I costi gonfiati dello 'scalone'

L'effetto di una eventuale abolizione della "riforma Maroni" è sovrastimato, perché non tiene conto dei comportamenti effettivi dei lavoratori in questi ultimi anni. Inoltre si continua a discutere di previdenza solo in relazione alla sostenibilità finanziaria, che non è più un problema, senza preoccuparsi dell'adeguatezza delle pensioni

Il nostro sistema previdenziale è da tempo al centro di preoccupazioni che continuano ad essere rivolte più alla loro sostenibilità finanziaria che all’efficacia della copertura. Eppure, le riforme degli anni Novanta hanno già sostanzialmente stabilizzato sia l’evoluzione in corso della spesa sia il suo andamento previsto nel prossimo mezzo secolo. In presenza di un invecchiamento della popolazione che nei prossimi quattro decenni farà più che raddoppiare il rapporto tra la popolazione ultrasessantacinquenne e la popolazione in età attiva, le previsioni ufficiali segnalano nel 2050 un valore del rapporto tra spesa pensionistica e PIL sostanzialmente uguale a quello attuale. Prima della fine del periodo, il rapporto potrebbe anche registrare una leggera «gobba» la quale, tuttavia, è subordinata all’ipotesi che nel futuro gli immigrati aumentino di sole 150.000 unità l’anno, quando invece già negli ultimi anni il dato medio è stato più del doppio. Se, prudenzialmente, si ipotizza che nell’immediato gli ingressi siano 190.000 e poi anche calino a 165.000, la cosiddetta gobba sparisce e la tendenza del rapporto tra spesa pensionistica e PIL diventa discendente.

La valutazione finanziaria del settore previdenziale può essere compiuta anche mediante un’attenta analisi dei bilanci delle gestioni. Essi mostrano che anche da questo lato la situazione non è preoccupante come spesso viene descritta.
Il saldo tra le entrate contributive e le uscite pensionistiche di natura previdenziale, se calcolato al netto delle trattenute fiscali sul reddito, è positivo per oltre 7 miliardi di Euro; il bilancio pubblico trae dunque un sostegno dal settore previdenziale per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL. Per il 2007,  si segnalano ulteriori miglioramenti del bilancio dell’Inps dovuti agli effetti della ripresa economica e dell’aumento delle aliquote contributive.

Il grado di copertura

Nel nostro sistema obbligatorio, il valore medio nazionale di tutte le pensioni erogate è di 783 Euro lordi mensili e scende sotto i 700 nel Meridione. Il 50% delle pensioni ha un importo inferiore ai 500 Euro e circa il 76% ha un valore inferiore ai 1.000. Meno del 5% superano i 2000 euro. Nel complesso non si tratta di redditi elevati; d’altra parte, la povertà tra gli anziani è più diffusa che nella media della popolazione. Ma ciò che più preoccupa sono le prospettive future.

Un lavoratore dipendente con 60 anni di età e 35 annualità contributive - che nel sistema retributivo andava in pensione con un tasso di sostituzione del 67% (di circa dieci punti maggiore se dipendente pubblico) - nel 2035, adeguando i coefficienti di trasformazione, maturerà un tasso di sostituzione del 48,5%. Il tasso salirà al valore massimo del 64% andando in pensione a 65 anni con 40 anni di contributi.
 
La situazione sarà sensibilmente peggiore per i lavoratori parasubordinati che, anche dopo il recente aumento al 23% dell’aliquota, con 35 anni di contributi acquisiranno, a 60 anni, una copertura del 37%. Ma per i lavoratori parasubordinati sarà estremamente difficile maturare quelle anzianità contributive e le loro retribuzioni sono mediamente più basse, meno dinamiche e continue dei lavoratori dipendenti. Cosicché, la loro pensione sarà mediamente pari a meno della metà di quella dei lavoratori dipendenti.

Il dibattito attuale e il ruolo della previdenza complementare

Dal primo gennaio del 2007 è iniziato il semestre per l’applicazione del silenzio-assenzo che regola la scelta della modalità d’impiego dei flussi destinati al TFR. Attualmente i lavoratori dipendenti hanno solo due possibilità di scelta: mantenere l’accantonamento per il TFR o trasferirlo ai fondi pensione. Dunque l’unico modo di aumentare la copertura pensionistica è fare ricorso alla previdenza privata.

Questa limitazione è controproducente. Infatti, dallo sviluppo della previdenza  complementare  non ci si può ragionevolmente attendere né rendimenti stabilmente e significativamente maggiori di quelli della previdenza pubblica né spinte positive all’evoluzione del nostro sistema finanziario e produttivo. Se si fa riferimento all’intero periodo d’attività dei nuovi Fondi pensione nel nostro paese, si nota che, nei vari sottoperiodi, i rendimenti netti registrati nei differenti comparti risultano a volte superiori e a volte inferiori a quelli realizzati dal TFR. Ma i rendimenti temporaneamente più elevati si registrano nei comparti che sono i più rischiosi, nei quali, in altri sottoperiodi, i risultati sono anche molto negativi. Non c’è dunque da stupirsi se - nonostante il trattamento fiscale tanto favorevole quanto iniquamente distribuito, e comunque costoso per il bilancio pubblico - le adesioni in corso ai fondi siano inferiori a molte aspettative.
 
Dal punto di vista degli equilibri finanziari del paese, va evidenziato che l’investimento del risparmio previdenziale acquisito dai fondi è collocato per il 77% all’estero; solo una quota continuamente decrescente, ridottasi al valore dell’1,7% nel 2006, viene impiegata per acquistare azioni di imprese italiane. Si tratta di una circostanza niente affatto casuale; è la conseguenza delle caratteristiche strutturali del nostro sistema produttivo, costituito da imprese piccole o che comunque preferiscono non quotarsi in Borsa. Dunque, il risparmio previdenziale, tramite i Fondi pensione, viene in grande parte dirottato all’estero a vantaggio dei sistemi produttivi nostri concorrenti.

L’insieme di queste circostanze fa ritenere che, nel nostro paese, la funzione più ragionevole per i Fondi pensione sia di tipo aggiuntivo, non sostitutivo rispetto al sistema pubblico; il quale, invece,  vede pericolosamente ridurre il proprio ruolo e la sua adeguatezza funzionale. La carente copertura pensionistica che si prospetta non può essere efficacemente affrontata facendo conto solo o prevalentemente sulla previdenza privata; occorre consolidare, non indebolire, il ruolo della previdenza pubblica. Come è previsto nel comma 760 della Legge Finanziaria, va allargata la possibilità di scelta nell’impiego del TFR, introducendo la facoltà individuale di aumentare, non ridurre, la contribuzione al sistema pubblico per aumentarne le prestazioni.
 
Nel dibattito in corso sulla riforma del sistema pubblico, si evidenziano due questioni che sono l’età di pensionamento e l’adeguamento dei coefficienti di trasformazione.

L’età di pensionamento

L’elevamento dell’età di pensionamento potrebbe compensare in qualche misura l’aumento della spesa previdenziale derivante dall’invecchiamento della popolazione. L’efficacia di questa linea d’azione va tuttavia commisurata con la specifica circostanza costituita dai bassi tassi di occupazione del nostro sistema produttivo. Fin quando nel nostro mercato del lavoro permarrà l’attuale carenza di domanda, stimolare o addirittura imporre una prolungata attività dei lavoratori implicherà ridurre il naturale turn-over. Di fatto, il permanere di lavoratori anziani desiderosi di smettere - e dunque meno motivati e produttivi - blocca l’ingresso di giovani disoccupati – più idonei a fornire un contributo innovativo.

Consentire ai singoli una reale elasticità di scelta dell’età di pensionamento, non solo favorisce le esigenze individuali in una delicata fase di vita, ma stimola un miglioramento qualitativo dell’occupazione. Infatti è verosimile che una libera decisione di prolungare l’attività sia più facilmente presa da chi svolge lavori gratificanti, nei quali l’esperienza accumulata probabilmente svolge una funzione positiva in termini di produttività. D’altra parte, in presenza di attività più ripetitive o comunque usuranti, il più comprensibile desiderio di andare in pensione favorisce l’introduzione di nuovi occupati che facilitano anche ristrutturazioni innovative del processo produttivo.
 
Tenendo conto di questi aspetti, andrebbero evitati i disincentivi al pensionamento, che ostacolano l’uscita  non solo dei meno interessati a rimanere, ma anche dei meno utili al sistema produttivo che spesso coincidono. Tuttavia, andrebbero evitati anche gli incentivi a prolungare l’attività che, come insegna l’esperienza dell’inutile e iniquo «superbonus» introdotto dalla riforma Maroni, favoriscono la permanenza in attività di chi ha già deciso di farlo.
Per lo stesso ordine di motivi, oltre che per evitare segmentazioni inique tra i pensionandi, è giusta l’abolizione del cosiddetto «scalone» concepito per aumentare di tre anni l’età di pensionamento di anzianità, concentrandone l’attuazione al primo gennaio del 2008.
 
La sua abolizione, peraltro, non implica i costi inizialmente valutati poiché proprio il tanto parlare per anni di misure comunque coercitive ha di fatto già modificato i comportamenti spontanei: sia verso la «fuga» dal lavoro sia accettando di prolungare l’attività per la difficoltà di sostituire il minore reddito da pensione a quello della retribuzione.
La simulazione di una abolizione tout-court dello «scalone» che tiene conto della modifica dei comportamenti spontanei conferma che i costi sono significativamente inferiori a quelli inizialmente previsti cui, invece, ancora si fa riferimento nel dibattito. I costi si riducono, ma non di molto, se si simula una sostituzione dello «scalone» con tre «scalini» che spostano l’età di pensionamento in modo più progressivo.

I coefficienti di trasformazione e altri strumenti redistributivi

L’adeguamento periodico dei coefficienti di trasformazione alla variazione dell’età di vita attesa è parte integrante dell’equilibrio attuariale perseguito dal sistema contributivo; tuttavia, non è affatto neutrale rispetto all’equilibrio economico e distributivo. Se aumenta la vita attesa e i coefficienti di trasformazione vengono corrispondentemente adeguati, l’aggiustamento finanziario viene scaricato sulla riduzione delle prestazioni, lasciando immutato il rapporto tra la complessiva spesa pensionistica e il PIL; il mantenimento dell’equilibrio attuariale è ottenuto aumentando la forbice tra i redditi dei pensionati e quelli dei lavoratori. Una scelta opposta sarebbe quella di lasciare costante il rapporto tra pensioni e retribuzioni; in questo caso il nuovo equilibrio conseguente all’allungamento della vita attesa implicherebbe l’aumento della spesa pensionistica in rapporto al PIL.

Si tratta, evidentemente, di due soluzioni economiche e distributive diverse; con la prima gli effetti dell’invecchiamento vengono accollati per intero ai pensionati; nel secondo caso si accetta che aumentando il numero degli anziani cresca anche la quota di reddito destinata al loro insieme. Tra le due soluzioni sono naturalmente possibili anche scelte intermedie, ma quelle fatte a partire dagli anni Novanta sono andate nella direzione di stabilizzare l’impatto del trasferimento pensionistico sul reddito corrente e di aumentare corrispondentemente il divario tra pensioni e retribuzioni medie.
 
A ben vedere, il dibattito non dovrebbe tanto concentrarsi sull’adeguamento o meno dei coefficienti quanto su come distribuirne l’onere finanziario, mantenendo comunque la rilevanza contabile dei flussi redistributivi. Se non si vorrà accentuare ulteriormente la forbice già innescata tra pensioni e retribuzioni, sarà opportuno fiscalizzare almeno parzialmente gli effetti dell’adeguamento dei coefficienti di trasformazione. Occorre spalmare sull’intera collettività, tutto o in parte, l’onere dell’invecchiamento demografico.

Una fiscalizzazione anche completa implicherebbe un costo non molto oneroso per il bilancio pubblico che, comunque, comincerebbe ad avvertirsi solo fra un decennio, cioè con la progressiva applicazione del sistema contributivo. Nel 2030 l’onere salirebbe ad un ammontare pari allo 0,29% del PIL e nel 2035 arriverebbe allo 0,44%. Naturalmente, sono anche possibili soluzioni intermedie. 
Venerdì, 6. Luglio 2007
 

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