Giorgio Ghezzi e quei 61 della Fiat

Domani 18 gennaio si svolgerà nell'Aula Magna dell'Università di Bologna una cerimonia in ricordo di Giorgio Ghezzi deceduto un anno fa. Pubblichiamo l'intervento di un collega che gli fu molto vicino.
Per dire di Giorgio, del suo itinerario culturale, del suo progetto di vita e della sua maniera di realizzarlo, è lui stesso che ci orienta nella giusta direzione.
Lo fa regalandoci frammenti dell'autobiografia che non scrisse, benché ne avesse l'attitudine e dovesse esservi sollecitato da un'estesa gamma di esperienze esistenziali che gli avevano fornito i materiali necessari per una riflessione filtrata dalla memoria; una memoria che aveva fortissima. Per questo, oggi mi rimprovero di non averlo esortato abbastanza a prendere in seria considerazione l'eventualità che gli prospettavo ed essermi invece arreso alla sua discrezione, che lo portava a ravvisare nel cedimento a quella che gli pareva una lusinga un gesto di umana vanità contrastante con l'immagine - nella quale si riconosceva più volentieri - di chi "sa sorridere sulla sua piccola storia personale". 

Può darsi che neanch'io fossi persuaso della bontà del consiglio. Ma proprio questa è la cosa che non riesco a perdonarmi, perché tutt'al contrario avrei potuto e dovuto giovarmi di un argomento eccellente per non desistere.

Da me incoraggiato, nella tarda primavera del 1981 Giorgio aveva dato alle stampe un agile volume nel quale, con inusuale velocità di stesura e col piglio di una grande firma del giornalismo specializzato, aveva ricostruito la tranche de vie che lo aveva visto tra i protagonisti di un evento che produsse una svolta epocale nelle relazioni sindacali e di lavoro in Italia con ricadute immediate sulla loro governabilità in base alle regole esistenti. Ebbene, Processo al sindacato - questo è l'efficace titolo del libricino - rivela in lui la vena pungente e demistificante che è il segno caratteristico dell'intellettuale reduce da un numero imprecisato di battaglie ideali, ma capace di parlarne alla gente comune coniugando il sapere con la verve e l'auto-ironia.

Il "piccolo saggio" traccia "un quadro critico e tuttavia - per più di un aspetto - anche autocritico" della vicenda politica, sindacale e giudiziaria aperta dal licenziamento di 61 operai deliberato nell'ottobre del 1979 dalla Fiat  con una sommaria motivazione che accreditava l'impressione che fossero tutti terroristi o giù di lì. Con quel licenziamento la Fiat intercettava una comprensibile voglia trasversale di normalizzazione, assecondando l'inclinazione dell'opinione pubblica moderata a "fare di ogni erba un fascio", stabilendo un nesso di causalità tra la fisiologia del conflitto sociale nei paesi industrializzati e la patologia della sua degenerazione nel terrorismo vero e proprio. "Gli spari delle br", scriverà Marco Revelli, "non ruppero il silenzio operaio. Contribuirono a renderlo più pesante", come se la conflittualità sindacale - quella che storicamente ha funzionato da fattore di accelerazione del progresso - fosse trattenuta dal timore di essere fraintesa e criminalizzata.

Confesso che non faticai a convincere Giorgio a scrivere la storia del processo.
In qualità di membro del collegio di difesa reclutato dalla Federazione unitaria dei metalmeccanici, Giorgio aveva occupato un osservatorio privilegiato che gli aveva consentito di monitorare flussi di dati e informazioni di prima mano. Si era impadronito della cassetta degli attrezzi occorrente per misurare tutte le vibrazioni e le scosse che investivano un luogo simbolico del sindacato e dell'industria ormai trasformato nell'epicentro del movimento sismico che si sarebbe manifestato con effetti devastanti l'anno successivo, culminando nella marcia dei 40.000 a Torino.
 
Ebbe l'opportunità di condividere tutte le ansie e partecipare a molte delle decisioni attraverso le quali si sviluppò una vertenza da cui sia il sindacato che l'industria sarebbero usciti diversi da come erano quando la cominciarono, anche perché la condussero senza esclusione di colpi, con un'intransigenza da mors tua, vita mea. Perciò, è durante un'esperienza ricca di pathos e intensamente vissuta che - senza forse averne nitida la percezione - cresce dentro di lui non tanto il desiderio quanto piuttosto il bisogno di raccontarla, documentandone gli snodi con la meticolosità di un ricercatore abituato alla severità del metodo scientifico.

No, non dovetti insistere molto. Ma non perché entrambi commettevamo l'errore di sottostimare la difficoltà per uno scrittore isolato di fronteggiare i centri di potere mediatico che, cavalcando l'onda lunga dell'effetto inquinante del terrorismo armato, somministravano dosi massicce di quella che nel medesimo arco di tempo Bruno Trentin definiva "cultura del riflusso". Giorgio per primo se ne rendeva conto. Troppo vigile era il suo senso del ridicolo per mettersi in testa di esercitare il ruolo di Davide. Il suo intento, infatti, non era quello di sfidare Golia né tanto meno di abbatterlo. L'intento era diverso. Giorgio si proponeva di prevenire ciò che solitamente avviene quando è sgradevole rammentare: la rimozione di quel che è successo.

Per questo, con l'obiettività che "il trascorrere del tempo permette anche a chi è stato tra i difensori costituiti in causa", Giorgio ripercorrerà la drammatica vicenda col proposito di offrire "un contributo per una migliore comprensione di una realtà" che nel giro di pochi mesi aveva conosciuto "accelerazioni vorticose" le quali, per quanto sostenute da una volontà di "rivincita imprenditoriale" nei confronti di un'egemonia sindacale diventata intollerabile, costringevano il sindacato ad interrogarsi nell'ampia misura in cui la vicenda era interpretabile come un sintomo della sua crisi: crisi di rappresentatività, d'identità, di progettualità.

Come dire che Giorgio presagiva in netto anticipo quel che capita adesso. Adesso, è normale che, al termine di incontri pubblici o privati, in Italia o all'estero indifferentemente, in cui si è discusso - in quasi tutti, più mestamente che animatamente - del sindacato e del suo ruolo nella società contemporanea, i parlanti che gli sono tuttora affezionati si congedino con la sensazione di avere celebrato i funerali d'un caro estinto e col presentimento che ormai non resti nient'altro da fare che elaborare il lutto. Talvolta, capita persino che gli intervenuti non sappiano con precisione nemmeno se stanno parlando della stessa cosa. E ciò perché, la parola "sindacato" è diventata polisensa.

Giorgio, però, a cui  non era sfuggita la sindrome della malattia sapeva che, quando un essere umano colpito da un'infermità grave ne guarisce, si suol dire che sembra rinato. Non diversamente, era persuaso che un giorno la parola "sindacato" sarebbe ridiventata uno strumento affidabile di comunicazione e dunque si sarebbe potuto dire che è nata due volte.

Questa era la speranza che consegnò a pagine autobiografiche, facendomi rimpiangere che non ne abbia scritte altre. Ad eccezione di Processo al sindacato, bisogna infatti accontentarsi di scarni tocchi autobiografici disseminati casualmente, anche se casualità non equivale necessariamente a disordine: in questo caso, parlerei piuttosto di rapsodica continuità.  

Una prima volta, lo spunto gli è offerto dalla raccolta antologica di alcuni dei suoi scritti. Persino la loro selezione ha di per sé sapore autobiografico, nel senso "intimamente costruttivo" - chiarito da Giorgio nella presentazione dell'antologia - che essa ubbidisce all'esigenza di riproporre ai giuristi, specialmente ai meno giovani, elaborazioni legate in prevalenza a giovanili vicende intellettuali: un po' per "contestare, se non altro in ispirito, la relativa prossimità del pensionamento" e un po' per "metter meglio a fuoco idee e suggestioni riferite all'oggi o, meglio ancora, al domani".
Evidentemente, non possono essere vicende qualsiasi. In realtà, hanno segnato in profondità un'intera generazione di giuristi del lavoro. Anzi, neanche le generazioni successive hanno potuto evitare di misurarsi coi loro effetti, senza magari conoscerne l'origine.

Tornandoci sopra qualche anno più tardi dietro invito esplicito, Giorgio spiegherà più estesamente come il diritto del lavoro italiano nel dopo-costituzione sia costellato delle "più grandi speranze che ha suscitato" ed insieme delle "molte illusioni che ha cancellato". Speranze e illusioni che Giorgio ha vissuto con la dispendiosa generosità di chi è convinto perlomeno della loro "inutile necessità", come direbbe l'inventore del teatro dell'assurdo.

Infatti, c'è un tratto del carattere di Giorgio - l'inesausta combattività - che ha continuato a sorprendermi anche dopo averne trovato la spiegazione. La più razionale e persuasiva mi sembrò e mi sembra questa: può proporsi, perseguire e rinnovare obiettivi che non ammettono risparmi di energie soltanto chi, come Giorgio, è un idealista senza illusioni. Un uomo cioè che la sconfitta non scalfisce più di quanto la vittoria non gli dia motivo per inorgoglirsi. Non facendosi illusioni, la delusione non lo spaventa. Non lo frena. Non lo induce a rassegnarsi. Casomai, lo rende più maturo e lo dispone a rilanciare, anche alzando la posta in gioco.

Bisogna riconoscere che la capacità di unire utopia e disincanto - una capacità che Giorgio conservò integra fino alla fine dei suoi giorni - ha rari riscontri. Per certo, nessuno ch'io conosca ha fatto della felice intuizione di un sagace saggista contemporaneo - che anche Giorgio apprezzava - la chiave di lettura d'un'intera esistenza: il disincanto, ha scritto Claudio Magris, "è un ossimoro, una contraddizione che l'intelletto non può risolvere e che solo la poesia può esprimere e custodire, perché esso dice che l'incanto non c'è più, ma suggerisce che, nonostante tutto, può riapparire quando meno lo si attende".

Per Giorgio, insomma, il disincanto non era altro che "una forma agguerrita della speranza".

Martedì, 17. Gennaio 2006
 

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