza degli stessi il giudice deve ordinare la reintegra e quantificare il danno risarcibile (art. 18).
Ciò premesso, sembra di capire che la rottura della pseudo-trattativa di queste settimane si sia consumata per effetto della contrarietà manifestata dalla maggioranza degli interlocutori ad una soluzione che si richiamasse alla normativa vigente in Germania. La soluzione consiste nel disporre che lordine di reintegra non è automatico, per cui spetta al giudice tranne che in caso di licenziamento discriminatorio valutare lopportunità di sostituire la reintegra con una condanna pecuniaria. La proposta governativa se ne discosta perché lindennizzo è unalternativa alla reintegra solo in caso di licenziamento intimato per colpa indimostrata del lavoratore; è, invece, la sola sanzione praticabile nei casi di licenziamento intimato per motivi oggettivi non provati.
In ultima analisi, il distinto trattamento si spiega soltanto così: i licenziamenti cosiddetti disciplinari che alimentano il contenzioso giudiziario sono di fatto assai meno frequenti dei licenziamenti cosiddetti economici. Come dire che si spalanca una porta attraverso la quale saranno fatti uscire i lavoratori anziani e meno efficienti, ma lontani dal pensionamento che è stato di recente spostato in avanti. Così, dato e non concesso che la maggiore flessibilità in uscita sia una misura promozionale del diritto al lavoro dei giovani, si sono create le premesse per penalizzare i meno giovani. Il che costituisce la prova più eloquente che i diritti non si possono disinvoltamente rimodulare e nessuno conosce lalchimia che permetta di spalmarli come se fossero marmellata. Dopotutto, la dignità del lavoro è eguale a se stessa, sempre e in ogni circostanza, e la differente età di chi è tenuto per contratto a lavorare subordinatamente come nulla può togliere nemmeno può aggiungere al patrimonio dei suoi diritti.
Pertanto, la debolezza dello schema di ri-regolazione del licenziamento proposto dal governo è duplice. In primo luogo, la monetizzazione della lesione del diritto a non essere ingiustamente licenziato espelle il lavoro dal quadro dei valori in cui è costituzionalmente situato il lavoro. In secondo luogo, si invoglia il lavoratore a rinunciare allimpugnazione del licenziamento ed a preferire la negoziazione stragiudiziale al ribasso dellimporto che in teoria potrebbe intascare al termine di una tribolata vicenda processuale, piegandosi al vecchio adagio popolare pochi, maledetti ma subito.
(Questo articolo è stato pubblicato anche sul Manifesto)