Guerra, la svolta di zio Sam

L’operazione con cui è stato ucciso Bin Laden è stata definita da un esperto “un cambiamento assolutamente sorprendente nella natura stessa della guerra”. Domina l’hi-tech, scompare la distinzione fra agenzie di intelligence e militari, vengono ignorati diritto internazionale e sovranità degli Stati

L’assassinio di Bin Laden, questo era stato l’ordine preciso impartito alla squadra speciale che è andata a prenderlo ad Abbottabad. Farlo fuori e “disporre” del cadavere è stato qualcosa di più che l’abbattimento del “most wanted” nemico pubblico numero uno dell’America. Ormai, a qualche settimana di distanza dal fatto e con decine di testimonianze, ufficiali e no, di fonte americana, talebana, pakistana e anche al-qaedista disponibili, ci si può cominciare a riflettere.

Perché, in effetti, ha come formalizzato e presentato al mondo un nuovo tipo di guerra, dove la sovranità nazionale non conta più niente, le forze armate stesse diventano un fattore secondario e le decisioni sono rigorosamente segrete anche se poi, inevitabilmente, data la natura della bestia, finiscono col trapelare. Ha scritto un esperto di contro insorgenza che fa il consulente del Pentagono, come oggi chiamano questi esperti, che “si tratta di un cambiamento assolutamente sorprendente nella natura stessa della guerra” (1).

E’ un tipo di conflitto che per essere gestito impone un vastissimo (e costosissimo) apparato di intelligence (solo nel bilancio ufficiale, più di 80 miliardi di $) che oggi, presa a sé, sembra costituire quasi una quarta branca del governo praticamente sconosciuta a tutti gli americani: attesta il quotidiano della capitale americana, che ha condotto una lunga e dettagliatissima inchiesta (2) a fine 2010, che si tratta di ben 1.271 diverse agenzie governative e 1.931 agenzie private in 10.000 diversi uffici disseminati in tutto il paese, con quasi 800.000 dipendenti e un bilancio che nel 2010 ha contato su più di 80 miliardi di $.

“Al cuore di questa nuova maniera di fare la guerra, c’è la cooperazione high-tech fra agenzie di intelligence e militari” che porta a confondere fino a sfumarli e annullarli i confini tradizionali fra civili e militari. E’ un trend del tutto congruo con la tendenza ormai prevalente a far fare la guerra a macchine robotiche e Forze speciali che agiscono segretamente.

Ma, per definizione, la segretezza che è al cuore di questo nuovo modo di fare la guerra rimuove le decisioni su guerra o pace dal pubblico dominio e le relega a stanze chiusissime della Casa Bianca e a basi clandestine nell’Hindu Kush. In effetti, quando gli elicotteri Blackwater sono scivolati invisibili – grazie alle nuove tecnologie Stealth e grazie a copiosi versamenti di biglietti verdi – nello spazio aereo pakistano indirizzati alla casa di Abbottabad, non stavano solo andando ad abbattere lo spauracchio maggiore della recente storia americana ma anche, sostanzialmente, dicendo che nella dottrina americana reale e in quella quasi ufficiale la sovranità altrui (altro che la nerboruta sovranità limitata di Breznev che timidamente almeno le forme le rispettava) non conta più niente e, annunciando senza dirlo, relega il Congresso – prima e dopo – al ruolo di spettatore: cornuto, mazziato e, anzi, plaudente.

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Il dibattito che, sul come fare le guerre americane dell’era moderna, va avanti da anni tra i teorici militari americani non riguarda solo l’essenza della questione ma ormai è radicalmente distorto dalle richieste, dalle esigenze, dell’industria militare. Perché lo sanno tutti, dal presidente all’ultimo dei contribuenti, che gli Stati Uniti non hanno davvero bisogno di 11 gigantesche portaerei di classe Nimitz.

Che, a veder bene e al di là dell’enorme prestigio che conferiscono a chi le schiera mostrando così in giro la bandiera, da un punto di vista strettamente tecnico e militare costituiscono solo undici giganteschi bersagli per missili mobili e letali centinaia di volte più piccoli e meno costosi di loro anche se molto più prosaicamente privi di ogni appeal. Tutti lo capiscono e lo vedono questo, non solo gli esperti; tranne, con evidenza, la Newport News Shipbuilding Company che le fabbrica, le Nimitz, e l’industria aerospaziale che coi suoi caccia reattori ne riempie gli immensi ponti di volo.

Tutte la argomentazioni imperversano, letteralmente, sul modo di fare la guerra e girano intorno a tre approcci diverse: tre dottrine che prendono il nome da chi le ha formulate nel tempo: la dottrina Powell, quella Rumsfeld e la dottrina Petraeus.

La dottrina Powell (dal nome dell’ex segretario alla Difesa, prima consigliere alla sicurezza nazionale e capo dei capi di Stato maggiore di George Bush sr.) è un’idea di guerra essenzialmente convenzionale, sul modello della Seconda guerra mondiale. Massiccia potenza di fuoco, tantissimi soldati e obiettivi ben definiti. Fu anche la formula della prima guerra del Golfo che, come tale – come guerra tra eserciti – dopo un mese di bombardamenti massicci e di una sola parte durò pochi giorni. Ma ha figliato poi una resistenza feroce e capillare che dura ancora dopo otto anni e che è molto dispendiosa.    

La dottrina Rumsfeld prende il nome dal vecchio guerriero freddo già segretario alla Difesa di Reagan negli anni ’80, socio stretto di Saddam cui per conto degli Usa vendeva i gas usati contro i curdi e contro gli iraniani e poi di nuovo segretario alla Difesa del Bush minore. Combina una potenza di fuoco high-tech e l’utilizzo di forze speciali con il minimo impiego, invece, di unità di esercito e marina. E si affida largamente ai “contrattori” privati, le aziende di sicurezza che vendono i loro “servizi” ai militari per fare gran parte del lavoro che una volta facevano i militari stessi. E’ il meccanismo che ha fatto sbandare i talebani nel 2001 subito dopo l’invasione dell’Afganistan e che ha battuto in pochi giorni l’esercito di Saddam nel 2003. Ma che una volta passato l’effetto che Rumsfeld stesso battezzò shock and awe, shoccare e terrorizzare, ha subito svelato tutta la debolezza dell’idea.

Non aveva semplicemente previsto, Rumsfeld, che quelle guerre si sarebbero trasformate in estese e feroci guerriglie e avrebbero impantanato Gulliver e gli scimuniti alleati che davano ascolto alle sue chiacchiere vuote di andare a conquistare il mondo islamico alla democrazia con le bombe nei mille lacci dei lillipuziani jihadisti. L’impennata del 2007 in Iraq e quella del 2010 in Afganistan è stata la pura e semplice ammissione che, se gli “indigeni” poi decidevano di continuare a combattere, la dottrina Rumsfeld era una vera cantonata.

E alla ribalta si affaccia – si riaffaccia così – la dottrina Petraeus: vino vecchio in nuova otre, però, una rispolverata alla dottrina della controinsorgenza. In pratica, si appoggia pesantemente sulla presenza di truppe schierate a occupare un territorio ostile e vincere così i cuori e le menti degli indigeni potenzialmente o realmente ribelli (è il Vietnam del 1968-70). E’ un meccanismo che si affida in maniera sovradimensionata all’intelligence.

Il generale Petraeus – che, per Bush prima e Obama poi, ha comandato l’impennata in Iraq di quattro anni fa e quella dell’anno scorso in Afganistan, riuscendo in parte, pare, a metterci come si dice una qualche toppa – la chiama “lunghezza d’onda”: dice in un suo paper (3), diventato famoso ma, in realtà, anche molto banale (leggetene le “quattordici osservazioni fondamentali”: la terza sostiene, sorprendentemente no?, che per vincere “ci vogliono i soldi, perché sono potere”). Si tratta solo di “entrare in sintonia” con l’ambiente per isolare e eliminare tutti gli insorti e cercare di stabilire locali di fiducia con le popolazioni “indigene”.

Ha il vantaggio, la dottrina Petraeus, di costare meno di quelle Powell e Rumsfeld in termini finanziari. Powell: concentrare il massimo delle forze per un breve periodo e, così, “sommergere” il nemico… e, poi, gestire le cose; Rumsfeld: appaltare all’iniziativa militare privata l’offensiva… e, poi, gestire le cose; Petraeus: concentrarsi su intelligence per colpire da lontano il nemico (i drones, guidati dai satelliti e i bombardamenti da quindici km. d’altezza) e caramelle e collanine, alla Cristoforo Colombo, agli indigeni: che funziona, però, quando funziona solo per periodi assai limitati... e, poi, gestire le cose.

Qui il problema è che gli indigeni si rompono abbastanza presto dell’ “occupazione”, non si accontentano più della distribuzione di perline e la loro controinsorgenza si fa a quel punto dura. Scavare pozzi e costruire scuole si trasforma per forza, così, da copertura all’occupazione in copertura a raids notturni condotti inevitabilmente alla cieca e ad assassinii mirati preferibilmente condotti dai velivoli senza piloti e che, inevitabilmente, finiscono ammazzando a bizzeffe oltre – forse – a qualche obiettivo nemico anche tanti innocenti e alienando irrimediabilmente gli “indigeni”.

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Ma, allora, se le cose stanno più o meno così, di quale “cambiamento assolutamente sorprendente nella natura stessa della guerra” ci parla un esperto come il prof. Nagl (citato in nota1)?

Se ci si vuole proprio mettere un nome, il più appropriato sarebbe di certo “contro-terrorismo”, anche se con una sfumatura nuova. Ma come “contro-insorgenza” anche “contro-terrorismo” è termine che gira da tempo. Il Programma Phoenix che negli ultimi anni ’60 condusse 40.000 operazioni di assassinio mirato nel Vietnam del Sud ne fu una variante. Anche Phoenix era un progetto cui interessava pochissimo di questioni esoteriche come rispetto dei confini e sovranità nazionale e, a guerra del Vietnam in corso, per più di dieci anni, pattuglie di truppe speciali di ricognizione e attacco (Long Range Reconnaissance and Attack Patrols— LRRAP) che avevano ed esercitavano poteri di vita e di morte anche su interi villaggi e regioni, senza doverne rendere conto a nessuno, condussero centinaia di operazioni segrete in Cambogia e in Laos.

Più di recente, gli Usa hanno condotto operazioni analoghe in Siria e in Pakistan (ma non solo gli Usa: sono note le missioni all’estero di commandos del Mossad israeliano negli anni ’70 contro esponenti dell’OLP palestinese a Beirut, Oslo, Parigi, Roma ecc., e le spedizioni punitive di rangers britannici in Malesia e in Kenya, durante l’inutile resistenza allo sgretolamento del loro impero negli anni ’50 e ’60 fino alla loro indipendenza).

Ma solo adesso l’amministrazione Obama riconosce e rivendica apertamente – e la differenza è tutta lì, nell’avverbio: apertamente – l’incursione che ha portato, violando la sovranità di un paese alleato, ad assassinare in Pakistan Bin Laden, pronti anche a combattere con le forze di sicurezza e le stesse forze armate pakistane se avessero mai tentato di interferire, in un’operazione militare condotta sul loro territorio e nel loro paese. E quando il governo teoricamente sovrano di Islamabad ha chiesto il rispetto del suo spazio aereo contro i bombardamenti ripetuti sul suo territorio dagli aerei senza pilota, la Cia ha semplicemente rifiutato di farlo.

Il principio è chiaro: se possiamo violare impunemente la vostra sovranità lo facciamo, sia che ci autorizziate sia no. Potete chiederci sempre, naturalmente, di andarcene dal vostro paese ma dovete sapere che se poi vogliamo entrarci ci entriamo e facciamo quel che possiamo e vogliamo perché semplicemente è in nostro potere farlo.

Si tratta del diritto di eliminare chi non ci piace. Non è più questione di conquistare, come si dice, anche la dottrina, una volta ufficiale, di “conquistare i cuori e le menti”, non c’è più alcuno sforzo di praticare la finta del cosiddetto “diniego plausibile” col quale in passato si è tentato di sviare indignazione vera e ira pubblica dei paesi che vengono così violati e violentati.

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Non è che la guerra clandestina sia cosa nuova. E’ la dichiarata sfacciataggine dell’operazione Bin Laden che lo è. E che costituisce da parte di chi l’attacco lo ha pianificato una dichiarazione esplicita e autorizzata. Dovete sapere che siamo in grado di prendervi dovunque voi siate e dovete rendervi conto, voi e ogni paese al mondo, che diritto internazionale, confini, sovranità, convenzioni di Ginevra, Carta delle Nazioni Unite, ormai sono carta straccia. Il diritto internazionale condanna esplicitamente e senza dar spazio a alcun dubbio “gli assassini mirati che violano – appunto – i princìpi da tempo definiti nel diritto internazionale: le esecuzioni extragiudiziarie sono illegali, anche nel corso di un conflitto armato” (4)? E chi se ne frega…

Dal punto di vista degli Stati Uniti, del loro governo, questa dottrina presenta una serie di chiari vantaggi. Costa meno, anzitutto, e presenta poi il pregio di comportare spese che risultano più facilmente nascondibili nel labirinto burocratico del bilancio federale. La cifra indicata sopra ufficiosa sugli 80 miliardi di $ è anzitutto solo una stima, non include il costo dei drones, gli aerei senza pilota che martellano il Pakistan e l’Afganistan né include le spese dell’apparato ormai immenso di Sicurezza interna.  

Il costo complessivo reale delle spese specifiche della “guerra al terrore” è stato straordinario anche se nessuno, e tanto meno i bilanci ufficiali, è in grado di dircelo. Ha scritto qualche mese fa una verità cruda un rapporto della Rand Corporation – apparato di studio e ricerche che a Washington fa fior di quattrini studiando proprio questa materia – che, in realtà, a livello di propaganda e di circo mediatico, è stata volutamente ed enormemente “gonfiata”: “l’americano medio ha una probabilità su 9.000 di morire in un  incidente d’auto e una su 18.000 di morire assassinato”. Ma, nei primi cinque anni dopo l’11 settembre, e inclusi i 3.000 morti di quell’evento, “l’americano medio ha una probabilità su mezzo milione di restare ucciso in un attacco terroristico” (5).

Un altro “terrorologo” americano, che ha verificato partendo addirittura dal titolo dato al suo lavoro la stessa realtà, il prof. John Mueller della Ohio State University, ha scritto che “il numero di americani ammazzati da attentati terroristici, tutti inclusi” a cominciare dagli anni ‘60 ad oggi “è all’incirca lo stesso degli americani vittime nello stesso arco di tempo di scontri automobilistici coi cervi sulle strade d’America” (6).

Esistono ormai, poi, indicazioni concrete che l’Amministrazione Obama sta mettendo in funzione proprio questa strategia. La stessa designazione annunciata del gen. Petraeus da capo delle operazioni militari in Afganistan a capo della Cia è “un’indicazione importante che gli Stati Uniti puntano ormai a fondere intelligence e operazioni militari” (7).

Il punto nuovo da mettere in evidenza è che in passato la divisione chiara tra militari e servizi di spionaggio consentiva alle autorità decisionali, politiche, di trovarsi sempre di fronte a una gamma di opzioni possibili tra le quali scegliere. Per esempio, in Afganistan, i militari continuano a presentare la vittoria come qualcosa di certo, anche se magari alla fine di un tunnel che nessuno sa però dire quanto sia lungo; mentre i servizi civili di intelligence hanno sempre disegnato un quadro previsionale più sfumato, spesso anche grigio, talvolta proprio nero.

Ecco, questa è la divisione di compiti che col disegno Petraeus va a scomparire: perché con esso l’intelligence dal campo dell’analisi si trasferisce a piedi giunti nel campo della designazione degli obiettivi. E apre un vaso di Pandora le cui implicazioni si cominciano appena a intuire. Che implicazioni avrebbe, infatti, uno sbarco clandestino in Florida di forze speciali cubane col compito di assassinare, ad esempio, Luis Posada Carriles, l’ormai ottantaquattrenne terrorista anti-castrista condannato – ma subito liberato – dai tribunali americani perché in effetti colpevole solo di aver provocato la strage su un aereo di linea della Cubana de Aviacion che il 6 ottobre 1976 aveva provocato 73 morti civili?

Oppure che implicazioni avrebbe avuto un raid dei servizi segreti italiani per ammazzare a Brasilia il terrorista italiano Cesare Battisti da noi condannato a quattro ergastoli? Sul Brasile non si sa, ma non c’è dubbio che il raid cubano a Miami gli Stati Uniti lo considererebbero un atto di guerra. Ma il punto è che se una politica estera si basa su artigli e zanne, sul diritto della forza e non il contrario, alla faccia della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, questo de facto e di per sé diventa un diritto di tutti. Altra cosa è, poi, vedere se se lo possono permettere. Ma se non se lo possono apertamente permettere, vedrete che se lo permetteranno negandolo…

Vittima di questo cambio di strategia, di dottrina, di tattica, di visione a noi sembra che, in dettaglio saranno diversi “terroristi”: veri, alla Bin Laden, o fasulli, come le decine di afgani, pakistani, iracheni ecc., ecc., colpiti alla cieca nel corso della ricerca.

Ma con un apparato di intelligence che conta ormai da solo sugli 850.000 dipendenti (8) in servizio permanente effettivo, questa nuova strategia di guerra vedrà probabilmente come prima vittima designata il popolo americano e le sue libertà tradizionali. Perché una volta che si sarà installato e radicato sarà difficilissimo smantellarlo. Per sua natura viene infatti rimosso da un pubblico scrutinio come quello che, bene o male, finora in questo paese – dai documenti segreti del Pentagono a WikiLeaks – è sempre riuscito – con tragico ritardo, gravissimo per le vittime d’ogni tipo che ha provocato, si capisce – a scoprire gli altarini e le vergogne nascoste sotto il tappeto.

Note

1) John Nagl, citato in Financial Times, 9.5.2011, D. Donbey, J. Blitz e P. Spiegel, Warfare: An advancing front— La guerra: un fronte che avanza (cfr. http://www.ft.com/cms/s/0/20a239ce-7a7e-11e0-8762-00144feabdc0.html# ixzz1NsM 2A2Tz/).

2) Washington Post, 9.12.2010 e sgg., Top secret America, An Investigation (series)— L’America top secret, un’inchiesta (serie) (cfr. http://projects.washingtonpost.com/top-secret-america/).

3) David H. Petraeus, Learning Counterinsurgency: Observations from Soldiering in Iraq, in Military Review, 2006 (cfr. http://usacac.leavenworth.army.mil/cac2/coin/repository/Learning_COIN_Mi...(Jan-Feb06).pdf/).

4) Assemblea generale delle Nazioni Unite, Consiglio dei Diritti dell’Uomo, 14a sessione, 28.5.2010, #3 dell’agenda, Rapporto del Relatore speciale Philip Alston sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie (cfr. http:/www.extrajudicialexecutions.org/application/media/14%20HRC%20Targeted%20Killings%20Report%20(A.HRC.14.24.Add6).pdf/).

5) B. M. Jenkins, Would be Warriors - Incidents of Jihadist Terrorist Radicalization in the United States Since September 11, 2001— I guerrieri a venire – L’incidenza della radicalizzazione del terrorismo jihadista negli USA  dopo l’11 settembre 2001, Rand Corporation 2010 (cfr. http://www.rand.org/pubs/occasional_papers/2010/RAND_OP 292. pdf/).   

6)  J. E. Mueller, Overblown: How Politicians and the Terrorism Industry Inflate National Security Threats, and Why We Believe Them — Gonfiamento: come i politici e l’industria del terrorismo hanno ingrossato le minacce alla sicurezza nazionale e perché gli crediamo, Kindle ed., 2006.

7)  FT, nell’articolo qui in Nota1, cita cosi un alto esponente dello Stato maggiore britannico.

8) Cfr. Nota2, qui sopra.

Lunedì, 11. Luglio 2011
 

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