Gramsci, conversione e prepotenza

Quando dialogano con i non credenti, i credenti dovrebbero rispettare la loro visione del mondo e della vita, non tradire la segreta persuasione che la morte arriverà a fare i conti con la loro libertà. Basta con la pretesa di reclutare nelle proprie file anche i morti

Ha baciato l’immagine di Gesù bambino e una statuetta di Santa Teresa. Non bastava la testimonianza di monsignor Luigi De Magistris, di don Giuseppe Della Vedova, di sua zia suor Piera Collino e di Giulio Andreotti. Si è aggiunto don Ennio Innocenti. E padre Virginio Rotondi, il gesuita che convertì anche Giuseppe Saragat e Curzio Malaparte, svela che il leader comunista non volle rimuovere il crocefisso dalle pareti della sua camera e chiese ad una suora di pregare per lui sentendosi vicino alla fine.

 

Subito dopo le clamorose rivelazioni, il mondo politico e giornalistico si è spaccato in due. Ma resta in ombra la parte meno nobile della polemica. Poco importa stabilire se ha ragione chi respinge con sdegno l’ipotesi della conversione o chi invece la afferma con entusiasmo. Importa notare che “Avvenire” gongola. Non perde un colpo. Non riesce a trattenere la soddisfazione per l’insano risarcimento: anche la più prestigiosa icona del comunismo italiano alla fine è tornata all’ovile del cattolicesimo.

 

Pertanto, noi altri anarchici, socialisti e comunisti, amanti del libero pensiero, ostili alla religione quando diventa vincolo e allo Stato quando diventa costrizione, dovremmo metterci l’anima in pace. Possiamo scorrazzare, durante la nostra esistenza terrena, nelle praterie ribelli della libertà contro l’autorità, dell’uguaglianza contro la proprietà, della trasgressione contro il dovere di obbedire e di stare dalla parte giusta (del più forte e del vincitore, si intende). Ma poveretti noi, la nostra traiettoria è inesorabilmente segnata. Al redde rationem del fatale appuntamento, siamo destinati a reclinare il capo e a gettarci tra le braccia paterne del Dio che non abbiamo scelto in vita. Dunque, abbiamo poco da fare i furbi. Verrà anche per noi il momento di consegnarci disarmati e di reclinare il capo.

 

E’ precisamente questa pretesa violenta di tenere tutti in pugno ad indignarmi, non l’accertamento della verità sugli ultimi atti di Gramsci o di tutti i condannati a morte. Mi indigna la crudele disinvoltura con cui si adopera la morte per scagliarla contro la vita, per imporre alle persone un’identità e un’appartenenza che non hanno voluto, per estendere la sovranità della propria fede anche su quelli che l’hanno rifiutata con la consapevolezza della loro scelta libera e discutibile. Certi ambienti ecclesiastici, certe correnti di opinione, certe gerarchie, certe istituzioni, certi partiti (anche di sinistra) pretendono troppo quando vogliono tutto, cioè reclutare forzosamente nelle proprie file anche i morti: ultimo ripugnante esempio l’on. Oliviero Diliberto, che ha arruolato dalla parte dell’arcobaleno Berlinguer e dalla parte dei comunisti Vittorio Foa.

 

Quando dialogano con i non credenti, i credenti dovrebbero rispettare la loro visione del mondo e della vita, non tradire la segreta persuasione che la morte arriverà a fare i conti con la loro libertà.

Ogni persona è ciò che ha fatto, pensato, scritto, lavorato, realizzato nelle sue opere. Volergli attribuire la propria fede scommettendo sul delirio degli agonizzanti è un atto che gli spiriti religiosi per primi dovrebbero rigettare. Proponeteci la luce della vostra fede, se ritenete che essa renda più acuta la vostra vista, ma fatelo in nome della vita e lasciate ai prepotenti la minaccia o il ricatto della morte.

 
Mario Dellacqua

Mercoledì, 3. Dicembre 2008
 

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