Gli Agnelli scendano dall'auto

La famiglia non vuole più questo busimess, quindi deve lasciare la proprietà. Governo, Bankitalia e banche devono fare la loro parte

Seguo con grande attenzione e partecipazione gli interventi sul caso Fiat e penso sia necessario dare dei messaggi chiari. La crisi della Fiat era nota, si trascinava da molti anni, aveva ed ha anche una spiacevole parentesi iettatoria per quanto riguarda l'avvocato, tutto chiaro e definito. Gli interventi di Clericetti, Lettieri e Carniti, solo per citare i più recenti, ci hanno fornito il quadro cui aggiungerei solo il tema degli investimenti all'estero e una riflessione sul passaggio all'euro che ha tolto alla Fiat il tradizionale strumento competitivo rappresentato dalla svalutazione della lira. Non intendo recriminare e tanto meno aggiungermi ai censori. Intendo fare un ragionamento sul modo di uscire dalla crisi sapendo che queste mie riflessioni non sono originali, ma certamente fattibili, ed in ogni caso vanno ad inserirsi in un momento di crisi che non lascia spazio agli attori per una riflessione calma.


La prima, ovvia, considerazione prevede che la famiglia Agnelli debba cedere la Fiat auto perché non ha le risorse e neanche più la vocazione per questo business. Del resto è giusto che un investitore scelga gli investimenti che garantiscono il rendimento migliore tenuto conto del tempo e del rischio. Ne discende che se la famiglia si comporta come un investitore finanziario è bene che non faccia l'imprenditore perché le professionalità sono diverse. Conclusione, ci vuole chiarezza nei ruoli e nelle responsabilità.

La seconda considerazione coinvolge la prima e discende da un'esigenza d’innovazione tecnologica che richiede rilevanti investimenti che certamente non possono essere finanziati solo con il cash flow dell’azienda; pertanto sono necessari capitali freschi. A questo punto, la crescita della Fiat non può essere condizionata dalla mancanza di risorse della famiglia Agnelli, o da una diversa valutazione del rendimento atteso, perché il ridimensionamento del business sarebbe un suicidio, specie per un'azienda che ha sempre puntato sulla produzione di massa piuttosto che sulla produzione di fascia alta.

La terza considerazione riguarda il management: non si riesce a capire se sono manager della Fiat o della famiglia Agnelli. Capisco che una volta questa distinzione era difficile, ma oggi si parla di mercato mondiale, di globalizzazione, di governance e ancora non riusciamo a fare questa separazione fra management e proprietà. I risultati sembrano suggerire l'esigenza di sostituire il management perché incapace di selezionare collaboratori all'altezza del loro compito, ma, in questo caso, un po' di responsabilità deve essere imputata anche agli altri investitori nel capitale Fiat poiché non hanno saputo tutelare i loro investimenti. La crisi era nota anche perché la nuova governance deve garantire informazioni tempestive e corrette al mercato (almeno dovrebbe). Questo, almeno, è quello che penso io ma forse mi sbaglio oppure il "mercato" è disattento e poco razionale nell'allocazione delle risorse.

La quarta considerazione coinvolge le banche italiane che hanno questa fantastica capacità di finanziare sempre le grandi imprese, pur sapendo che le grandi imprese italiane hanno difficoltà di sopravvivenza e certamente di crescita. Se c’è stato un errore nella valutazione del rischio, le banche cerchino di uscire dall’incaglio e provvedano a cambiare i managers che non hanno saputo analizzare correttamente la situazione. Se invece, le banche ritengono che il business abbia un futuro e quindi hanno fiducia nell’impresa, ma non nella proprietà, è urgente uscire dall’equivoco e assumere le responsabilità che competono ai finanziatori, di fatto, proprietari-ombra. Il richiamo alla diversa professionalità è indispensabile e corretto ma nessuno può impedire alle banche di essere intelligenti ed informate.

La quinta considerazione entra nel merito della politica economica e anche in questo caso si chiede chiarezza. E’ indispensabile decidere se il mercato è in grado di garantire lo sviluppo endogeno di un paese industrializzato complesso oppure se non sia indispensabile un'interazione fra classe dirigente pubblica e privata per indirizzare il paese su un sentiero di crescita individuato, analizzato e infine scelto sulla base di un modello o almeno di un ragionamento.

Se si decide che la prima soluzione è la migliore allora si ponga fine alle discussioni e si proceda, doverosamente, a ridurre i disagi per le fasce deboli dell’economia. Se, invece, si ritiene che sia indispensabile avere un modello di sviluppo, almeno come traccia di ragionamento, allora questo modello sia proposto e discusso in modo trasparente e informato e ognuno presenti il suo modello. Questo vale per tutti anche se poi spetterà al governo prendere le decisioni, ma ci si deve aspettare che la Banca d’Italia, i grandi operatori pubblici e privati, i sindacati, ecc agiscano, nell’ambito delle proprie scelte e competenze, coerentemente con questo modello.

In questo secondo caso un posto rilevante deve avere l’analisi del futuro dell’industria italiana e di quella automobilistica, in particolare, mentre è meno rilevante interrogarsi sul futuro della famiglia Agnelli, almeno dal punto di vista macroeconomico.

Alla fine di queste cinque considerazioni che solo la mia educazione cattolica mi impedisce di chiamare misteri, cercherò di arrivare ad alcune indicazioni finali.

L’industria automobilistica è strategica per l’economia italiana e quindi va potenziata per renderla concorrenziale sui mercati mondiali e lo scontro con i partners europei non può prevedere compromessi. La famiglia Agnelli deve lasciare il comando dell’industria automobilistica che deve passare ad una proprietà italiana e professionalmente qualificata che sia in grado di investire denaro fresco sulla base di un progetto di rilancio del settore. Questa soluzione impegna la professionalità delle banche d’affari e delle banche ordinarie nella ricerca degli investitori e nella valutazione del prezzo e della bontà dell’investimento, poiché il successo dipende dal rendimento atteso dell’investimento e dal prezzo del controllo. La nuova proprietà deve selezionare un management competente ed esperto che sappia valorizzare le potenzialità del sistema industriale italiano.

I sindacati debbono capire che i sacrifici troveranno, alla fine, anche per loro un ritorno positivo ma è evidente che se nessuno è in grado di compiere il primo passo la fiducia diminuisce ed il sistema si avvita.

Il primo passo deve esser compiuto dal governo e dalla Banca d’Italia e l’azione non può limitarsi alla moral suasion, ma deve mettere in campo tutte le risorse umane e finanziarie disponibili nel paese perché si tratta del primo test delle conseguenze dell’euro sull’economia italiana e se non si approntano le procedure, gli strumenti e le analisi, gli anni che ci aspettano saranno anni difficili per tutti e non solo per gli Agnelli, per le banche e per gli operai del settore.

Un’ultima raccomandazione: ricordiamoci della storia e dimostriamo di essere una nazione; sappiamo cosa è successo ai ducati, ai granducati, alle repubbliche marinare, ecc. quando hanno privilegiato il loro miope tornaconto e hanno flirtato con l’impero e con gli invasori di turno in una visione di globalizzazione. Ci sono voluti quasi tre secoli per tornare ad avere un ruolo in Europa.

Giovedì, 18. Dicembre 2003
 

SOCIAL

 

CONTATTI