Gli ammortizzatori sociali e le buche del sistema

Come il fatto che una buona auto attutisca i colpi non giustifica il lasciare le strade sconnesse, così migliorare i provvedimenti di sostegno non dev'essere un alibi per giustificare una precarizzazione del lavoro che serve solo a un capitalismo di piccolo cabotaggio

Riprendo l’ultimo intervento su E&L nel punto in cui ho dovuto interromperlo per non appesantirlo più del lecito. Lo riprendo allo scopo di proseguire il discorso coi custodi dell’ortodossia lavoristica novecentesca di cui non condivido l’uso paralizzante che sono portati a fare della memoria. Censurabile quando alimenta un’ossessiva ricerca nel passato della chiave del futuro, essa si presta invece ad un uso liberatorio: quello che, suggerisce saggiamente Vittorio Foa, permette di rielaborare i valori del passato in rapporto al presente.

La premessa da cui muovere è che la storicità inerisce alla stessa categoria sistematica cui è concettualmente legata l’identità del diritto del lavoro ereditato dal ‘900. Infatti, la categoria della subordinazione è stata la prima ad essere solcata da una linea di frattura cui ha fatto seguito un inatteso revival del lavoro autonomo. La crepa si è prodotta durante il penultimo decennio del ‘900, allorché il ceto professionale degli operatori giuridici ha manifestato la propensione a sottrarsi alle attrattive della presunzione favorevole alla subordinazione che condizionava di fatto gli accertamenti giurisprudenziali delle situazioni di cui fosse controversa la somiglianza a quelle generate da rapporti di lavoro autonomo. La presunzione era figlia della cultura del sospetto che vedeva dappertutto operatori economici con pochi scrupoli e molto talento truffaldino che non sanno resistere alla tentazione di appropriarsi dei vantaggi del lavoro prestato nelle forme proprie della subordinazione senza pagarne i costi. Era un sospetto che veniva da lontano e sembrava duro a morire; invece, una vicenda giudiziaria tutto sommato modesta come quella dei pony express ha rivelato che poteva perdere consensi.
 
Poco dopo, ha cominciato a vacillare la presunzione – condivisa dallo stesso legislatore – favorevole all’indeterminatezza temporale del rapporto di lavoro subordinato: “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato”, stabiliva il codice civile del 1942, “se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto”.
 
Vista la dimensione quantitativa che il precariato ha raggiunto oggi, non può dirsi che la riabilitazione del contratto di lavoro con scadenza direttamente o indirettamente prefissata sia una mera espressione della tendenza a de-massificare il regime giuridico dei rapporti contrattuali. Piuttosto, deve dirsi che, proprio perché il contratto a cui una legge del 1962 aveva attribuito il carattere dell’eccezionalità è diventato una forma usuale di reclutamento della manodopera, la sua liberalizzazione sta abituando i lavoratori all’idea che l’interesse alla continuità del rapporto garantita dalla disciplina limitativa del licenziamento non ha più la centralità d’una volta.

Non è che, cent’anni dopo, subordinazione e durata virtualmente illimitata del rapporto di lavoro siano tornate ad essere percepite come un disvalore. Tuttavia, la caduta delle presunzioni di favore che le assistevano, e a torto o a ragione avevano acquistato la durezza dei dogmi, trasmette l’inequivoco messaggio che, nelle aule giudiziarie e parlamentari, è in corso la metabolizzazione del diverso modo d’essere del mercato (o, meglio, del diverso modo di rapportarsi alle sue dinamiche) e del diverso modo di produrre (o, meglio, del diverso modo d’intendere la libertà d’iniziativa economica) che verosimilmente culminerà in un diverso modo di pensare il senso del lavoro e i valori di cui esso è portatore.
 
Così, a furia di dire e dirsi che bisognava de-congestionare la nozione legale di subordinazione, si è finito col disimparare l’uso corretto del radar che consente di avvistare, con più che discreta probabilità di non sbagliare, il caratteristico status subiectionis senza il quale il diritto del lavoro non sarebbe neanche nato. Il contratto di lavoro subordinato – secondo l’insegnamento impartito da Luigi Mengoni, e avallato dalla Corte costituzionale – si diversifica da ogni altro contratto in cui è deducibile un’attività in quanto ne “comporta la destinazione ad essere integrata in una organizzazione produttiva sulla quale il lavoratore non ha alcun potere giuridico di controllo e ad essere utilizzata per uno scopo in ordine al quale il lavoratore non ha alcun interesse giuridico tutelato”. Dunque, non è che il radar si sia rotto. Piuttosto, sanno usarlo meglio i diretti interessati di molti interpreti e dello stesso legislatore, secondo i quali il lavoro a progetto – per limitarsi all’esempio più chiacchierato – se non è sinonimo di lavoro autonomo ne riproduce la  sintomatologia. Viceversa, come dicono gli interessati, “è questo il bello del lavoro a progetto: per vederlo bisogna metterci un po’ di fantasia”.

Se sul terreno della qualificazione del rapporto di lavoro, come appena segnalato, gli interpreti hanno preso l’iniziativa, precorrendo la stessa realtà che dicevano di inseguire, come traspariva dalla prescrittività dei loro discorsi, sul versante del lavoro precario il legislatore si è preso la rivincita. Facilmente, va detto; perché l’interprete non poteva certo abrogare un provvedimento che, come la legge 230 del 1962, marginalizzava il contratto di lavoro a termine. Nel 2001, infatti, ha rimosso ogni ostacolo al riutilizzo del contratto di lavoro a termine, chiedendo e ottenendo il consenso dei sindacati di rinunciare ad ingerirsi nella selezione delle causali dell’apposizione del termine. Attualmente, perciò, “l’apposizione del termine è consentita (...) a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo” di cui è giudice e interprete il datore di lavoro; punto e basta. Per questo, si è sparsa la voce che la precarietà è il predicato di “tutti i contratti che non sono per la vita, ma per un po’ di tempo, finché fa comodo all’azienda”.

Ne consegue che la precarietà non ha più lo chaperon incaricato di controllarne la traiettoria e l’inaffidabilità del soggetto che gli è subentrato non potrà far diminuire l’indesiderabilità sociale del contratto di lavoro a termine; anzi, la farà crescere. Dal lato del disoccupato, l’unico incentivo a servirsi del contratto a termine è l’opportunità che esso gli offre di entrare nel mercato del lavoro con la speranza di non uscirne alla scadenza, perché ha avuto modo di farsi apprezzare dal datore di lavoro. Però, questo tipo di argomento, senza dubbio sensato e magari confortato dalle statistiche, è due volte ingannevole.
In primo luogo, sorvola sui vantaggi che il contratto a termine immancabilmente procura all’imprenditore, soprattutto se costui è un mediocre operatore economico scarsamente interessato ad avvalersi di collaboratori motivati ad impegnarsi a fondo per lui.

In secondo luogo, l’argomento nasconde furbescamente ciò che si porta dietro. E dietro c’è la cieca fiducia che la sola cosa importante è facilitare l’accesso al mercato del lavoro. Con ogni mezzo, non conta quale, perché qualunque contratto di lavoro, anche il più scandaloso, evita lo scandalo del non-lavoro. Mentre, se è vero che l’emarginazione sociale comincia con l’emarginazione dal lavoro, è da ipocriti assolutizzarne il valore al solo scopo di corroborare una concezione meramente ideologica. Infatti, anche a voler omettere che l’auto-realizzazione della personalità attraverso il lavoro è privilegio di pochi, tutto questo entusiasmo per la redenzione terrena assicurata dal lavoro – anche “l’amore per il lavoro ben fatto”, ha scritto Primo Levi, “è una virtù fortemente ambigua” – può essere rovinoso. Quanto quello che infiamma i seguaci del presidente degli USA George Bush junior che venera tanto la democrazia da volerla esportare nel mondo con le armi. Anche questo è un obiettivo la cui realizzazione non è valutabile separatamente dal metodo impiegato. Che razza di idea si stanno facendo gli irakeni della democrazia piovuta dal cielo con le bombe degli aerei americani? Analogamente, c’è da chiedersi che razza di socializzazione può ottenersi attraverso la pratica del lavoro precario e sottoprotetto. La verità è che vi sono politiche di sviluppo dell’occupazione che possono contaminare e snaturare il bene che è oggetto di beatificazione.

Intesa come la intende l’Alta Corte, la situazione in cui oggettivamente si trova un precario o un lavoratore a progetto (precario anche lui) è identica a quella di un lavoratore a tempo indeterminato. Ciononostante, le tutele non sono distribuite col criterio della proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro. La sola giustificazione della diversità delle tutele risiede nell’insostenibilità del costo economico del contratto-standard di lavoro subordinato a tempo indeterminato; ecco tutto.

E allora? Allora ciò significa che, come la coercizione uniformante del capitalismo industriale ne generalizzò la richiesta di soddisfare il bisogno di regole che gli permettessero di disporre di lavoro dipendente senza limiti di tempo, così adesso l’economia di mercato radicalizza una coercizione di segno opposto e difatti non può soddisfare il bisogno di nuove regole se non destrutturando il prototipo storico dei contratti di lavoro.

Tuttavia, le cose che semplici non sono mai state nel frattempo si sono enormemente complicate. Il fatto è che – durante le numerose fasi che sembravano l’inizio della fine ed invece non erano che la fine di un inizio – il lavoro ha strappato ai governanti riconoscimenti di tale spessore da farne la primaria fonte di legittimazione dei diritti sociali di cittadinanza e da lì non sarà possibile schiodarlo se non sgretolando i principi fondanti dello Stato democratico costituzionale costruito tra le macerie (ma con troppi mattoni) dello Stato corporativo. Pertanto, nella misura in cui la precarietà produce effetti che travalicano la sfera lavorativa, esattamente come in epoche risalenti ne produsse il suo contrario, la relazione tra lavoro e cittadinanza reclama di essere presidiata da regole capaci, come diceva Massimo D’Antona, di “seguire la persona nelle sue attività, senza che sia il modo di lavorare a segnare il confine della tutela”.

Con orribile neo-logismo, li chiamano ammortizzatori sociali, dimostrando così non solo cattivo gusto, ma anche scarsa consapevolezza della sua ambiguità. Viceversa, la terminologia tradisce l’insincerità del pensiero che dovrebbe esprimere. Non chiarisce se con essi si fronteggerà un passaggio d’epoca o un momentaneo malessere; se è esagerato parlare di scomparsa di un mondo, quello dei padri e in parte anche di chi scrive, od è realistico parlare di un suo ripristino; soprattutto, non aiuta a capire se c’è bisogno soltanto di meccanici o, piuttosto di asfaltatori. La sola certezza è che, se prevarranno i primi, vorrà dire che gli ammortizzatori sociali sono diventati un alibi per seguitare a smantellare il diritto del lavoro.

Per questo, Gian Guido Balandi sostiene che è certamente da apprezzare l’efficienza degli ammortizzatori sociali, ma “essa non giustifica che nelle strade restino le buche”; o, peggio, che se ne scavino intenzionalmente di nuove, come ha fatto la legge più rappresentativa delle politiche del lavoro dell’ultimo governo Berlusconi. Una legge che incentiva le più svariate pratiche di esternalizzazione delle attività aziendali ed estremizza la tendenza al decentramento produttivo, moltiplica le occasioni di petits boulots del tipo usa-e-getta, rende più difficile smascherare i rapporti di lavoro autonomo pur caratterizzati dalla doppia alienità a cui la Corte costituzionale assegna un rilievo determinante. Una legge che, più in generale, blandisce il capitalismo molecolare di piccolo cabotaggio e ne incoraggia i vizi peggiori. Dicono che volesse correggerne la predilezione del nero e del sommerso; non dicono però che, coi suoi ammiccamenti, rilegittima il nero e il sommerso, spalmandoci sopra strati di consensualità come se fosse marmellata. Primatisti di salto in alto non ci si improvvisa, si diventa dopo un durissimo allenamento. Ma non si riuscirà mai ad allevarne neanche uno se, ogniqualvolta l’atleta del vivaio è in difficoltà, il trainer gli abbassa l’asticella. In un delirio di sado-masochismo.

Ecco, adesso si può capire quel che sta succedendo. In realtà, succede quel che vide per primo, e benissimo, Karl Polanyi analizzando la “grande trasformazione”, ossia il processo di cambiamento epocale che portò una parte consistente dell’umanità sulla soglia della modernità. Anche oggi infatti accade che – non potendo modificare la direzione del cambiamento in atto – i comuni mortali si comportano in modo da moderarne la velocità, irrigidendosi nella difesa dell’esistente. Come ha scritto il pensatore polacco, essi sanno che “ciò che è inefficace nell’arrestare completamente una linea di sviluppo non è per questo completamente inefficace. Anzi, il ritmo del cambiamento spesso non ha minore importanza della direzione del cambiamento stesso”.

Giovedì, 7. Giugno 2007
 

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