Giugni, il testamento politico di un riformista

Una flessibilità del lavoro da non confondere con le ricette neo liberiste. La concertazione come strumento fondamentale per risolvere il problema della governabilità fondata sul consenso. Come proseguire sulla via che ci ha indicato

Gino Giugni è stato un maestro del diritto del lavoro e un grande riformatore delle politiche sociali. Lo riconosciamo tutti, colleghi, allievi delle diverse scuole, politici ed esperti. Io personalmente lo posso testimoniare con piena conoscenza per avere seguito da vicino la sua opera per lunghi anni. Fin dal 1964, quando incontrai per la prima volta Giugni  al mio ritorno dagli Stati Uniti dove avevo in parte seguito, senza saperlo, la sua esperienza  di “immersione” nella cultura del Nord America, dal realismo giuridico della scuola di Chicago, al neoistituzionalismo degli studiosi del Wisconsin.

 

Io venivo da studi di diritto Privato, con forti intonazioni sistematico-formali, alle quali mi aveva avviato  il prof. Luigi Mengoni con cui mi ero laureato all’Università Cattolica. Già dal primo incontro con Giugni pensai che quella era la strada che dovevo intraprendere, la mia strada. Ne sono ancora, più che mai, convinto. Anche per questo ricordo Giugni con la commozione  e il dolore di chi ha perso il suo maestro e un amico carissimo.

 

E’ difficile indicare i temi principali dell’insegnamento di Giugni, perché egli ha ispirato direttamente o indirettamente per mezzo secolo tutte le principali innovazioni e riforme del diritto del lavoro. Egli ha operato direttamente sulla legislazione quando era ministro del lavoro (nel 1993) e presidente della commissione Lavoro al Senato (dal 1983 al 1994); prima ancora nel lungo periodo in cui è stato consigliere di ministri (a partire da Giacomo Brodolini), un consigliere autorevole fino ad essere decisivo per l’azione del ministro.

 

L’influenza indiretta è quella espressa con la sua attività di giurista. Anche quella indiretta è stata incisiva; si pensi all’importanza  delle sue leggi sull’autonomia collettiva in ordine alla concezione e poi alla pratica affermatasi in Italia circa il rapporto fra fonti legali e contrattazione collettiva. Certe prese di posizione di Giugni hanno inciso con straordinaria tempestività e incisività su importanti episodi di politica del diritto: dalla legislazione sui licenziamenti degli anni 1960, al cosiddetto diritto del lavoro dell’emergenza e alla flessibilità regolata fra gli anni ‘70 e ‘80, alle riforme attivate dalla concertazione degli anni ‘90.  Le sue proposte e intuizioni hanno avuto contenuti molto più ampi delle riforme effettivamente concluse.

 

Il primo insegnamento di Giugni che voglio qui richiamare è e di metodo. La sua opera ha saputo combinare il rigore e l’impianto riformista, che gli veniva dal pensiero giuridico  di inizio Novecento, italiano e tedesco, il socialismo della cattedra, con la sensibilità alla realtà sociale e dei rapporti collettivi, propria della scuola del Wisconsin. Di qui la “trama di coerenze, di metodo e di ideologia” che sostengono tutta l’opera di Giugni legislatore e politico del diritto: l’adesione a quel pluralismo conflittuale che costituirà un referente culturale decisivo dei moderni sistemi di diritto del lavoro e di protezione sociale; la valorizzazione della riforma come valore in sé, anziché come un passo verso una nuova società preconfezionata; un riformismo sociale che trae alimento dall’osservazione empirica  e da apporti di discipline diverse dal diritto, il valore attribuito all’autonomia collettiva, come sistema capace di produzione normativa, di amministrazione e anche di giurisdizione (la conciliazione e l’arbitrato).

 

Questo orientamento trova la sua prima sistemazione e cornice metodologica nel saggio sull’autonomia collettiva del 1960: una vera opera di rottura, che provoca forti reazioni, dai pochi che ne colgono l’importanza, ma che segna – come si vedrà nel tempo – una svolta storica: cioè la conquista   di uno spazio culturale a fronte del legalismo allora dominante che impediva una considerazione autonoma del fenomeno sindacale e della contrattazione collettiva.

 

La teoria della pluralità degli ordinamenti ha contribuito a spostare l’attenzione teorica e poi politica della concezione statalistica tradizionale del nostro diritto del lavoro a una prospettiva pluriordinamentale nella quale l’autonomia collettiva assumeva, o poteva assumere, carattere di fonte regolativa dei rapporti di lavoro. La liberazione da questa tradizione statalistica ha un grande rilievo non solo se si considerano i rischi politici nel contesto degli anni ’50 di una legislazione modellata sull’art. 39, ma anche alla luce  delle vicende successive del nostro sistema sindacale che lo mantengono in uno condizione di abstension of the law, pressoché unica nell’Europa continentale. Questo insegnamento di Giugni non vale solo come antidoto all’interventismo legislativo. Invita i giuristi e lo stesso legislatore a guardare ai prodotti dell’autonomia collettiva per ricercare le linee evolutive del nuovo diritto del lavoro. A questa indicazione Giugni sarà sempre fedele, anche quando gli eventi lo smentivano.

 

Egli ha sempre sostenuto la necessità di modulare le regole e le politiche del lavoro alla luce delle trasformazioni sociali, pur mantenendo fermi i grandi principi costituzionali. Una innovazione fondamentale che discende da questo insegnamento di metodo riguarda il rapporto fra legge e contrattazione collettiva; e avrà un’influenza determinante nella configurazione dello Statuto dei lavoratori. Ha portato a superare la iniziale impostazione “costituzionalista”, sostenuta dalla sinistra e dalla CGIL. La critica di Giugni a questa impostazione è che la sola sanzione giuridica dei diritti dei lavoratori, quelli contenuti nel Tit. I della legge, è inadeguata perchè la mera sanzione dei diritti fondamentali non ne garantisce l’effettività, se non si rende possibile esercitarli in forme collettive all’interno delle aziende  e, come più ambiziosamente scriveva nel 1956, se non si costituisce una reale democrazia industriale  fondata su un equilibrio di potere fra rappresentanze operaie e vertici dell’impresa. Questa è la concezione base della legislazione di sostegno dell’attività sindacale in fabbrica, che risente dell’esperienza americana del New Deal e che porterà al Tit. III dello Statuto.

 

Le implicazioni più ambiziose della proposta di Giugni, riguardanti la democrazia industriale, non dovevano invece avere seguito nelle vicende italiane, nonostante Giugni sia più volte ritornato sull’argomento, con dovizia di argomenti, arricchitisi delle direttive europee. La legislazione  sulla democrazia industriale doveva  restare una delle sue proposte inattuate di politica del diritto. Gli ostacoli all’accettazione di forme partecipative, ulteriori rispetto ai diritti di informazione e consultazione, erano così fortemente radicati, sia negli orientamenti conflittuali di gran parte del sindacato, sia nelle concezioni ‘conservatrici’ prevalenti fra gli imprenditori, da risultare insuperabili. Il tema della partecipazione non verrà ripreso neppure nei momenti salienti segnati dagli accordi del 1983 e del 1993; e Giugni doveva registrare questo significativo silenzio senza commenti, quasi con rassegnazione. Chissà se il dibattito attuale e i ddl oggi in discussione al Senato saranno in grado di dare seguito a quest’idea di democrazia industriale?

 

Un carattere originale dello Statuto fu l’introduzione dell’art. 18 sulla reintegrazione in caso di licenziamento che non c’era nella versione originaria. Sul punto Giugni ha mantenuto non solo allora un atteggiamento di distacco; scrivendo ne La lunga marcia della concertazione del 2003, ha affermato “oggi non lo riscriverei nello stesso modo”. E aggiungeva un richiamo all’importanza dell’arbitrato come unica alternativa possibile ai meccanismi dilatori della giustizia ordinaria. Anche questo della giustizia arbitrale, o come si dice oggi delle AdR, è un motivo di politica del diritto sviluppato da Giugni alla stregua delle esperienze anglosassoni fin dagli anni 60: ma è un altro tema rispetto al quale le proposte di Giugni sono rimaste purtroppo disattese. E non solo negli anni ‘60, quando potevano sembrare premature, ma fino ai giorni nostri, per una opposizione della CGIL che anche a me è sempre parsa ingiustificata e alla fine controproducente per la effettiva giustiziabilità dei diritti dei lavoratori.

 

L’applicazione dello Statuto  e gli eventi successivi delle Relazioni industriali hanno spesso dato adito a critiche, anche nei confronti del suo autore; critiche che hanno imputato alla legge e alla sua attuazione giurisprudenziale la eccessiva conflittualità delle nostre Relazioni Industriali. Anch’io mi sono interrogato più volte su questo punto e ho condiviso la valutazione di Giugni, secondo cui una legge come lo Statuto non ha creato, ma semmai portato alla luce tensioni che già esistevano.

 

Il punto è che queste tensioni non sono state adeguatamente controllate dal sistema. La scelta di  promozione senza regolazione legislativa del sindacato non è stata cioè compensata da una regolazione consensuale dei rapporti collettivi ad opera delle parti sociali. E’ questo un punto critico non solo nelle vicende del periodo ma dell’intero assetto dei rapporti sindacali nel nostro paese. Si registrò allora, e continuerà dopo, una sfasatura fra le politiche del diritto di ispirazione riformista, quali lo Statuto, e politiche sindacali caratterizzate da riformismo debole e da impostazioni rivendicative conflittuali (se non antagonistiche) non risolte.

 

Questa combinazione  di riformismo debole e di impostazioni rivendicative spesso estreme, continua a pesare sull’efficienza  e sull’equità del nostro sistema; anche oggi che la conflittualità è crollata e che il sindacato è in grave difficoltà.

 

Un altro aspetto dell’opera di Giugni tuttora di grande attualità riguarda le proposte in tema di governo e di flessibilità del mercato del lavoro. Già nella relazione all’AIDLASS del 1982 egli avvertiva che le trasformazioni produttive e del lavoro, allora appena incominciate, avrebbero messo in discussione il tradizionale approccio garantistico rigido del diritto del lavoro. E proponeva di ripensarlo in due direzioni solo in parte seguite. Anzitutto con un’opera “destruens” diretta a razionalizzare, sfrondare, eliminare tutte le forme di spreco e di garantismo sproporzionato, per adeguare le tutele ai bisogni sociali effettivi che invece restano spesso scoperti, per proteggere in particolare i lavori atipici, allora sconosciuti e poi moltiplicatisi.

 

In secondo luogo Giugni proponeva  di usare tecniche regolative graduate. Una deregolazione vera e propria era utile solo nei casi di comprovata inadeguatezza delle vecchie norme, come quelle sul collocamento, la cui riforma fu avviata da Giugni ministro in un ddl del 1993 e poi completata dalla legge 196/1997.

 

In altri casi serviva una riregolazione per una flessibilità negoziata dalle parti sociali. Questa strada sarà seguita in molti ambiti: ad esempio in tema di contratti a termine (legge 56/1987), di contratti di solidarietà (legge 863/1984), di indennità di fine rapporto (legge 297/1982), di gestione delle crisi aziendali (legge 223/1991). Ma indicazioni simili sono già nella legislazione  sul costo del lavoro del 1997 e nella legge 297/1982 sull’indennità di fine rapporto, su cui Giugni incide direttamente come presidente di una apposita commissione ministeriale. 

 

Come si vede l’obiettivo di fondo è di rafforzare gli istituti dell’autonomia collettiva  per sostenere  una flessibilità negoziata del sistema garantistico.  Per questo Giugni ci teneva a ribadire, allora come in seguito, che la sua dottrina della flessibilizzazione e quella realizzatasi nei fatti non è da confondere con una forma di neo liberismo. E’ una risposta necessaria alle nuove tendenze del mercato del lavoro e delle relazioni Industriali. E’ finalizzata a combattere la crescente segmentazione di questo mercato, la diversificazione dei lavori e delle professioni, il mutamento delle aspettative dei lavori, con una maggiore aspirazione verso la libertà individuale nella determinazione delle condizioni di lavoro, specie per le qualifiche più elevate, nonchè ad alleggerire il carico normativo che è uno dei sintomi della crisi del welfare state.

 

Alla luce delle esperienze successive agli anni ’70, Giugni ha ritenuto necessario rafforzare il sistema di relazioni industriali con altri interventi di sostegno, proprio per compensare la scarsa capacità di questo di autoregolarsi. Già in un progetto del 1983 riteneva necessaria “la definizione di regole legislative nuove” specie per quanto attiene alla legittimazione delle parti, all’efficacia degli accordi e alla gestione del conflitto. Queste indicazioni sono ancora una volta lungimiranti. Troveranno parziale seguito in tema di regolazione del conflitto per il settore dei servizi pubblici, traducendosi nella legge 146 del 1990 approvata sulla spinta di un evento eccezionale, come i campionati mondiale di calcio. Giugni indica la legge 146 come uno degli esempi più fecondi di integrazione fra  autonomia collettiva e intervento legislativo.

 

Gli altri due temi, rappresentatività sindacale e regole sul contratto collettivo, si riveleranno invece resistenti all’intervento riformatore; salvo la formula sulla misura della rappresentatività nel Pubblico Impiego, approvata nel 1998  in un momento felice del governo Prodi e dell’unità sindacale. La resistenza non sarà superata neppure a seguito del patto sociale del 1993; concluso con il decisivo contributo di Giugni come ministro del Lavoro. Eppure questo Patto costituì, a detta di Giugni, in uno dei momenti di raro compiacimento, un “piccolo miracolo” della concertazione.

 

Il miracolo è stato decisivo nello stabilizzare l’inflazione e quindi l’economia italiana nei burrascosi anni seguenti. L’accordo ha avuto seguito molto parziale  per gli altri suoi contenuti di applicazione non automatica, cioè che richiedevano riforme attuative. Il risultato più concreto fu la legislatura di riforma del mercato del lavoro, lungamente preparata da Giugni  e che si tradurrà nell’Accodo del 1996, preparatorio della legge 196/1997.

 

Sono invece restate inattuate fino ad oggi altre parti, cui pure Giugni dava grande importanza: non solo le regole sulla rappresentatività sindacale e sull’efficacia della contrattazione collettiva ma  la razionalizzazione ed estensione degli ammortizzatori sociali, che resta tuttora l’urgenza più evidente del nostro sistema. La sua mancata realizzazione pregiudica una gestione socialmente accettabile  della flessibilità e della mobilità. Penso anche alle proposte di nuove tutele per i lavori cd. atipici, cui Giugni pensava e ci incoraggiava a darvi seguito. Infine ricordo i suggerimenti per la revisione del patto sociale del 1993 forniti nel 1998 dalla commissione da lui preceduta, rivelatisi ancora attuali e utili nelle travagliate vicende che hanno portato all’Accordo del 22 gennaio 2009  sulla struttura contrattuale.

 

L’esperienza del protocollo del 1993 e il consenso ottenuto suggeriscono  - secondo i commissari - l’opportunità di procedere non a radicali modifiche, ma a una revisione rivolta a consolidare i risultati  raggiunti, in particolare sul sistema di relazioni industriali. La continuità delle linee di fondo e  la stabilità  del quadro normativo sono elementi  fondamentali per evitare rotture del contratto sociale; una preoccupazione sempre presente per un riformista innovatore come Giugni.

 

Anche in questo caso Giugni ribadisce che per attuare queste innovazioni non basta il richiamo all’autodeterminazione delle parti e che occorre un sostegno alla contrattazione, con misure diverse a seconda dei casi. Per premiare la negoziazione di retribuzioni flessibili egli propone un sostegno monetario, la cosiddetta decontribuzione dei salari negoziati in sede decentrata e connessi a indici di produttività (la misura sarà introdotta subito dopo ma in quantità ridotta e, a quanto si riscontrerà in seguito, con debole efficacia).

 

Per sostenere una amministrazione bilaterale del contratto e delle controversie collettive Giugni rilancia un’altra sua proposta: quella di costituire l’Agenzia per la contrattazione collettiva, sul modello anglosassone. Le indicazioni del rapporto sulla struttura contrattuale si incentrano sulla necessità di approfondire ulteriormente la differenza funzionale dei livelli contrattuali  assegnando al contratto nazionale l’obiettivo primario di difendere il potere di acquisto delle retribuzioni e accrescendo la specializzazione della contrattazione decentrata (aziendale ma anche territoriale).

 

Il rapporto della Commissione rappresenta un atto di fiducia nella concertazione, nella necessità di riprenderla, ma di arricchirla per adeguarla ai nuovi obiettivi richiesti dalle trasformazioni economiche e sociali e alle istanze di nuovi attori, come le autonomie locali  in seguito alle competenze derivate dalla legislazione sul decentramento (fino al Tit. V della Costituzione). La fiducia di Giugni nella concertazione è maturata dal convincimento che in una società complessa il metodo di governo e la concertazione si devono articolare in modo da offrire nuovi tracciati per la canalizzazione del consenso. Non a caso il suo ultimo contributo è tutto dedicato alla concertazione.

 

La concertazione, ci ricorda “è ben più di una mera tecnica di mediazione nell’area delle relazioni pluralistiche, è uno strumento fondamentale per risolvere il problema della governabilità fondata sul consenso; e questo nei regimi democratici, fondati sull’alternanza fra forze politiche di diverso orientamento, è il modo per assicurare alla maggioranza politica la continuità”.

 

Per questo Giugni ha sempre ritenuto che le riforme del lavoro devono essere costruite con il consenso sociale, come fu lo Statuto del 1970 e come furono le principali leggi degli anni ’90. Per questo egli è sempre stato un sostenitore dell’autonomia  e dell’unità del sindacato, perché questo potesse essere parte autorevole del riformismo sociale. La debole capacità riformatrice del nostro sistema politico e sindacale era un cruccio per Giugni: ed ha impedito l’attuazione di molti progetti  innovativi da lui avviati e anche da noi coltivati, secondo i suoi insegnamenti.

 

Giugni si è impegnato nell’intero corso della sua vita a superare il deficit di riformismo del nostro paese, senza demordere di fronte alle resistenze, continuando a diffondere i suoi insegnamenti con la fiducia nella persuasione e nella cultura. Allo stesso fine si è dedicato all’attività politica, nel partito, il PSI, nel Parlamento, come presidente della commissione Lavoro  del Senato, e come ministro del Lavoro. Lo ha fatto con la coerenza, con il disinteresse, con la signorilità che lo hanno sempre contraddistinto. Anche questo è insegnamento prezioso, da me particolarmente sentito, e che ha influito su tanti studiosi e operatori attivi nel mondo del lavoro, sindacalisti, imprenditori e politici.

 

I contributi di Giugni sono stati largamente apprezzati, ma lo hanno anche esposto, come altri riformisti, alle critiche degli estremisti, e all’attentato terroristico di cui egli fu vittima nel 1983.

Giugni ci lascia in un momento critico non solo per il mondo del lavoro ma per la vita democratica del paese. Ci lascia però indicazioni preziose: l’importanza di unire il rigore delle ricerche con la curiosità  dell’innovazione e con la sensibilità ai problemi delle persone che lavorano; la fiducia nel dialogo e nella possibilità di riforme lungimiranti sostenute dalla forza della ragione, dalla passione e dalla coerenza politica. Rigore, voglia di innovazione, sensibilità al mondo del lavoro, fiducia nel dialogo, sono doti che Giugni ci ha insegnato a coltivare. Sono le risorse cui attingere per attuare politiche riformiste, utili al benessere collettivo e allo sviluppo delle persone.
Domenica, 18. Ottobre 2009
 

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