Giugni, la teoria applicata alla realtà

Ripercorrendo gli studi del grande giuslavorista, che sono stati anche fonte di ispirazione per altri paesi, ci si rende conto del perché le sue opere siano divenute dei classici del diritto del lavoro e delle relazioni industriali

Gino Giugni è stato uno studioso partecipe, sin dalla sua prima formazione accademica, delle trasformazioni e innovazioni non solo del diritto del lavoro ma anche del mondo sindacale italiano, impegnandosi egli stesso a proporre e a promuovere culturalmente approcci nuovi, e convergendo per un tratto degli anni Cinquanta con i percorsi delle organizzazioni sindacali (anche come docente presso la Scuola sindacale Cisl di Firenze). Avvocato e professore universitario, ha insegnato presso le università di Bari e Roma, sviluppando anche un profilo di studi ed interessi di rilievo internazionale nelle Università di Nanterre, Parigi, Los Angeles, New York, Buenos Aires e San Paolo. Dottore Honoris Causa presso le Università di Nanterre, Buenos Aires e Siviglia, è stato  presidente dell’Associazione Italiana del Diritto del Lavoro, nonché dell’Accademia Europea del Diritto del Lavoro. Ha fondato e diretto il "Giornale di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali".

Ha sensibilmente contribuito al rinnovamento e al progresso della cultura giuslavoristica, aprendola alla conoscenza, quanto alla realtà sindacale, di un più avanzato ed organizzato contesto. Tracce profonde dell’insegnamento di Giugni, riconosciuto ispiratore di una moderna scuola di diritto del lavoro, sono inoltre visibili nella legislazione e regolazione sociale di quasi un trentennio, con la sua diretta partecipazione in veste di consulente o di parlamentare o di ministro.

E’stato infatti collaboratore del ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, nel 1969 ha presieduto la Commissione nazionale per lo Statuto dei lavoratori con l'incarico di redigerne il testo. Nel marzo del 1983 è stato gravemente ferito dalle Brigate Rosse. Eletto senatore nelle elezioni Politiche del 1983, è stato Presidente della Commissione lavoro e Previdenza sociale nella IX, nella X e nell'XI legislatura. E’stato ministro del Lavoro nel governo Ciampi. Nella XII legislatura è stato eletto deputato. Ha partecipato anche ai lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia P2 ed è stato  autorevole membro della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali. A cavallo del nuovo secolo ha presieduto la Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.

Gli interventi di Giugni si inquadrano in un riformismo ricco di contenuti e improntato all’elaborazione di programmi concreti. Riformismo che è un tratto costante delle analisi teoriche di Giugni e della sua prassi di legislatore e politico.

I primi importanti contributi teorici di Giugni risalgono alla metà degli anni Cinquanta. Di ritorno da un soggiorno di studio negli Stati Uniti (dove aveva usufruito di una borsa della Fondazione Fulbright, alla pari di altri giovani studiosi, come Federico Mancini, Franco Ferrarotti e Paolo Sylos Labini), Giugni traduce “A theory of labor movement”, l’opera principe di Selig Perlman, (“Ideologia e pratica dell’azione sindacale”, trad. it., Firenze 1956), arricchendola con una preziosa introduzione. La traduzione e la prefazione del libro di Perlman rappresentano una coraggiosa apertura dell’orizzonte culturale e sindacale italiano al contributo delle scienze sociali nordamericane, che più si erano impegnate, negli anni Venti e Trenta del Novecento, nello studio del “buon governo industriale” e nella teorizzazione del sindacalismo come istituzione radicata nel posto di lavoro. Il riferimento è agli studi degli economisti istituzionalisti della scuola del Wisconsin (di cui J.R. Commons era il massimo esponente), i quali, rifiutando gli schemi astratti dell’economia classica, valorizzavano con approccio decisamente pragmatico i fattori istituzionali del mercato e, tra questi, l’azione collettiva dei gruppi sociali in competizione per una più equa ripartizione del potere sociale e per migliori condizioni di vita e di lavoro. In questo contesto, i problemi del lavoro e del sindacalismo assumevano un rilievo essenziale come tematiche di osservazione scientifica e di elaborazione culturale.

Negli anni seguenti la pubblicazione del libro di Perlman, Giugni intensifica l’opera volta al rinnovamento del diritto del lavoro guardando anzitutto alla scelta del metodo. La critica del metodo dogmatico o formalistico (da non confondersi con la teoria normativistica, verso la quale Giugni ha invece manifestato una sostanziale adesione), attinta da fonti assai importanti (come Tullio Ascarelli in un primo tempo, e poi Otto Kahn Freund e Giovanni Tarello) e il conseguente rinnovamento metodologico viene associato da Giugni ad una precisa scelta ideale e politica. Questo rinnovamento poggia sulla constatazione – per usare le parole di Giugni – che "il riformismo sociale, dal momento che non ha l'ambizione di cambiare il mondo in dieci giorni, trae alimento essenzialmente dall’osservazione empirica; nel procedimento di qualificazione della fattispecie, deve in primo luogo analizzare i contenuti reali di essa; nell’impiego delle categorie giuridiche, deve essere ben consapevole della loro natura strumentale e caduca". Del tutto conseguente appare pertanto la ricerca di apporti dalle scienze collaterali, "l’analisi della law in action anche con l’ausilio di strumenti della sociologia del diritto, l’osservazione dei fenomeni di giuridicità extrastatuale, l'impiego di generalizzazioni, pur sempre necessario per far scienza. Ma secondo tipologie ben circoscritte, analitiche e non totalizzanti".

Più direttamente coinvolta in una scala di valori politico-ideologici appare un’altra "scelta" fatta da Giugni, che nei confronti di quella prima ricordata presenta comunque forti elementi di simbiosi: è l’attenzione, se non la posizione di privilegio, accordata all’autonomia collettiva e, nell’ambito di essa, all’autonomia sindacale, costruita come un sistema tendenzialmente autosufficiente, capace di produzione normativa, di amministrazione, e anche di giurisdizione. Già alla fine degli anni Cinquanta Giugni sente viva l’esigenza di occuparsi dei contenuti normativi dell’autonomia collettiva attingendo al giacimento della stessa autonomia negoziale. Giugni infrange dichiaratamente il mito della statualità del diritto ricorrendo a una nuova teoria sistematica ed interpretativa che mira a fornire un adeguato schema conoscitivo dei rapporti contrattuali collettivi, attribuendo natura originaria, fondata sulla capacità di produrre da sé le norme destinate a regolare la produzione giuridica, al sistema stesso delle relazioni intersindacali, considerato appunto quale ordinamento irriducibile ai soli dati preesistenti dell’ordinamento statuale.

Si afferma in altre parole, e su basi paritarie, l’“ordinamento intersindacale” (la cui teoria fu enunciata in "Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva", Milano, 1960), nel cui ambito  “contratto e obbligazione si riqualificano nella peculiare luce di strumenti organizzativi del potere sociale". Sarà proprio sul fondamento – benché talora messo in discussione – di questa teoria che diverrà possibile, negli anni immediatamente successivi, prendere finalmente contatto, in termini rigorosamente giuridici, con una realtà altrimenti difficilmente attingibile: quella dell’intima struttura (non soltanto del contratto collettivo in sé e per sé considerato, ma) della contrattazione collettiva intesa come processo contrattuale che, specie se sorretto da formali clausole di rinvio, si snoda e si articola a vari livelli; dei riflessi  che questo produce sugli obblighi e sui diritti delle parti sindacali stipulanti; del contenuto di effetto obbligatorio dello stesso impegno testuale di tregua, ricondotto al dominio delle sole relazioni tra i gruppi; del significato da assegnarsi, in particolare alla contrattazione aziendale per un verso e per altro verso ai procedimenti (conciliazione  e arbitrato) di cosiddetta "giurisdizione privata", e così via.

Ora, il peso attribuito all’autonomia collettiva non significava un primato rispetto alla legge né si caricava di valenze pansindacaliste. Secondo Giugni, nell’ordine istituzionale non v’è una gerarchia tra ordinamenti separati né una riserva normativa né un’immunità del sindacato rispetto all’ordinamento giuridico generale, fatta salva quella che quest’ultimo stesso gli riconosce, specie attraverso la garanzia della libertà sindacale e l’ampia nozione che di essa si è ormai consolidata. Ed è appunto questa premessa a concedere spazio e giustificazione all’idea di un intervento legislativo di sostegno all’autonomia sindacale, che è stata all’origine dei titoli II e III dello Statuto dei lavoratori.

La teoria dell’ordinamento intersindacale non ha fornito solo una cornice per l’indagine sui fenomeni di originarietà normativa nel campo dei rapporti di lavoro, ma si è dimostrata anche di utile apporto conoscitivo per i vari aspetti di rilevanza degli istituti collettivi nell’ambito dell’ordinamento giuridico generale. L’impiego della dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici ha consentito la conquista di uno spazio culturale che il legalismo allora dominante, pur di fronte alla carenza di norme positive dovuta alla mancata attuazione costituzionale, manteneva preclusi, stringendo il diritto sindacale, che pur si stava formando a dispetto dell’inerzia del legislatore, nella duplice morsa del sopravvissuto sistema di concetti cresciuto sull’ordine corporativo, e di ipotesi legislative non attuali, e che mai tali sarebbero diventate.

Il contributo di Gino Giugni alla teorizzazione del pluralismo giuridico nella ricostruzione dell’ordinamento intersindacale ha rappresentato uno dei momenti intellettualmente e scientificamente più significativi della produzione giuslavoristica degli anni Sessanta, in cui la messa a profitto della più avanzata riflessione teorica nella dottrina degli ordinamenti e del nuovo corso delle esperienze contrattuali sollecitato da una nuova strategia di politica contrattuale, consentiva un approccio osservativo e metodologico più adeguato alla comprensione e alla sistemazione della realtà dei rapporti collettivi nelle loro emergenti funzioni ed istituzioni.

Come già anticipato, l’insegnamento di Giugni è visibile anche nella legislazione e regolazione sociale prodotta lungo tre decenni, spesso con la sua diretta partecipazione in veste di consulente o di parlamentare o di ministro. Basterà qui ricordare tre importanti atti della produzione normativa dovuta a Giugni: lo Statuto dei diritti dei lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n 300); la legge sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati (Legge 15 giugno 1990, n, 146) e l’Accordo tra sindacati e governo “sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo”, del 23 luglio 1993. 

Lo Statuto dei lavoratori si pone l’obiettivo di istituire e regolare il rapporto di lavoro inteso come rapporto sociale e non come mero rapporto di mercato; difatti, lo Statuto dei lavoratori è prima di tutto una regola sociale, “uno strumento – come fu detto al momento della sua emanazione –  per cambiare il potere dentro la fabbrica e, reciprocamente, una prefigurazione normativa del modo operaio di partecipare al governo dell’impresa”. Per questa ragione lo Statuto sancisce la libertà di opinione e il divieto di indagini sulle opinioni e convinzioni personali dei lavoratori; tutela la dignità e la riservatezza dei lavoratori da controlli occulti e pervasivi dell’impresa; vieta ogni comportamento discriminatorio dell’identità personale dei dipendenti, non solo in quanto lavoratori ma anche come cittadini.

L’identità personale del lavoratore coincide con l’identità collettivo-sindacale; anche quando si manifesta nella libertà negativa di non aderire ad alcun sindacato. Proprio per questo lo Statuto garantisce in modo particolare la libertà sindacale e promuove l’autonoma organizzazione sindacale dei lavoratori nei luoghi di lavoro. La teorizzazione di una legislazione di “sostegno” o “promozionale” mirava – per usare le parole di Giugni – ad incoraggiare e garantire la contrattazione e gli autori di essa, rimuovendo ostacoli giuridici e di fatto, ponendo in essere più avanzate condizioni legale e di esercizio, che non fossero quelle di mero diritto comune”.  Questo è il carattere proprio dello Statuto dei lavoratori, che lo differenzia da altre leggi (e proposte di legge), pur importanti, di tutela del lavoro e spiega l’influenza che esso ha esercitato in altri sistemi giuridici, come quello portoghese e quello spagnolo, che adottarono un proprio Statuto dei lavoratori solo qualche anno dopo il ritorno alla democrazia (giova in proposito ricordare che, in alcune interviste dei primi anni Ottanta, il presidente spagnolo Felipe Gonzalez riconosceva il positivo contributo del pensiero di Giugni sulla formazione dei giovani giuslavoristi spagnoli). Alcune norme dello Statuto sono state modificate negli anni, ma la legge mantiene ancor oggi invariato il suo valore fondamentale.

L’intervento del legislatore nella materia degli scioperi nei servizi pubblici essenziali valorizza l’esperienza della regolamentazione sindacale conferendole l’autorità di legge. Difatti, nell’emanazione della legge n. 146/1990 è stato fondamentale l’apporto delle principali organizzazioni sindacali che, grazie alla loro esperienza nella mediazione dei conflitti hanno cercato soluzioni giuridiche soddisfacenti sia per i lavoratori che per la collettività. La scelta di un così vasto richiamo alla contrattazione collettiva come fonte normativa all’interno della nuova norma è stata dettata sicuramente da ragioni di consenso sociale, ma soprattutto dalla consapevolezza che il contratto fosse l’unico mezzo per regolare situazioni diversificate e dinamiche come sono le relazioni sindacali.

 

Parte della dottrina cercò di affermare l’illegittimità costituzionale del rinvio alla contrattazione come fonte normativa in materia di sciopero, ritenendo che la disposizione dell’art. 40 della Costituzione avesse valore di riserva di legge; il problema interpretativo fu risolto ritenendo che la norma in esame non contenesse una riserva di legge, ma dovesse essere vista come un invito del legislatore a regolamentare la materia analogo a quello contenuto nell’art. 36, comma 3, della Costituzione, senza escludere la concorrenza con altre fonti. Il risultato di questo iter legislativo è stato l’emanazione di una norma che valorizzasse non solo la fonte legislativa ma che contenesse anche rinvii all’autoregolamentazione e ad altri strumenti di disciplina interni all’ordinamento sindacale e all’intervento amministrativo.

L'accordo tripartito del 23 luglio 1993 ha ridisegnato profondamente il sistema delle relazioni industriali, come non era mai accaduto in precedenza, dettando una nuova disciplina delle rappresentanze sindacali aziendali, individuando un equilibrio preciso fra contrattazione collettiva nazionale e aziendale, stabilendo il metodo di negoziazione delle retribuzioni nel quadro di una politica dei redditi nazionale che superava il meccanismo della scala mobile. Riforme, queste, che non richiedevano interventi legislativi per essere attuate e che nel decennio successivo hanno avuto un tasso di effettività tanto elevato quanto inconsueto nella storia delle politiche del lavoro nel nostro paese. Riforme che hanno consentito all’Italia di conseguire risultati importanti ed in linea con gli obiettivi prefissati, come: il contenimento dell'inflazione con, allo steso tempo, la salvaguardia dei redditi reali delle famiglie; il risanamento della finanza pubblica ed il rispetto dei criteri per l'adesione all'Unione Monetaria; il rilancio della competitività delle imprese, creando le premesse per un incremento degli investimenti ed il miglioramento dei livelli occupazionali. Inoltre, il nuovo assetto contrattuale introdotto dal Protocollo del 23 luglio 1993 ha favorito un clima di bassa conflittualità sociale, ponendo le basi di un modello di relazioni industriali concertativo e maggiormente partecipativo.

Di Gino Giugni tutti ricordiamo lo stile sobrio, proprio dei maggiori studiosi del Novecento, la profonda cultura, non solo giuridica, l’acuta capacità di comprendere il sistema politico italiano, qualità che gli permettevano di confrontarsi con i suoi interlocutori, quali che essi fossero, preservando l’integrità di quella scienza che Giugni aveva alimentato con centinaia di pubblicazioni e relazioni, e con interventi sui temi più delicati della vita  pubblica, come quelli relativi alle riforme. Le opere di Giugni sono divenuti dei classici del diritto del lavoro e delle relazioni industriali.

Domenica, 18. Ottobre 2009
 

SOCIAL

 

CONTATTI