Giugni: 'Perché difendo l'articolo 18 così com'è'

Parla uno dei padri dello Statuto dei lavoratori: 'Un referendum inutile, inopportuno e dannoso: la difesa di questo istituto è stata giusta, diversa e sbagliata è la forzatura opposta di una estensione indiscriminata'

Gino Giugni è tra i firmatari (con Trentin, Carniti, Benvenuto, Lettieri e altri) dell’appello a non partecipare alla prova referendaria sull’articolo diciotto. E’ lo studioso, il giurista considerato come il padre dello Statuto dei lavoratori, autore di un recentissimo volume intitolato “La lunga marcia della concertazione”. C’è in quel testo pubblicato dal Mulino un riferimento anche all’articolo diciotto?


Affronto anche il tema relativo a quelle norme. Sono dell’opinione che l'articolo 18 vada mantenuto così come è. Quello che però è assolutamente indispensabile è una riforma giudiziaria che permetta di assumere una rapida e specifica decisione in materia di licenziamenti individuali. Sotto questo profilo, l’eventualità di ricorso all’arbitrato sarebbe un’ottima cosa, a determinate condizioni.

L’obiettivo di impedire il raggiungimento del quorum per questo referendum è stato giudicato da alcuni come una forma di disimpegno. Come rispondere a tale accusa? E che danni potrebbe provocare una vittoria dei “sì”?

La mia opinione è che si tratta di un referendum inutile, inopportuno e dannoso. Supponiamo che vinca il “sì”. Sarebbe un disastro per le piccole imprese, per i piccoli produttori. Non assumerebbero più nessuno con contratti a tempo indeterminato. Avremmo un aumento del ricorso a contratti temporanei. Sarebbe la consacrazione dei Co.Co.Co.

In che senso lo Statuto modificò la legge del 1966 sui licenziamenti individuali?

Inizialmente nella prima bozza dello Statuto si manteneva l'impostazione già contenuta nella legge del 1966, che limitava l'obbligo di reintegro ai soli licenziamenti riconducibili a discriminazioni di carattere sindacale o politico, con una specifica attenzione ai licenziamenti di dirigenti sindacali, mentre il limite di dimensioni era confermato alle aziende con 35 dipendenti. La mediazione finale con l'accordo dei sindacati fu l'estensione del diritto al reintegro, stabilendo la soglia alle imprese con 15 dipendenti.

Ma cosa si può dire a oltre trent'anni di distanza?

L'attacco all'articolo 18 da parte dell'attuale governo fu in effetti una forzatura inaccettabile tesa fra l'altro a liquidare la pratica della concertazione. La difesa dell'articolo 18 era giusta. Nell'opinione comune era una sorta di simbolo, un' ultima spiaggia su cui bisognava resistere a oltranza. Diversa e sbagliata è la forzatura opposta di un'estensione indiscriminata.

Ci sarebbero correzioni utili?

Io sono da sempre favorevole alla procedura dell'arbitrato. Ritengo che questa modifica, così come qualche altra che si potrebbe ritenere opportuna, vadano analizzate e discusse in un contesto di concertazione ed introdotte solo dopo che sia stato raggiunto il consenso delle parti sociali. Ma la cosa più importante che va oltre l'articolo 18 è la necessità di individuare forme di tutela e garanzia per la massa di lavoratori con contratti atipici a cominciare dai lavoratori parasubordinati. Insomma il referendum è sbagliato nel merito e comporta ulteripri lacerazioni nella sinistra, e da questo punto di vista aggrava non migliora la condizione delle fasce più deboli di lavoratori.

Ma c’è chi, come dire, la butta in politica e giudica l’arma referendaria come una possibilità di dare un colpo al governo di centrodestra.

Creano un disastro nel diritto del lavoro per fare un dispetto a Berlusconi?

A cura di Bruno Ugolini

Martedì, 3. Giugno 2003
 

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